Vivere in QUESTA dittatura

Dittatura

Abbiamo sempre pensato che il termine “dittatura” riguardasse altri: altri Paesi, altri popoli, altre epoche. Soprattutto, non abbiamo mai preso in seria considerazione il fatto di dover vivere in una dittatura. Certo, conosciamo tutti i limiti delle democrazie occidentali, di quella italica in particolare, ma ci siamo, per così dire, accontentati di vivere in un sistema imperfetto, decantandone i difetti e le contraddizioni, guardando magari con invidia i paesi nordici, ritenuti a torto o ragione più avanzati socialmente, perché l’alternativa paventata ma inconsciamente ritenuta impossibile, era, appunto, la dittatura. Su questo terreno pensavamo di aver fatto la nostra parte in passato e che ciò ci avrebbe immunizzato per l’avvenire: una sorta di vaccino storico!

Così, tra una commemorazione e l’altra, tra corone ai caduti ed esecrazioni di dittature passate, tra un libro di storia e un Cinema Luce, tra un film di guerra e una esaltazione del sistema democratico, ci siamo formati una idea stereotipata non solo di democrazia, ma anche di dittatura.

Non è certo questo l’unico caso di pensiero rigido, morto, un pensiero rivolto sempre al passato, non più in grado di immaginare il nuovo, imprigionato in schemi di ogni genere. In ogni caso, molte persone rifuggono l’idea che in Italia si sia instaurata una dittatura perché non vedono le forme classiche che ne dovrebbero attestare l’esistenza: camicie nere, occupazione della RAI e del Parlamento con proclami alla nazione, carri armati e così via.

Cerchiamo intanto una definizione del termine “dittatura”:

Forma di governo autoritario che accentra tutto il potere in un solo organo collegiale o nella sola persona di un dittatore. (Zingarelli)

La definizione è precisa e calzante come concetto, e non ne descrive, ovviamente, le forme specifiche che essa può assumere, perché esse variano secondo le situazioni e i tempi.

Molti di coloro che vedono e denunciano la deriva autoritaria che si è instaurata in Italia, citano esempi e analogie con forme di dittatura del passato: naziste, fasciste, staliniste ecc. Io credo però che, malgrado queste somiglianze esistano, sarebbe più opportuno cercare di comprendere sempre più a fondo le caratteristiche e le forme che questa dittatura ha assunto e va assumendo, forme in continua evoluzione.

Il confronto col passato può essere utile, ma al solo fine di metterci in guardia proprio dal fatto che quelle dittature erano state riconosciute come tali solo quando era troppo tardi per poterle contrastare, e che, proprio come ora, non si erano avvertiti i prodromi, le manifestazioni iniziali, vorrei quasi dire le atmosfere nelle quali esse potevano crescere e potenziarsi.

Come sempre, si tratta dunque di omissioni.

Le forme che allora erano nuove noi oggi le conosciamo, ma se ci aspettiamo di ritrovarle inalterate e ci appoggiamo solo su queste similitudini, ci sfuggono le caratteristiche uniche di questa dittatura, qui e ora, perché nulla si ripete mai con le stesse modalità.

Vediamo intanto come definirla, questa dittatura, perché il nome è anch’esso molto importante. Lo possiamo constatare da come lorsignori cercano di trasformare anzitutto le parole, prima ancora della realtà, o anche di mantenere invariate le parole per contenuti opposti: così un farmaco genico sperimentale è denominato vaccino anche se non contiene l’antigene, una guerra missione di pace, l’invasione di un Paese diventa esportazione di democrazia, una persona sana e senza sintomi di malattia diventa malato potenziale, e così via.

Così non ci stupiamo se una dittatura è denominata democrazia.

Quella attuale potremmo definirla dittatura sanitaria, oppure politica, mediatica; tutte definizioni realistiche e accettabili. Ma il termine che, a mio avviso, è il più aderente alla realtà, quello che meglio ne coglie e caratterizza l’unicità è dittatura tecnocratica, poiché è attraverso la tecnologia, oggi quella digitale, che tutte le altre sono possibili.

Dunque la tecnologia non come strumento che ne facilita l’attuazione, ma come ESSENZA della dittatura stessa.


E’ attraverso essa che che viene attuato e sempre più verrà implementato il controllo capillare e sistematico di tutti i movimenti e comportamenti individuali, da quelli sanitari a quelli di spesa, di abitudini, ma anche di quelli culturali e spirituali, di orientamento di pensiero.

Si potrebbe obiettare che la tecnologia disponibile nelle varie epoche è sempre stata al servizio di dittature di vario tipo e che oggi avviene qualcosa di simile. Ma mentre in passato il possesso di una tecnologia, ad esempio la bomba atomica, veniva usata contro un Paese considerato nemico, oggi viene usata contro tutti noi, identificati come possibili o potenziali malati, possibili criminali e terroristi, possibili “no qualcosa”, possibili esseri pensanti…

Un esempio chiarirà meglio ciò che voglio sostenere. Durante il nazismo, la IBM, i cui computer erano già funzionanti, ha fornito ai nazisti la possibilità di identificare con certezza e rapidità le linee di discendenza ebraica e poter organizzare la famosa “notte lei cristalli”, tra il 9 e il 10 novembre 1938, che diede il via alla persecuzione degli ebrei guidata da Goebbels. Naturalmente IBM agiva in Germania con un altro nome: Dehomag (l’importanza dei nomi…).

La differenza è proprio questa: allora la tecnologia ha accelerato un processo, ma la persecuzione sarebbe avvenuta ugualmente, e in ogni caso riguardava un popolo; oggi questa tecnologia e la sua rapida evoluzione (si pensi al 5G che si espande rapidamente) non serve ad accelerare il processo di controllo delle coscienze umane, NE È L’ESSENZA, perché senza di essa non sarebbe possibile. Inoltre stiamo parlando di un fenomeno mondiale, anche se qui mi limito ad occuparmi dell’Italia.

Così sembra incredibile che, mentre si sta allestendo il vero Truman Show, quasi tre milioni di italiani ancora seguano, con trepidazione e attesa, le vicende del Grande Fratello, non so se quello normale o vip, ma poco importa. Anche questo è parte della rappresentazione: venghino signori, venghino…

Scendiamo più nei dettagli per caratterizzare questa dittatura di cui l’Italia è ancora una volta capofila nello sperimentarne la fattibilità; si, siamo campioni europei anche in questo, non solo nel calcio.

Rileviamo anzitutto un fatto significativo: manca la figura del dittatore, in quanto questi burattini al governo, compreso il suo capo, e anche finta opposizione, sono squallidi e cinici burocrati, servitori di poteri sovranazionali, meri esecutori di decisioni altrui, di coloro che perseguono un disegno ben preciso: il controllo delle coscienze umane. Ciò nondimeno, essi sono comunque pericolosi, ma nessuno di loro ha la stazza che, nella loro tragicità, hanno i veri dittatori. In ogni caso la mancanza del dittatore è anch’essa funzionale allo scopo di mascherare questa dittatura e farla sembrare il suo contrario. Il burattinaio può sostituire i burattini in qualunque momento, e senza preavviso, sacrificandoli all’occorrenza, se questo è utile al disegno, poiché sono tutti ricattabili.

Dunque, una dittatura tecnocratica non ha dittatori, non ha volto, non ha vere e proprie persone dotate di un io; è come quando telefoni, ad esempio, alle Poste Italiane e non ti risponde più neppure una ragazza di un call center in Albania, ma una voce che ti dice: ”salve, sono una intelligenza artificiale, in cosa posso esserti utile?”. Tutto diventa asettico, impersonale, evanescente, come il cloud, la nuvola, che fa sognare realtà virtuali, mondi paralleli. Per ogni esigenza c’è un algoritmo e una piattaforma.

Questa dittatura, questo governo incontrastato della tecnologia, opera attraverso uno svuotamento del sistema democratico come l’abbiamo sinora conosciuto; ne restano i gusci vuoti, i simulacri, gli involucri; Parlamento, Governo, Corte Costituzionale, elezioni, Magistratura ecc.: li si rende inutili senza tuttavia abolirli.

Uno svuotamento analogo e di portata ancora superiore è quello che la tecnologia digitale provoca, e non da oggi, di tutto ciò che è umano, e una progressiva sostituzione col virtuale. In questi ultimi due anni ne abbiamo avuto esempi massicci in tutti i campi: medicina, scuola, lavoro, cultura. Ne abbiamo tastato la potenza, nella sua doppiezza, che si può sintetizzare in una frase: distanziati ma connessi.

Ci vorrebbero far credere che la telemedicina è una grande opportunità, la DAD una risorsa, il lavoro a domicilio un progresso e così via. Ma cosa provoca in realtà il progresso tecnologico digitale? Un progressivo esautoramento dell’uomo, di tutto ciò che è umano, e la sua sostituzione con una procedura virtuale, automatica. Una dittatura tecnocratica non può far altro che trasformare tutto ciò che è umano in dis-umano, comunque altro dall’umano, sino al trans-umano.

Bisogna allora porci alcune domande di fondo, perché vivere non in una generica dittatura, ma in questa dittatura, comporta pensieri, scelte e azioni che non possono essere mutuate da precedenti periodi storici, dal secolo scorso, se non in minima parte. Il resto deve essere prodotto da intuizioni pensanti.

Come possiamo contrastarla? E’ possibile uscirne e in che modo? Tentiamo qualche risposta iniziale, sapendo che non solo non si può essere esaustivi, ma che siamo solo all’inizio di una pratica costante nella quale conviene esercitarsi.

Dobbiamo avere chiaro anzitutto che non si tornerà come prima, ma anche se ciò avvenisse non dovremmo certo tornare alle care e vecchie abitudini consumistiche, alla vita “comoda” (almeno per chi l’aveva…). La vera opportunità importante che questo grande cambiamento ci offre è la possibilità di una trasformazione esteriore ed interiore tale che lorsignori non immaginano, o se la immaginano certo paventano: creare il veramente nuovo in tutti i campi dell’agire umano. Se avessimo cominciato a farlo per tempo, forse oggi ci troveremmo in una situazione diversa. Ma qui non è il caso di recriminare, ma di agire.

Come farlo in questa dittatura tecnocratica?

Queste riflessioni [sulla libertà umana] non possono andare a genio a coloro che sono ben sistemati in una data istituzione (sia essa sociale, politica o religiosa) e ne hanno a cuore, al di sopra di ogni cosa, la stabilità e la forza. Essi non possono avere simpatia per l’individuo. (…) Ogni istituzione, infatti, porta in sé la tendenza a porre sé stessa al di sopra dell’individuo. (…) Da ciò segue la sua simpatia per norme generali, valide per tutti: queste non sono che intenti di singoli, i quali mirano essenzialmente al potere. Se ciò non fosse, cesserebbero di imporre su altri il proprio volere, e rispetterebbero le intuizioni altrui non meno delle proprie.

Dal punto di vista morale, ogni istituzione ha dunque la tendenza a trascurare il valore fondamentale: quello di formare gli individui a quella autonomia e responsabilità, che li rende capaci di intuire ed esprimere ciò che è unico in ciascuno di loro. Al contrario, in nome della legge e dell’ordine, l’individualità viene definita come egoistico individualismo, come ribellione, come prevaricazione. Si afferma che l’individuo è irresponsabile, e non ci si rende conto di contribuire non poco a tale irresponsabilità. Infatti, quando l’istituzione fa di tutto perché l’individuo non diventi individuo, cosa avviene? Essa ne fa, o vorrebbe farne, un esecutore di leggi e di norme, un automa superiore. E poiché l’uomo è individuo, è proprio l’istituzione che così facendo ne rende inevitabile la “ribellione”, e lo accusa poi di far valere ciò che essa non ha voluto sopprimere (ma non potuto togliere). (Pietro Archiati, Libertà senza frontiere, Ed. Archiati, 2005)

Questa riflessione di Pietro Archiati, all’interno del commento sulla Filosofia della Libertà di Rudolf Steiner, ci fornisce la chiave principale da cui partire: L’INDIVIDUO.

Si tratta, in ultima analisi, di avere fiducia nella capacità di ogni essere umano di trasformare ciò che in esso è istinto, brama, natura inferiore, in intuizioni volitive morali e ideali. Ovvero, trasformare ciò che ci fa essere assoggettati a istituzioni di ogni genere, che dettano norme valevoli per la specie umana, non per l’individuo, e diventare progressivamente sempre più liberi, realmente liberi interiormente, prima ancora di dover rivendicare libertà.

Nella misura in cui divento sempre più libero ho sempre meno bisogno di rivendicarlo. E’ un processo in divenire.

In fondo cos’altro temono lorsignori se non questo?

In questi due anni, a questo riguardo, sono avvenute cose che è arduo dimenticare e che sembrano già dimenticate da molti. Ne ho già scritto numerose volte, ma giova ripetere che si è arrivati al punto di emanare norme per indicare quante e quali persone ognuno poteva incontrare, fino ad impedire il diritto al lavoro a chi non si “vaccina” (perché è questo nei fatti che si vuole, al di la dell’ipocrisia del cosiddetto tampone). E anche se è vero che un numero crescente di persone si sta accorgendo dell’inganno, coloro che per un motivo o per l’altro soppesano, nicchiano, moderano, ammettono in parte, sono ancora troppi.

Come mai?

Le menzogne, la propaganda, la paura e altro ancora non credo possano bastare a spiegare un obnubilamento di così tante persone, molte anche in buona fede. Una domanda analoga potremmo farcela anche riguardo all’attentato dell”11 settembre 2001: come è possibile che malgrado l’enorme quantità di prove che la versione ufficiale non sta in piedi, una gran maggioranza di persone continua a ritenerla affidabile?

Credo che la risposta più semplice sia che anche solo adombrare l’idea che il proprio Governo, o comunque le Istituzioni ufficiali in generale, operino addirittura contro i propri cittadini, scientemente e dolosamente, sia psicologicamente insostenibile, anche solo come ipotesi remota. Al massimo si può credere che un certo numero di persone di un reparto di intelligence sia deviato. Neppure la testimonianza ricca di prove che ha prodotto Snowden è bastata. Per molte persone è come doversi convincere che la propria madre cerca di avvelenargli il cibo che prepara.

Siamo dunque in presenza di una dittatura tecnocratica mondiale, che si esprime oggi in modo differente nei vari Stati, ma che li coinvolge tutti; una dittatura sovranazionale, melliflua, senza un dittatore percepibile, che è in grado di trasformare il significato delle parole e della realtà, di sopprimere, cancellare i fatti, di inventarne altri e farli credere veri; una dittatura tecnologica che offre comodità apparenti in cambio di cessione di diritti, o per un presunto “bene comune”, oggi sanitario, domani climatico, dopodomani magari eugenetico e così via.

Le dittature del secolo scorso, come si può allora constatare, non ci aiutano a individuare soluzioni per difendersi e per contrastarle. Non possiamo aspettarci l’arrivo dei “buoni”, non ci saranno sbarchi in Normandia, non si può espatriare, cercare aiuti all’estero.

In compenso, ciascuno di noi ha la possibilità di diventare artefice di se stesso.

Tutto quello che è stato messo in atto sinora per contrastare questa deriva non ha prodotto risultati apprezzabili, malgrado gli sforzi profusi, né sul piano legale né nelle manifestazioni. Non dico che non si debba fare questo ed altro, ma bisogna accettare il fatto che la potenza in campo, soprattutto quella mediatica è enorme. Dobbiamo prendere atto che questa situazione è stata provocata e pensata per durare. E’ ormai chiaro che si stanno facendo prove tecniche di dittatura, a tutti i livelli, da quello sanitario a quello politico e mediatico. Chi si illude che il passaporto sanitario discriminatorio cesserà con la fine della cosiddetta pandemia dovrà presto rendersi conto del contrario, come ha giustamente affermato e provato Giorgio Agamben nell’intervento al Senato: esso è il fine, non il mezzo, è lo scopo al quale (per ora) si voleva giungere.

In un articolo del 17 settembre 2021, egli scrive:

Credere infatti che il greenpass significhi il ritorno alla normalità è davvero ingenuo. Così come si impone già un terzo vaccino, se ne imporranno dei nuovi e si dichiareranno nuove situazioni di emergenza e nuove zone rosse finché il governo e i poteri che esso esprime lo giudicherà utile. E a farne le spese saranno in primis proprio coloro che hanno incautamente obbedito. In queste condizioni, senza deporre ogni possibile strumento di resistenza immediata, occorre che i dissidenti pensino a creare qualcosa come una società nella società, una comunità degli amici e dei vicini dentro la società dell’inimicizia e della distanza. Le forme di questa nuova clandestinità, che dovrà rendersi il più possibile autonoma dalle istituzioni, andranno di volta in volta meditate e sperimentate, ma solo esse potranno garantire l’umana sopravvivenza in un mondo che si è votato a una più o meno consapevole autodistruzione. (G. Agamben – Una comunità nella società).

Dobbiamo dunque immaginare una resistenza di lungo periodo, nel quale ciascuno sia in grado di amministrare le proprie forze di pensiero, di sentimento e azioni con intelligenza. E’ un imperativo mantenere la centratura emotiva e spirituale, e già questo richiede parecchio impegno; ma è solo il presupposto, il fondamento.

Sono sempre più convinto che la resistenza veramente in grado di vincere non sia quella che si propone di diventare maggioranza in breve tempo, ma quella che meno appare sul piano esteriore. Se abbiamo chiaro che il valore morale imprescindibile è l’individuo, sappiamo che non sono le masse che possono modificare la realtà ma gli individui, non isolati ma che si uniscono in piccoli gruppi, senza sovrastrutture burocratiche, senza fondazioni, associazioni, senza partiti e fazioni.

Piccoli gruppi di persone che operano in modo disinteressato e che si uniscono per affinità ideali, non ideologiche, per affinità di visione futura, con ideali concreti e non generici. Piccoli gruppi di individui che imparano a condividere pensieri, sapendo che sono attinti da una sfera comune a tutti. Persone che possono imparare anche a condividere sentimenti e ideali, sapendo che essi possono essere sentiti da tutti quando hanno un alto contenuto morale, non moralistico. Gruppi di individui consapevoli dei proprio talenti e che li mettono a disposizione di tutti, così come ciascuno usufruisce di quelli altrui.

Potrebbe sembrare una rinuncia, una sconfitta, oppure un progetto utopico, o ancora il frazionamento anziché l’unione dell’umanità. In realtà è il contrario; il progetto che dobbiamo contrastare è proprio quello che vorrebbe la negazione dell’individuo e che concepisce l’umanità come una massa informe di automi inseriti in una gigantesca macchina sociale automatica. Ne ho scritto altre volte e non mi soffermo. Ciò che dobbiamo tenere ferma è la resistenza passiva totale, anzitutto interiore e per quanto possibile esteriore, ognuno nella propria realtà di vita, affinché da essa possa sgorgare l’intuizione del nuovo.

La Rete che dobbiamo costruire è una rete umana, di persone che si guardano negli occhi, senza mascherine e senza l’intermediazione di piattaforme. Una rete di gruppi diversi tra loro, ciascuno formato da individui diversi che si occupano di cose diverse e che si scambiano risultati e conoscenze.

Il Siddharta di Herman Hesse, del 6° secolo A.C., possedeva tre talenti: sapeva pensare, aspettare, digiunare, e con essi ha potuto districarsi in tutte le vicissitudini e le scelte della vita, sino alla comprensione dell’essenza delle cose.

Noi, occidentali del tempo dell’anima cosciente, possiamo tutti mantenere il primo talento, il più importante, il pensare, la capacità di intuizione pensante, e completare la triade, ognuno con i propri unici e insostituibili talenti personali, affinché ogni gruppo sia il prototipo della nuova futura umanità. In questo modo può essere ricomposto il giusto equilibrio pendolare tra individuo e società, in una ricca alternanza armonica.

3 Novembre 2021

Sergio Motolese   


Sergio Motolese, musicista.
L’incontro con l’antroposofia di Rudolf Steiner gli ha consentito di integrare le esperienze musicali con quelle acquisite in vari ambiti concernenti la salute.
Negli ultimi anni si è occupato in particolar modo degli effetti del suono elettronico e dell’informatica digitalizzata sull’essere umano.
E’ diplomato  presso la LUINA (Libera Università di Naturopatia Applicata). Tiene laboratori musicali, conferenze, incontri, seminari, gruppi di studio.

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