Medicina tra Oriente e Occidente – I Parte

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Inizia da oggi la pubblicazione di alcuni magistrali scritti postumi di Elfidio Calchi, medico ricercatore di medicina tradizionale cinese e medicina energetica, recentemente scomparso.

Qui di seguito una sua biografia essenziale.

 

Elfidio Calchi, laureato in medicina e chirurgia nel 1978, dopo un breve periodo di pratica della medicina ufficiale presso l’ospedale di Rimini, si specializza poi in medicina tradizionale cinese presso la Scuola Tao di Bologna. Apprende così una diversa pratica dell’arte medica, in estrema antitesi con la visione occidentale ufficiale. “La MTC, in estrema sintesi, è una medicina naturale, globale, dialettica, energetica”.

E’ l’aspetto energetico che diventa il nuovo strumento di indagine della realtà fisica perché, per Calchi, il corpo umano è un sistema complesso e integrato che va inserito in un contesto di gran lunga oltre la pura apparenza fenomenica di una materia piena e di una fisiologia meccanica.

Con questa nuova comprensione lavora dapprima come medico privato e, successivamente, come direttore sanitario di un poliambulatorio di medicina naturale integrata a Riccione. Porta avanti, negli anni, anche la didattica, frontale e pratica, sulle discipline corporee di potenzialità trasmesse dalla medicina cinese quali il Qi Gong ed esercizi di respirazione energetica.

Muore nel 2020 in seguito all’infezione da Covid19 contratta nell’esercizio della sua professione e lascia un sapere scritto che mostra come sia possibile rifondare la medicina nel senso di un sapere globale, capace di accogliere in sé le punte più avanzate di un sapere scientifico, filosofico e letterario.

La sua vita è rimasta, per sua precisa volontà e scelta, sempre “lontano dai riflettori”, in quella “oscurità” in cui le stelle possono brillare, a stretto contatto con la natura, in un amichevole rapporto con i suoi pazienti per cui è stato un maestro oltre che un medico.

 


IL VECCHIO PARADIGMA

1. ANALISI DEL LINGUAGGIO ALFABETICO

Per comprendere il paradigma in cui è nata è si è sviluppata la medicina occidentale, occorre partire dall’analisi del nostro linguaggio.

Il nostro linguaggio, capacità di produrre significati con i quali ci rappresentiamo il mondo e con i quali comunichiamo, basato sulla “parola” (detta o scritta), a sua volta costruita a partire da vocaboli e lettere dell’alfabeto (degli arabi o sumeri) dette da Platone stoicheion, mattoni o elementi primi, parte da un presupposto e cioè dal modo con cui vediamo il mondo, compreso noi stessi, il modo in cui avviene l’incontro col mondo. Questo modo determina i processi mentali che poi influenzano e filtrano l’acquisizione della conoscenza. 

Qui non si tratta di interpretare una lingua, né il significato profondo e autentico di un testo sacro, laddove un’altra lingua, pur diversa dalla nostra (tedesco per esempio o inglese) è pur sempre costruita a partire dall’alfabeto e dalla sequenza: parola-frase-discorso-sapere. Qui è in questione proprio il modo originario di guardare la realtà del mondo, l’interpretazione stessa.

 Il linguaggio della civiltà occidentale fondato sulla “parola” può veramente cogliere il significato più esaustivo della struttura della realtà? Questa è la domanda da cui prende origine il nostro lavoro. 

La parola, in quanto metafora continuata della realtà, per sua intrinseca natura originaria, dà espressione ad un sentimento di se-parazione dal mondo. L’idea di un mondo che spaventa e getta nello sgomento è ciò che nella parola giunge ad essere rappresentata. La percezione del terrore o, più semplicemente, e generalmente, di spaesamento, è all’origine del tentativo di dis-continuare l’ordito cosmico allo scopo di ridurne la potenza angosciante. Il che accade peraltro in una mente che resta imprigionata in una prospettiva univoca del tempo. La mente quindi pensa di vedere “ le cose”, costruisce i significati, li concettualizza in forme eidetiche che poi vengono espresse foneticamente. E questo accade sempre, a cominciare dalle espressioni onomatopeiche per arrivare ai termini di più alto spessore semantico. La mente vede (crede di vedere) “le cose” nella loro discontinuità, fra di loro disgiunte; non vede la continuità sostanziale che le lega. E quindi, le nomina “le cose”. Le vede, le sente, le tocca e le percepisce come altro, come il fuori. 

E’ l’embriogenesi della logica. Il pensiero occidentale, a partire dalla nascita della logica aristotelica di non-contraddizione (e del terzo escluso) ha voluto dare un taglio di forbice netto con un passato avvolto dai miti, di fatto rinnegandoli, gettandoli nel cestino della memoria storica, nella convinzione che, presumendo la dicotomia soggetto-oggetto, la Verità oggettiva dovesse prevalere sulla Opinione soggettiva; che la doxa dovesse sacrificarsi all’altare dell’ episteme; che fosse finito il tempo delle fiabe e fosse giunto quello della distinzione chiara e certa. L’analisi, come un bisturi, dapprima grossolano, poi sempre più raffinato, affonda, seziona, manipola il corpo muto di un mondo percepito estraneo e assurdo. Lo strumento sembra funzionare perché una realtà così frammentata diventa controllabile e dominabile. Non si pone, la mente, il problema della misura di tollerabilità del proprio dominio sulle “cose” da parte di una realtà che non è riducibile alle “cose”. E’ un problema che per la mente non si pone perché semplicemente non lo vede: essa gioca col mondo come fosse un mappamondo. Così l’uomo dell’alfabeto, ignaro di quanto mito ci sia nella scienza e di quanta scienza ci sia nel mito, incapace di discernere fra un solco e un abisso, continua ad evocare e ad assegnare nomi e poi nomi e poi ancora nomi e nomi che parlano di nomi, cattedrali di nomi, parole che riempiono l’aria inquinandola più del biossido di carbonio.

Chiunque abbia visto un bambino piccolo giocare sa come spesso la curiosità lo induca a fare a pezzi il malcapitato giocattolo, tanto più se il piccolo è lasciato da solo o/e se è pure viziato (capita). E bene fa il bambino a rompere il suo mappamondo o il suo trenino in tanti frammenti, se questo serve a costruire le tappe biologiche e simboliche della sua crescita. Egli non avverte alcun problema nel fare quello che fa: distruggere appunto un innocuo giocattolo. Ma, se qualcuno gli volesse regalare un gatto, e al nostro intrepido esploratore venisse in mente di tirargli la coda, o infilargli un dito in un occhio, provocherebbe una ragionevole ribellione dello sfortunato felino con conseguenze drammatiche per il piccolo uomo. Pensiamo a cosa potrebbe accadere, anche di tragico, se lo lasciassimo, da solo, a trastullarsi con della vernice o della colla, o con l’acqua di uno stagno.

 

Ecco, lo sviluppo culturale del nostro pianeta vive questa fase infantile della filogenesi, con il rischio che la filogenesi – la storia dell’uomo – interrompa il suo cammino così precocemente, con buona pace di tutti. L’analogia fra le modalità gnoseologiche di un bimbo, lasciato solo, e quelle dell’uomo, sono evidenti. La civiltà occidentale si avvia a gettare anche il bambino (la vita) insieme all’ acqua sporca (l’angoscia di morte) e, nel segno di uno strisciante e pervasivo totalitarismo tecnocratico, si appresta a transumanizzare nelle macchine.

Tale uomo infelice scivola nelle fauci di mostri terrificanti da lui stesso evocati, che partono dal pensiero di un impossibile Nulla per avviarsi tragicomicamente e coerentemente nel destino apocalittico annunciato dai tanti profeti. Egli, entrato con il Logos nella grande allucinazione di un inesistente Nulla, va perdendo sempre più i tratti della sua propria specifica natura vivente, trascinando in questo delirio tutto ciò che di vivente possa esistere su questo pianeta, fino a immaginarlo un eden di cyber-automi finalmente liberi da dolori, bisogni, desideri, emozioni, sentimenti, caricature dell’intelligenza, ferraglia digitale priva di sangue.

Tale uomo-dio, smarrita ogni misura inibitoria, senza limiti alla sua eccedenza, titanicamente in lotta perenne col mondo intero, si agita e si affanna nel costruire l’illusione del dominio planetario, servendosi di un apparato reticolare di controllo, di cui non sa di diventare invece il futuro servo, fino a quando servirà.

Un vero e proprio delirio! Sebbene esista un profilo benigno della follia che ha a che fare con il gioco e con l’ironia, profilo che si può definire paradossalmente di sana follia, esiste pure un profilo maligno della follia, che cammina sulla non percepita schizofrenia ontologica della cosiddetta normalità. Il pericolo si manifesta nel linguaggio… e ancora prima, il problema è ermeneutico: con quali occhi guardo il mondo? Esistono “le cose”? Fino a che punto posso giocare e scherzare con “le cose” senza farmi del male? E destinarmi, al limite, alla estinzione? Esiste una misura? E’ in grado la mente dell’uomo di comprendere il problema di una misura il cui superamento lo destinerebbe al suo proprio tramonto? E, se lo fosse, non dovrebbe esplicitamente dichiarare la ineluttabile volontà di testimonianza di un tale destino? Là dove il sipario metterebbe la parola fine alla tragicomica vicenda dell’uomo con il seguente epitaffio: …che vedendosi “cosa” (seppur pensante) fra le “cose” (non pensanti) ruppe se stesso come amava fare con i suoi giocattoli!

Il linguaggio dell’Occidente, nonostante l’apertura mentale verso prospettive epistemologiche, fondate sulla teoria del Campo, che si ricollegano al concetto di QI taoista e ai modelli interpretativi del mondo propri dei buddisti, è un linguaggio che si impone in virtù della follia che lo anima. Le difese realizzate da una mente terrorizzata da una vita oltremodo pericolosa, mortalmente pericolosa sono la fede e la scienza. Ma la fede e la scienza, gli strumenti dello spirito e della ragione, si sono rivelate esse stesse come un pericolo maggiore della realtà nemica perché insidioso, ben nascosto dietro la maschera della presunta autorevolezza di chi le rappresenta e le pratica. E’ accaduto e accade cioè che il pericolo maggiore per l’uomo sia stato e sia l’uomo stesso. Non solo il pericolo di un uomo verso un altro uomo ma anche di un uomo verso sè medesimo.

Fede e scienza – ammesso che ci sia stato un tempo dell’innocenza – sono diventate le sovrastrutture ideologiche del potere intese sia in senso marxiano come pseudocoscienze dei popoli, che in senso gramsciano come strumenti finalizzati alla egemonia politica. Il filo rosso di un potere, storicamente incarnato in sacerdoti e sciamani in passato e in gerarchie teocratiche e tecnomilitari attualmente, ha attraversato i secoli e i millenni poggiando sulla sinergia sprigionata da questi 2 aspetti sovrastrutturali. Spirito e ragione sono finiti quindi sotto il giogo asinino imposto a uomini terrorizzati, passando per guerre, genocidi, territori devastati, infiniti dolori, montagne di cadaveri.

Avrebbero potuto, spirito e ragione, essere impiegati alla elaborazione dei sistemi più convenienti per l’integrazione della specie umana all’interno degli equilibri biologici del pianeta ma sono stati ridotti alla loro caricatura, a strumenti di una follia cieca. I primi a non credere quindi a ciò in cui dicono di credere sono gli stessi che si mostrano in cima alla piramide; in basso, alla base della piramide, sta il folto popolo ovino. Esiste uno, o più livelli, nella piramide dove avviene la cooptazione progressiva trans-generazionale, affinché nuove leve, individuate ed allevate allo scopo di assicurare la stabilità strutturale del sistema, possano garantire il ricambio, assicurando le condizioni di un potere perpetuo. Il potere, infatti, non è mai mutato nelle sue forme istituzionali e nella sua struttura. Mutano invece le persone, che, come maschere appunto, rappresentano la realtà del terrore evocato da un mondo avverso.

Se, e poiché, una falsa coscienza si fa egemonica, si fa avanti una umanità maggioritaria inconsapevolmente scissa. La quale è convinta che il falso sia vero e il vero sia falso. Per la quale la VERITA’ non è ALETHEIA (disvelamento) ma VERUM (conformità alla legge). Il potere del terrore, capovolto nel terrore del potere, promulga e fa rispettare leggi: chi rispetta LA LEGGE è nel vero e quindi nel giusto; chi non la rispetta è nel falso e quindi nell’errore. E mentre il riconoscimento della VERITA’ possibile si accompagna al silenzio del pubblico su cui si riversa la rugiada catartica del ricordare, di contro il VERUM edifica sapientemente la rete del sapere fatto di parole che si rincorrono e si rimpallano senza un senso che non sia quello del condizionamento e dell’ordine.

Il potere reale, quello sviluppatosi storicamente, concretamente determinato, attraverso l’edificio mediatico (LA PAROLA) ha le possibilità tecniche di costruire condizioni capaci di indirizzare gli stessi eventi della storia nel senso della sua propria riproduzione servendosi della Parola-clava dei monoteismi, la Parola settaria, divisiva, che taglia il mondo e lo sminuzza in una miriade di nomi-coriandolini; la Parola persuasiva dei retori o quella che comanda da “un al di là” incidendo col fuoco la pietra; la Parola che dal nulla crea e che condanna alla colpa; la Parola che tuona con la forza paralizzante del terrore della morte o quella muta, anaffettiva, che informa senza comunicare; la Parola inaffidabile della grande ipocrisia svelata, che svuota il corpo di ogni senso, reificandolo nell’abulia autistica (forse induzione pianificata a un lento suicidio di massa?). La Parola – vocali, consonanti, predicati, analisi logica, metalinguaggio, semiotica – si propone (illudendosi) di creare, dominare e distruggere il mondo e poco importa se in questo scopo rientri l’assassinio, il crimine, immonde trame, guerre, stermini e genocidi, stupri, pedofilie ecc. E’ una Parola che astrae, come una mongolfiera fra le nuvole, senza radici, sconnessa dal sangue pulsante in cui consiste. La Parola mediatica, affabulatrice, omologante Parola del potere (un potere che oggi viaggia in 5G) gioca con gli umani come fossero i soldatini della sua infanzia infelice, vuole educare, e insegna al suo uso: autoreferenziale, si impossessa dei corpi per riprodursi e poi sbarazzarsene. 

Il potere per autoriprodursi è disposto a tutto, promuovere conflitti ad ogni livello è il suo passatempo preferito. Da sempre interessi di potere diversi si sono dovuti incontrare, scontrare, confrontare. A volte ne emergevano guerre spaventose come la guerra dei trent’anni fra papato e impero che fece milioni di morti in tutta Europa; il più delle volte se ne usciva con compromessi utili a tutti. 

Oggi questo gotha del potere è un crogiolo in cui si va sperimentando un’orgia alchemica inedita. Il potere finanziario, quello militare, quello criminale, quello scientifico tecnocratico, quello teocratico messi insieme a contatto con un catalizzatore identificabile nel potere dei medium, possono produrre una massa critica da cui partirebbe una immensa forza distruttiva su questo pianeta. Oggi siamo in piena guerra per il monopolio del potere digitale. Siamo zombie indotti verso scenari transumani, siamo nelle mani di una tecnoscienza esaltata. Ma la RETE del sapere (leggi Internet) non ci racconta la gioia del vivere, non ci apre alla consapevolezza immediata della vita che pulsa, non ci allena al coraggio di affrontare la morte – amica fedelissima incapace di tradire – non ci rivela l’eterno racchiuso in un amplesso sublime. Non c’è saggezza in un sapere che nasce dall’angoscia di morte. 

Il destino dell’uomo è invece nel segno della Grande Madre, nello sguardo dell’aquila, nel cuore del drago che solca il tempo, nel desiderio di infinito, nel fuoco sacro degli amanti; quel destino è già qui, da sempre e per sempre, più forte di qualsiasi teo-tecnocrazia. 

Morire è tornare e nel tornare la Gioia ci viene incontro, abbracciandoci.

Morire, vivere, sono in sovrapposizione di stato, secondo Schrödinger.

Cielo anteriore, Cielo posteriore sono in sovrapposizione di stato, secondo TAO TE.

Ecco, il pensiero degli antichi saggi agisce come una folata di vento e ci riporta alle alte quote; da quassù si vedono omini che occupano il tempo a spiarsi e ad ammazzarsi e a diffondere veleni, e lo fanno come seguendo un copione, con serietà e impegno, ben immedesimati nella parte. Si agitano isterici e rumorosi; poi, in lontananza, verso l’alto, i rumori cessano e rimangono sullo sfondo come puntini insignificanti.

 

                                                                                                                         

* * *

Riassumendo: Abbiamo visto che lo sguardo dell’uomo sul mondo, limitandosi a coglierne la discontinuità apparente, comporterà lo sviluppo di una forma mentale di tipo analitico. Concepirà il mondo tutto come fatto di parti separate nello spazio e nel tempo e in relazione fra di loro e darà loro un nome. L’elaborazione dell’alfabeto avverrà con questa chiave di lettura del mondo: le sue lettere sono parti, che messe insieme formano altre parti (la Parola) che messe insieme formano una frase, che messe insieme formano un discorso, che messi insieme formano un romanzo o un trattato, che messi insieme formano la letteratura e la scienza e la filosofia ecc.

Poiché l’uomo fa l’esperienza del dolore, cercherà di evitare tutti quegli aspetti del mondo che possano provocarglielo. Nella ricerca di cibo, di riparo dalle avversità naturali, di soddisfazione dei fondamentali istinti, quello sessuale in primis, il pensiero analitico mostra tutta la sua forza logistica. Accade poi che ad essere conosciuta come avversità naturale sia un altro essere umano vissuto come estraneo e rivale, per cui la forza della logica analitica viene utilizzata non solo nei confronti di un generico mondo naturale esterno (terremoti, bestie feroci, alluvioni ecc.) ma anche verso un proprio simile. Il simile è interpretato in modo bivalente come aggregato al proprio gruppo o come pericoloso estraneo, come amico o come ladro ed assassino. Storicamente non si può riconoscere che le guerre abbiano una loro legittimità ontologica ed è paradossale osservare come, nel tentativo comprensibile di costruirsi un riparo da ogni possibile fonte di dolore gli uomini si siano reciprocamente procurati il dolore massimo.

Da tutto questo capiamo che è proprio questo linguaggio della civiltà cosiddetta occidentale, nella sua evoluzione storica concreta, il suo codice alfabetico, metafora del mondo delle cose, a tenerci ancora nella grotta di Platone. Il logos, attraverso Socrate, ci dice che sa di non sapere; dopodiché il discorso da allora non si è mosso di molto da una sterile maieutica, incapace ancora di indicare un saper-fare. Tranne che per le rare eccezioni di pochi come Heidegger (“il pensiero più considerevole è che non sappiamo pensare) o Wittgenstein (“di ciò di cui non sa, il saggio non parla”), il Logos, che sa di non sapere, continua a girare come un criceto, impotente ed esausto di fronte al fallimento delle sue buone intenzioni originarie. Il Logos si è rivelato non essere un rimedio al fratricidio di Caino. L’alfabeto, le parole, dette e scritte, pensate, le cose, i nomi, la logica, il linguaggio binario, il Web, i viaggi planetari, la gloriosa tecnica cibernetica-robotica, questa scienza senza bussola. Una trappola? La nuova babele? Più parlo e più soffoco? Come un incaprettato? La sua natura è scissa ed escludente e il fratricidio continua inevitabilmente a consumarsi sotto il suo influsso, assumendo nei nostri tempi il volto inespressivo della tecnocrazia: un grumo di spietati algoritmi. 

Abbiamo visto che la questione è ermeneutica, riguarda l’interpretazione stessa. Se il mondo è fatto di cose, così come si mostrano e interagiscono con i nostri sensi, se noi vediamo, sentiamo, tocchiamo, percepiamo le cose (enti-ontos) così come comunemente ci appaiono, cioè definite nelle loro forme, immobili o in movimento che siano, ben determinate e distinte fra di loro, la mente registrerà quella sensazione percepita come una verità evidente e indiscussa su cui fondare la sua conoscenza. Qui la mente funziona come l’esca di una canna da pesca gettata nel caos del reale allo scopo di fare ordine nominando quelle che chiamiamo “cose”.

Le “cose” entrano nel dominio della mente. Le singole lettere dell’alfabeto non hanno alcun significato in sé, (tranne qualche riferimento onomatopeico) ma lo generano quando si uniscono in infinite combinazioni possibili. Una parola nasce quindi come uno strumento mediatico, un medium con un potere di controllo sulle cose viste nel loro essere separate, isolate, de-finite, de-limitate, de-terminate. L’operazione mentale che fonda il nostro linguaggio alfabetico, quindi, pone in rilievo, evidenzia, estrae il pesce dal mare delle cose e lo cattura in una struttura concettuale-verbale il cui significato sia univoco e permanente. Dopodiché, mentre il contenuto della gabbia (l’ente-cosa-pesce) sarà cotto e mangiato, la gabbia-struttura resterà imperitura ed eterna, univoca e permanente nel mondo platonico delle idee. 

La parola si stacca dalla cosa dopo averla idealizzata, la forma si separa dalla sostanza, lo spirito diventa eterno e la materia rotola nel nulla. L’astrazione è realizzata. Abbiamo trasferito nel registro anagrafico dei concetti, nel mondo delle idee, il loro corrispondente contenuto reale.

Ciò che chiamiamo coscienza si identifica con questo registro (registrare) che opera come uno specchio in grado di raccogliere e fissare in memoria le diverse sollecitazioni provenienti dal mondo (esterno e interno) sotto forma di contenuto dei concetti o significato. Da questo momento la coscienza può considerare tale contenuto concettuale come oggetto su cui riflettere astraendo dal relativo contenuto reale. La coscienza di sé reale. La coscienza di sé reale diventa coscienza dell’idea di sé, una coscienza della coscienza, ovvero una autocoscienza. Una coscienza è sempre autocoscienza. La si può definire coscienza astratta o pensiero astratto. Un tale pensiero astratto, che dovesse dimenticare il dato reale, concreto, fisico, da cui trae la sua esistenza, sarebbe destinato a testimoniare l’errore originario e la follia – lo spaesamento.

Il fatto è che proprio questa è la necessaria conseguenza per una forma mentis che si arresti a una interpretazione del mondo come fatto di cose nominate nel loro essere separabili, isolabili, dominabili, generando le antinomie senza mai risolverle nella loro unità. Ma se, al di là dell’apparenza, lo sguardo della mente intuitiva vedesse un mondo ulteriore, una intrinseca unità del tutto, allora si capirebbe che le antinomie sono da sempre risolte e l’autocoscienza eviterebbe lo smarrimento, l’estraneazione narcisistica.

 

2.LA MEDICINA OCCIDENTALE

Ai confini della cultura e del linguaggio di una civiltà occidentale sempre più nichilista, pervasa da un impotente ed infantile delirio di onnipotenza, appaiono già da tempo i motivi essenziali che mettono in crisi la medicina ufficiale e che sono sinteticamente i seguenti:

a) la dichiarazione dell’OMS secondo cui le patologie causate da farmaci sono significativamente aumentate (vedi malattie croniche, autoimmuni, psichiatriche, reazioni avverse…ecc);

b) la tendenza progressiva alla parcellizzazione specialistica del sapere medico e la mortificazione di una cultura sistemica, d’insieme;

c) la burocratizzazione della figura medica e la medicalizzazione della salute, che rende le persone farmacodipendenti e trasforma il SSN in terreno di conquista da parte delle lobbies farmaceutiche; 

d) la dissociazione della medicina dalla chirurgia che mostra, da un lato, la tecnologia spettacolare applicata all’essere umano e, dall’altra, la diffusione nell’ambiente (e nel corpo) di inquinanti chimico-fisici vari.

Alla luce di quella che appare essere una deriva schizoide dell’antica arte medica, fatti salvi i farmaci salvavita, fatta salva una chirurgia, che non diventi però una soluzione di routine, fatta salva la medicina d’urgenza ed una certa analitica di laboratorio e strumentale, la medicina andrebbe ricondotta al suo senso originario che è (da medeor-mederi) cura, guarigione e non causa aggiunta di patologie. I chirurghi, dal canto loro, hanno sempre goduto, e giustamente, della ammirazione dei più, per la loro competenza nell’aggiustare ossa, trapanare crani, sezionare e cucire qua e là, trapiantare visceri, impiantare denti: soprattutto in tempi di guerra molti sono stati strappati alla morte per la loro azione meritoria.

Attualmente i chirurghi dispongono di strumenti e metodiche sempre più sofisticate per intervenire sul corpo fisico e psichico dell’uomo, impensabili soltanto venti anni fa. Abbiamo assistito ad un moltiplicarsi di tecniche diagnostiche e terapeutiche ingegnose e spettacolari, rese ancor più efficaci dal mondo digitale che le supporta; forse fra pochi anni il bisturi sarà consegnato a un robot programmato, la cui efficienza nel taglia e cuci sarà tale da eliminare anche il più bravo dei chirurghi in sala operatoria. E perché no? Perché non pensare a una clinica chirurgica automatizzata, con una programmazione cibernetica, in cui entri e sai che una equipe di robot, armata di raggi laser, di nano particelle o di cellule staminali, si occuperà della tua ulcera o del tuo trapianto di fegato o della tua fecondazione assistita? Si investono enormi capitali sui farmaci intelligenti e sulle protesi di ogni tipo mentre lo stile di vita della società in cui viviamo sforna materiale umano degenerato su cui la fredda tecnologia stende il suo velo. Alla degenerazione dei corpi, alla cronicizzazione della loro sofferenza partecipa in modo più o meno consapevole la stessa medicina cosiddetta sintomatica.

La medicina non può essere perimetrata ermeticamente in una prospettiva scientista e tecnicistica. Essa era e deve rimanere ARS MEDICA. Essa opera in “scienza e coscienza”. Scienza e coscienza sono in rapporto dialettico e, se ci deve essere una regola, la regola delle regole dell’arte medica è che non ci sono regole, quando è rispettato lo scopo per cui essa sorse, con Ippocrate, emancipandosi dagli sciamani: la cura del dolore, la guarigione dalla sofferenza, la promozione attiva del benessere umano. Questa regola centrata quindi sull’efficacia dell’atto medico nel contrastare il male e le condizioni che lo possono generare, è scritta nella coscienza del medico e non può essere eterodiretta da un management tecnico-politico-finanziario. Per coscienza qui si intende indipendenza nella concettualizzazione e nella elaborazione di una visione dell’uomo, del modo di conoscere, dei criteri per agire, decidere, scegliere fra ciò che di dannoso va scartato, anche se moderno, e ciò che di utile va salvato, anche se antico. Per scienza si intende un sapere che veda tutti i limiti di una prospettiva cartesiana che ancora dura nel senso comune; un sapere che si estenda alla matematica, alla filosofia e ad altri saperi con altri paradigmi che pure sono presenti e praticati sul pianeta. Il Caduceo è il simbolo cui ogni medico dovrebbe guardare per uscire dallo spaesamento. La sua forza espressiva è pari a quella, forse più nota, del Taiji, simbolo del Tao De dei cinesi.

Per riassumere, si può dire che una coscienza periscopica e un sapere complesso, oltre antropocentrismi, geocentrismi, egocentrismi, dogmi e assolutismi di vario genere, devono essere gli strumenti a priori di una medicina seria e coerente. Il termine che da circa un secolo è stato coniato per esprimere il carattere di un tale sapere unitario, globale, integrato, sistemico è: Olismo. Purtroppo, invece, gran parte dei medici oggi non può non riconoscersi nella figura di un burocrate frustrato, di un corresponsabile (più o meno in buona fede) della cronicizzazione di patologie degenerative, ogni volta che persiste nel prescrivere sostanze con meccanismo attivo sulla patogenesi e non sulla causa reale del problema.

Il percorso obbligato che il sistema offre oggi a chi soffre è: malattia, terapia sintomatica, cronicizzazione, degenerazione, terapia palliativa oppure carne da macello per gli operosi chirurghi, uomini oggi, domani robot. Un percorso lungo il quale sono appostati interessi criminali, vampiri, topi che si muovono, ciechi e sordi, nell’oscurità dei loro cunicoli, per i quali il corpo (fisico, mentale e spirituale) dell’uomo, il corpo sociale e il corpo cosmico sono solo fogna. Al farmaco, divenuto scopa per nascondere sotto il tappeto i sintomi, va sostituito il rimedio che promuova autenticamente la ” vis medicatrix naturae” allo scopo di ripristinare l’armonia rotta di quel sistema integrato che è il “corpo-mente-spirito” umano. Qualunque “tecnica” che volti le spalle alla forza guaritrice naturale o che pretenda di sostituirsi ad essa esprime l’infantilismo di non saper guardare oltre l’apparenza. Ogni tecnicismo viene dopo un rapporto medico-paziente di qualità. Bisogna salvare la medicina dal rischio di essere risucchiata, da una parte, da una chirurgia vorace arroccata in cattedrali tecno-sanitarie e, dall’altra, dalla bulimia di profitto delle industrie farmaceutiche, le quali, tra l’altro, certo non sole, finiscono per risolvere meno problemi di quanti non ne favoriscano, cronicizzandoli. Dovunque si guardi c’è farmaco-spazzatura, che contribuisce notevolmente all’aumento dei rifiuti umani e, dispiace dirlo, all’aumento di corpi umani-spazzatura, che non risparmia nessuno, vecchi e bambini, uomini e donne, bestie e piante.

La prerogativa dell’agire medico, la sua ratio, per sua natura e definizione pretende una intrinseca coerenza che, escludendo in linea di principio una eterogenesi dei fini in buona fede, non può mostrare esplicitamente e concretamente una contraddizione fra la volontà di fare il bene del paziente e il fatto di farlo realmente. Un medico dovrebbe sempre e comunque operare concretamente per guarire un paziente: la sua opera deve mirare a risolvere positivamente una sofferenza e deve svilupparsi in una relazione medico-paziente costruita sulla sincerità, sulla fiducia e sulla pietas.

 Un’altra questione molto spinosa è quella della politica e del suo rapporto con la medicina: la politica, la cui prerogativa si configura rispetto al potere, il potere reale, beninteso, quello che ha attraversato la storia aggrappato alla sua ossessione: l’auto-riproduzione. Nei palazzi della politica sono poche le stanze aperte all’aria pura, alla trasparenza, alla coerenza. Sono molte di più quelle dove si respira la menzogna, la prevaricazione, l’opportunismo, la strumentalizzazione, se non peggio. Facile allora immaginare la fine ingloriosa di una medicina ingabbiata e strumentalizzata da un management politico prono ad una idea di potere fine a se stesso. La qualità di una pratica medica è stata sempre pensata e misurata in funzione del potere che poteva garantire. Questa concezione del potere sta portando la nostra civiltà verso una crisi di proporzioni gigantesche. Qualunque speranza che questa rigida, micidiale concrezione politico-finanziaria-criminale-digitale-militare si incrini facendo emergere un barlume di buon senso sembra destinata alla delusione. Ci chiediamo, allora, se potrà mai esistere allora un luogo e un tempo in cui potere politico e potere medico possano trovarsi entrambi dalla stessa parte, e cioè dalla parte della difesa e della promozione della salute e del benessere umano.

E’ paradossale che in questi tempi post-moderni cosiddetti delle società fluide, disarticolate se non disossate dei loro valori, ormai categorie impolverate ed esangui; è paradossale che nel mondo globalizzato di uomini disorientati e soli, ingenui, rassegnati come pecore in recinti virtuali, drogate, tosate, terrorizzate da pastori e cani senza nome; è paradossale che proprio in questi tempi in cui si tenta di organizzare la vita sul pianeta secondo gli algoritmi escogitati dalle sofisticate menti tecnocratiche del pensiero unico, proprio in questi tempi emerga un pensiero antico da bere come acqua pura di fonte, pensiero carsico, rigenerante, antico e post-moderno insieme: l’antico pensiero cinese.

 

Elfidio Calchi

 


Elfidio Calchi, laureato in medicina e chirurgia nel 1978, dopo un breve periodo di pratica della medicina ufficiale presso l’ospedale di Rimini, si specializza poi in medicina tradizionale cinese presso la Scuola Tao di Bologna.  Con questa nuova comprensione lavora dapprima come medico privato e, successivamente, come direttore sanitario di un poliambulatorio di medicina naturale integrata a Riccione. Muore nel 2020 in seguito all’infezione da Covid19 contratta nell’esercizio della sua professione e lascia un sapere scritto che mostra come sia possibile rifondare la medicina nel senso di un sapere globale, capace di accogliere in sé le punte più avanzate di un sapere scientifico, filosofico e letterario.

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