Medicina tra Oriente e Occidente – II Parte

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Proseguiamo la pubblicazione di alcuni scritti postumi di Elfidio Calchi, medico ricercatore di medicina tradizionale cinese e medicina energetica, recentemente scomparso.

La prima puntata la trovate QUI.


 IL NUOVO PARADIGMA

3.LA MEDICINA TRADIZIONALE CINESE

Vi è una distanza immensa che separa un medico formatosi in Occidente da un medico che pratichi Medicina Tradizionale Cinese (MTC). La distanza è immensa già fra la figura contemporanea del medico, la sua preparazione, il suo ruolo e la sua funzione, e quella antica, ippocratica, eclettica, di Galeno e di Paracelso! E quella altrettanto antica germinata dal pensiero medico cinese, senza tralasciare, ovviamente, quelle originate da altre fonti culturali antiche, come la medicina ayurvedica indiana e quella tibetana, legate al buddismo.

Il medico era una sola cosa con il botanico, l’erborista, il cuoco, lo speziale, lo sciamano, l’astrologo, il sociologo-politico, il consigliere spirituale, il naturalista e ambientalista, il filosofo, il matematico. Una figura avida di esplorare il mondo in scienza e coscienza, senza limiti alla sua libertà di pensiero e di ricerca che non fossero quelli segnati dal suo valore fondativo: liberare l’uomo dalla sofferenza, o almeno tentare di farlo, e promuovere altresì le condizioni della sua salute. Si comprende quanto possa essere abissale la distanza che intercorre fra un medico che guarisca il malato costruendo il suo sapere sul rispetto sacrale del mondo che lo circonda e lo abita confidando nella “vis medicatrix naturae” e un medico che invece si limiti all’annientamento chimico del sintomo-malattia. 

Occorre ripercorrere le radici, ritrovando assonanze col pensiero della Grecia antica e con la teoria ippocratica degli umori; occorre procedere dai confini di un pensiero digitale a quello analogico; da uno spaesamento angosciante alle radici; dalla nebbia risalire fino alla vetta dove il sole è signore; rendersi conto che l’abisso è solo un solco e che il fondo si tocca. In questa nuova ottica, quelle che sembrano arcaiche cianfrusaglie mitologiche appaiono ancora incredibilmente vive e attuali; gli antichi luoghi di cura nulla dovevano invidiare ai moderni centri termali sorgendo all’aperto, sotto grandi piante, vicino al mare là dove lo spirito era curato tanto quanto il corpo: i mitici Asclepei.

Un pensiero millenario, che proviene da Oriente e forse non a caso, ci tocca come la carezza di una tiepida aurora, come le prime rondini sui tetti in primavera, come un vento mite, come la goccia d’acqua che, paziente, scava la roccia. Ci tocca e ci contamina. La sua unica forza sta nella potenza delle sue argomentazioni, tanto più efficace quanto più capace di unire il dire con il fare, la sobrietà della forma alla indubbia profondità del contenuto.

Praticare la Medicina Tradizionale Cinese è come inoltrarsi in una oasi di puro senso in cui il giuramento di Ippocrate (primo: non nuocere) è salvo.

5 sono i pilastri, 5 gli strumenti a disposizione del medico per promuovere e custodire la Forza Vitale, ovvero il QI: agopuntura, farmacologia, (piante, minerali ma non solo), massaggio, dietetica, Qi Gong.

La MTC, in estrema sintesi, è una medicina naturale, globale, dialettica, energetica.

Naturale, poiché della natura sa cogliere e rispettare le regole.
Globale, poiché un sintomo va sempre contestualizzato.
Va curato il malato e non (o non solo) la malattia: prospettiva olistica, per la quale un fegato fuori dal corpo non è lo stesso fegato dentro il corpo.
Dialettica, poiché la chiave di lettura è un principio duale yin-yang: polarità complementare.
Energetica, poiché la realtà (quindi anche il corpo fisico) è un sistema complesso, integrato e va indagato anche oltre l’apparenza: siamo fatti di gran lunga più di vuoto che di pieno, anche se non sembra.

 

Non è possibile comprendere la portata della MTC se non la si colloca nella prospettiva taoista.  Per una tale comprensione, passando dal pensiero euro-occidentale a quello cinese, è necessario effettuare un cambiamento di cornice, umilmente sospendere le nostre familiari categorie intellettuali, i nostri paradigmi. Non è solo questione di lingua. Si tratta di un modo differente di guardare il mondo, di una diversa intellegibilità.

Il linguaggio dell’Occidente non è quello del taoista: abbiamo visto che il primo è alfabetico, il secondo è ideografico; la differenza non è secondaria, ma decisiva per comprendere. Il primo nasce dall’interesse verso le forme del mondo e descrive una realtà fatta di “cose”, enti, fissandoli con parole che inchiodano le cose, le ingabbiano. Il secondo considera l’impossibilità di de-finire con le parole alcunché; nulla vi è che non sia simultaneamente pensato nella trama continua del mondo, dove non vi sono enti ma piuttosto eventi, cioè enti in movimento.  Lo sguardo del taoista sa andare oltre le apparenze del mondo sensibile, oltre tutte le antinomie, tanto care alla nostra cultura sapienziale. Egli sa che il mondo non è fatto di “cose” ma di “eventi” e cioè di “cose in movimento”. Sa che il mondo è un processo. La sua attenzione non si fissa sulle cose quanto sulle relazioni fra esse poiché nessuna cosa può essere cristallizzata in una idea e in un nome; egli osserva e segue la coerenza interna del sistema cosmico reticolare che, come è fuori, così è dentro di lui. Con tale sguardo egli ritrova le proprie radici nella realtà viva del proprio corpo taoista, appagando il suo bisogno di nutrimento e generando una autocoscienza concreta, un pensiero-concreto. E poiché tutte, ma proprio tutte, le antinomie sono risolte da sempre in una sostanziale unità, allora egli sente che il divenire e l’eterno convivono, così come il trascendente e l’immanente, il necessario e il contingente, ecc. ecc. facendo prevalere la logica et…et a quella aut…aut, le infinite sfumature di grigio reale alla secca platonica dicotomia: o bianco o nero.

Il mondo evolve (i mondi evolvono), eppure, INSIEME, il mondo è immoto (mondi immoti); l’ossimoro svela la sua potenza, perché include e non esclude i termini della contraddizione: freddo è anche caldo, destra è anche sinistra, io sono anche l’altro, il sincronico è anche diacronico, passato è anche futuro, trascendente è anche immanente e il gioco può continuare … Vi è un sapere che non rinuncia mai a nutrirsi di saggezza offrendo l’occasione di una riconciliazione con la realtà e quindi anche con se stessi: ai confini di un mondo nichilista, che muore sotto le macerie di una inutile sapienza, da secoli penetrano i ruscelli di una utile saggezza, alle cui acque hanno bevuto i monaci, gesuiti e non solo; hanno bevuto Voltaire, Leibniz, Jung, Einstein, Heidegger, Granet, per citare alcune cime pensanti della nostra “gloriosa cultura”.    Viene da dire che, solo se la sapienza saprà radicarsi nella saggezza, l’umano potrà crescere, altrimenti affogherà nell’acqua in cui si attarda a specchiarsi.

Sapienza senza saggezza è una mortale prigione chiusa. “Il bello non si separi dal buono” diceva Shi Tao, grande pittore cinese. Noi diremmo: l’estetica non si separi dall’etica, né questa da quella. 

Quel pensiero-concreto, dunque, ha tutto intero il suo significato nel trattino (-). In quel trattino sta lo “sfondo” del mondo, il palcoscenico aperto alle infinite possibilità, il grande utero, col suo silenzio siderale e vuoto ricettacolo. Quel Vuoto e quel silenzio sono condizione e radice del Pieno e dei suoni del mondo reale, di cui costituiscono tra l’altro la parte più consistente. Oltre il 90% della realtà è “vuota”, come ci dice anche la fisica contemporanea delle particelle (vedi Bosone di Higgs).

Una luce accecante non fa vedere e intrappola in una gabbia virtuale. Oltre gli specchi esiste una realtà che si fa conoscere solo al buio, quando la luce scende e si fa fioca. Quante volte guardiamo le stelle nella notte? Siamo ancora capaci di apprezzare i suoni emergenti dal silenzio? Il pensiero – concreto che arriva a concepire attivamente il WU (il Vuoto-assenza di forma) non trova più il tempo di spiegarne il significato poiché lo vive nell’eterna pienezza dell’attimo. Va precisato, tuttavia, che per gli antichi taoisti il concetto di Vuoto non ha nessuna parentela col concetto di Nulla di matrice occidentale. Un aforisma chiarisce bene l’abissale distanza fra i due concetti:

posso concepire il niente che esiste, non posso concepire il niente che non esiste”.

Affinché le parole non assomiglino a belati, occorre allenarsi a guardare oltre le apparenze, laddove noi siamo l’autocoscienza del mondo. Non è sufficiente essere, occorre che il corpo (taoista) viva. Occorre attuare un pensiero-concreto, cogliendo le relazioni che supportano gli eventi, andando oltre alle cose e ai nomi, che pretendono, inutilmente, di incapsularle. Nessuna rete digitale, virtuale, può sostituirsi alla rete reale. Occorre educare all’ascolto, ascoltare e ascoltarsi, poiché il sacro ci abita. 

Passare dal codice alfabetico a quello ideologografico è qualcosa che richiede impegno, immaginazione, tenacia, intuizione, umiltà; occorre un pensiero concreto, una mente pratica, callosa, allenata a pensare camminando ai margini, fino a smarcarsi dalla lingua dei PADRI, azzardando lo sconfinamento, ben più in là della Luna o di Marte; trovare varchi attraverso l’inganno, sempre in agguato, uscire dalla propria pelle fin là dove la molla non rischi di spezzarsi. Uscire senza (per non) perdersi nel transumano che, ahimè, bussa alla porta a caccia di nuovi servi: tecnocrati ignari? Rassegnati? Ingenui?

Che fine ha fatto la lingua delle MADRI? Ciò che va tradotto dal punto di vista di un occidentale alfabetizzato è quindi, più radicalmente, quel modo cinese di pensare il mondo che ha saputo mettere in sinergia le intuizioni mistiche e il ragionamento rigoroso della logica, il sacro e il profano, l’oscuro e il luminoso; uno sguardo che ha imparato ad adoperare agevolmente sia il grandangolo che il teleobiettivo, oltre l’angolo normale del campo visivo, e che lascia poco spazio alle superstizioni. Nel cambio di paradigma, ci si accorge che lo sguardo analogico-magico-poetico-animistico può convivere utilmente con lo sguardo logico-analitico-tassonomico (se un med-ico non sa med-itare, dovrebbe fare altro). Il significato di un logogramma (risultato dello sviluppo di un pittogramma in un ideogramma) è polisemico, cioè comprende un insieme aperto di significati. Un ideogramma può rimandare ad una ventina e più di significati: la scelta fra i molteplici significati in dote all’ideo-logogramma è stabilita dal contesto. E’ questo (cornice e sfondo) che decide il senso finale del messaggio. Finché non si compie la contestualizzazione della parte con il tutto (cornice) e del tutto nella parte (sfondo), il senso resta ambiguo; eppure l’ambiguità continua a restare anche quando il senso è compiuto, lasciandolo così disponibile, aperto a nuove forme di complessità.

Basta abbordare le coste solide e familiari del pensiero cinese tradizionale, con colli e teste liberi dal giogo dei tanti pregiudizi, per imbattersi in un paradosso che può risvegliare tante coscienze intorpidite, fin da subito: WEI WU WEI, fare senza fare. Questo aforisma mette in primo piano quello che più conta: la spontaneità del fare (e/o del non fare), quando

” il corpo sa quello che fa e fa quello che sa secondo misura”.

Saper-fare diventa allora vivere la spontaneità, essere ciò che si è qui e ora senza nascondersi a se stessi, coltivando il Vuoto del cuore da cui la parola autentica sgorghi. Smarcarsi dalla parola biforcuta per approdare alla parola retta, affidabile, che fa apprezzare la vita, e affinché le parole non si riducano a essere quello che sosteneva l’orientalista Fenollosa: bussolotti mentali!! Parlare diversamente, parlare dell’impensato, quell’impensato in attesa di essere pensato con pensiero-concreto nel Cielo Anteriore che è in noi. In una babele di protagonismi e di deliri di potenza, donne e uomini di buona volontà attendono con l’animo di chi sa che

la nascita non è un vantaggio, la morte non è una perdita”.

Elfidio Calchi

 


Elfidio Calchi, laureato in medicina e chirurgia nel 1978, dopo un breve periodo di pratica della medicina ufficiale presso l’ospedale di Rimini, si specializza poi in medicina tradizionale cinese presso la Scuola Tao di Bologna.  Con questa nuova comprensione lavora dapprima come medico privato e, successivamente, come direttore sanitario di un poliambulatorio di medicina naturale integrata a Riccione. Muore nel 2020 in seguito all’infezione da Covid19 contratta nell’esercizio della sua professione e lascia un sapere scritto che mostra come sia possibile rifondare la medicina nel senso di un sapere globale, capace di accogliere in sé le punte più avanzate di un sapere scientifico, filosofico e letterario.

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