Le strategie anti-Covid nei bambini ad un bivio

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Questa volta la preoccupazione viene sollevata direttamente da Nature. In un articolo di pochi giorni fa relativo alla autorizzazione dei vaccini per i bambini al di sotto dei 5 anni. La Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha concesso “l’autorizzazione di emergenza” ai vaccini Covid 19 per i bambini di età inferiore ai cinque anni. Supponendo che anche i Centers for Disease Control and Prevention firmino la decisione, altri 18 milioni di persone, di età compresa tra 6 mesi e 4 anni, negli Stati Uniti saranno idonee per l’inoculazione.

 

Per cominciare non si capisce di quale “emergenza” si tratti, ora che l’andamento del Covid-19 è andato assumendo un carattere endemico, caratterizzato da un basso tasso di letalità e di occupazione delle terapie intensive. Ciò è specialmente vero per le fasce d’età al di sotto dei 60 anni per le quali la mortalità è di circa 1 caso ogni 1000 persone colpite dalla malattia, ed è quindi del tutto sovrapponibile a quella dell’influenza.

In secondo luogo la sperimentazione è stata condotta su un ristretto pool di bambini, rispettivamente 1700 nella fascia di età 6-23 mesi e 3040 per i 2-5 anni per il campione su cui è stato testato il vaccino Moderna. Numeri analoghi sono quelli coinvolti nello studio del vaccino Pfizer per i bambini. Numeri insufficienti ad evidenziare benefici o eventi avversi, soprattutto quando questi sono attesi con una frequenza di uno/due casi ogni 10.000. Sarebbe stato necessario arruolare almeno 10.000 bambini per ogni fascia di età e studiarli per un periodo congruo, superiore ai sei mesi, anziché restringere l’ambito di osservazione ai primi due mesi come è avvenuto. Ma si sa, time is money, e i signori delle multinazionali non hanno tempo da perdere.

I risultati poi sono a dir poco deludenti: il vaccino Moderna “protegge” dalla malattia sintomatica nel 50.6% dei casi per i bambini al di sotto dei due anni di età, mentre per la fascia 2-5 anni la protezione è addirittura solo del 36.8%. Un quadro sostanzialmente simile per il vaccino pediatrico di Pfizer: testato nei due gruppi di età su un numero ancora più piccolo di 386 e 606 bambini, rispettivamente, ha permesso di rilevare una protezione di poco superiore al 70%, ma solo se si eseguono tre dosi nell’arco di due mesi. Inoltre, questi risultati sono limitati ai primi mesi e non ci dicono nulla se la protezione si stende oltre. Non occorre tuttavia essere un genio per capire che con queste percentuali di protezione il vaccino non ha senso per queste fasce di popolazione.


I risultati sono poi compromessi dal fatto che – come nota Nature – queste cifre si basano su un numero troppo esiguo di casi, tanto che sono state rilevate solo sette infezioni nel gruppo placebo e tre nel gruppo vaccino. Quale beneficio si può evincere da questi dati? Doran Fink, vicedirettore delle applicazioni dei vaccini e dei prodotti correlati presso la FDA a Silver Spring, ha dichiarato alla riunione del panel della FDA che “queste stime sono preliminari e “imprecise”. Paul Offit, specialista in vaccini e malattie infettive presso il Children’s Hospital di Filadelfia in Pennsylvania, è stato ancor più lapidario quando ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma di “non aver visto alcuna prova di efficacia contro Omicron con le prime due dosi del vaccino Pfizer nei bambini”. La conclusione di Nature è che la necessità di dover eseguire tre vaccinazioni ravvicinate con il Pfizer si

“lasciano i piccoli potenzialmente vulnerabili più a lungo. Significa anche che i bambini devono assumere tre dosi per ottenere protezione, il che potrebbe rappresentare una sfida logistica. Sono molto preoccupato che molti di questi bambini non ricevano la terza dose, poiché conosciamo la difficoltà tremenda che si incontra nel fare le prime due”.

In queste condizioni, è dubbio che la vaccinazione dei più piccoli possa avere “un significativo impatto sull’evoluzione della pandemia”. Questo il commento lapidario di Nature. È lecito supporre che, con il progressivo affermarsi delle nuove varianti omicron, la percentuale di risultati positivi finirà con il ridursi ulteriormente, come peraltro documentato da innumerevoli studi condotti sugli adulti. Sappiamo oggi che il vaccino studiato per fronteggiare il virus originale offre scarsa protezione dal contagio da quando le prime due varianti omicron (BA) hanno preso il sopravvento.

Disgraziatamente l’immunità acquisita con quel vaccino non protegge affatto dalle nuove varianti.

Anche il nuovo vaccino bivalente di Moderna (indirizzato contro la Sars-CoV-2 originaria e le varianti BA.1 e 2 di omicron), seppure genera anticorpi contro le nuove varianti (BA.4 e BA.5) lo fa in misura minima, con anticorpi che sono tre volte inferiori a quelli ottenuti contro il primo ceppo di omicron. La domanda a cui la FDA deve rispondere – e su cui dobbiamo interrogarci tutti – è se i vantaggi modestissimi ottenuti nei bambini con questi “nuovi” vaccini siano sufficienti a giustificare la spesa e il rischio di eventi collaterali.

Eventi avversi “rari, ma gravi” sono stati registrati. Se sono stati osservati su un numero così ristretto di bambini c’è da riflettere su quale potrebbe essere la loro reale incidenza quando saranno coinvolti milioni di persone. E la conclusione di Nature è che

“non c’è nulla nei dati di Pfizer e Moderna per giustificare una tale scelta”.

Ricordiamolo ai santoni che amano ricordare che “ce lo dice la Scienza”.

Mariano Bizzarri, Università La Sapienza

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