La Rivalità Anglo-Russa Parte II. Il “Grande Gioco” del XIX secolo

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Questa è la seconda parte del saggio sulla rivalità anglo-russa di Terry Boardman, storico britannico. La prima parte è stata pubblicata qui

I due imperi maggiori

I due più grandi rivali imperiali del mondo per la maggior parte del XIX secolo sono stati quello britannico e quello russo. A metà di quel secolo la loro rivalità sfociò in un grave conflitto militare in Crimea, una regione a migliaia di chilometri dalla Gran Bretagna e dalla Francia, che i due alleati invasero nel 1854. Dalla guerra di Crimea, l’antagonismo anglo-russo è continuato, a fasi alterne, fino a oggi in forme diverse dal conflitto militare diretto tra i due Paesi.

Cosa c’è veramente dietro? Dove si trovano le radici di tale antagonismo? Nel XIX secolo le cause erano essenzialmente due: in primo luogo, la russofobia britannica che si concentrava interamente sul possesso britannico dell’India e sulla paura dell’élite britannica di perdere l’India a favore della Russia; in secondo luogo, lo sdegno, il disprezzo e l’indignazione che i Whigs e i liberali britannici in particolare provavano per ciò che consideravano l’arretratezza politica e culturale della Russia e il suo sistema autocratico. Questi due fattori rimangono tuttora attivi in Gran Bretagna, ma nel XX secolo sono stati affiancati da un terzo importante fattore, che sarà discusso nel terzo e ultimo articolo di questa serie.

Da Pietro a Paolo e Alessandro

Alla fine del XVIII secolo, i due Stati che nel 1600 erano l’Inghilterra e la Moscovia erano diventati le potenze imperiali di portata mondiale Gran Bretagna e Russia imperiale – la “Balena” (come veniva chiamata la Gran Bretagna per la sua potenza marittima) e l’“Orso”. Dalla sua posizione insulare, la Gran Bretagna si era espansa attraverso gli oceani fino a raggiungere quasi l’intera periferia globale, mentre la Russia si era naturalmente espansa via terra: a ovest fino al Baltico, a sud fino al Mar Nero e massicciamente a est fino alla Siberia e all’Oceano Pacifico.

Nel XVIII secolo l’élite britannica era rivolta ad affrontare la Francia per sostituirla come potenza globale. Gli zar russi dopo Pietro il Grande (1682-1725) proseguirono con una graduale occidentalizzazione del Paese e cercarono di espandersi contro le potenze musulmane del sud e del sud-est, i turchi ottomani e i persiani. Le relazioni tra Gran Bretagna e Russia erano state nel complesso buone, tranne durante la Guerra dei Sette Anni a metà del secolo, quando erano alleate di potenze opposte, ma le loro forze non si erano mai scontrate. Le vere tensioni iniziarono solo all’epoca di Caterina II (la Grande), nel 1790, quando William Pitt il Giovane era primo ministro in Gran Bretagna. L’élite britannica, sempre preoccupata per il suo controllo sull’India, così importante per l’economia britannica, iniziò a pensare che la Russia potesse rappresentare una minaccia indiretta o diretta al controllo britannico dell’India, a causa della politica aggressiva dell’imperatrice Caterina nei confronti della Turchia, che i britannici vedevano come uno Stato guardiano che serviva i loro interessi nel tenere le altre potenze europee lontane dall’India britannica. Quando la Russia conquistò la fortezza di Ochakov (vicino a Odessa) dopo il Trattato di Jassy (1792), William Pitt minacciò aggressivamente la guerra ed equipaggiò una flotta per raggiungere la regione, ma l’abilissimo ambasciatore russo a Londra organizzò una campagna che indebolì la posizione di Pitt sulla questione delle relazioni anglo-russe e Pitt fece marcia indietro.

Un altro problema emerse quando a Caterina la Grande succedette il suo eccentrico figlio, lo zar Paolo I (1796-1801), che, dopo essere stato inizialmente antifrancese – i francesi rivoluzionari avevano giustiziato pubblicamente il loro re e la loro regina, cosa che il tradizionalista Paolo non apprezzò – passò a una politica filofrancese e antibritannica. perché riteneva che gli inglesi avessero esercitato pressioni indebite sui suoi amici scandinavi in Danimarca e Svezia e perché, nell’ottobre 1800, l’ammiraglio britannico Nelson aveva conquistato l’isola di Malta, tradizionalmente governata dai Cavalieri Ospitalieri, un ordine cattolico romano di cui Paolo, che era molto attento alle questioni cavalleresche, era diventato Gran Maestro solo di recente, nonostante fosse russo-ortodosso. Poiché Malta era una risorsa navale strategica nel mezzo del Mediterraneo, gli inglesi non restituirono l’isola. Paolo si infuriò e cercò di colpire la Gran Bretagna nei suoi punti deboli: il commercio e le colonie. Si alleò con Napoleone e decise di bloccare il commercio britannico nel Baltico, una regione vitale per i prodotti essenziali per la Royal Navy, e unirsi ai francesi in una grande marcia verso l’India, un progetto che il suo nuovo alleato francese Napoleone aveva già tentato di realizzare nel 1798 con la fallita spedizione in Egitto. Napoleone sapeva che l’India era la chiave per il predominio della Gran Bretagna sul commercio mondiale. La risposta britannica alla mossa di Paolo non si fece attendere: il 23 marzo 1801, quando 20.000 cosacchi russi erano già in viaggio verso l’India e avevano raggiunto il Mare d’Aral, Paolo fu assassinato da una congiura di aristocratici guidata dai conti Pahlen e Panin, dal generale hannoveriano Benningsen e dal generale georgiano Yashvil, insieme ai tre fratelli Zhubov, la cui sorella era l’amante dell’abile ambasciatore britannico Charles Whitworth, che fornì i finanziamenti per il complotto. I cospiratori riuscirono persino a convincere il figlio di Paolo, lo zarevitch Alexander, a tacere sulla vicenda; egli si associò, pensando erroneamente che l’eccentrico padre non sarebbe stato effettivamente ucciso. Questi uomini avevano le loro ragioni personali, per lo più venali, per opporsi allo zar Paolo, ma la sua drammatica scomparsa era certamente nell’interesse della politica estera britannica.

L’assassinio dello zar Paolo I

L’amante russa dell’ambasciatore Whitworth, Olga Zherebtsova, nella cui casa i cospiratori avevano elaborato i loro piani, seguì presto Whitworth in Gran Bretagna, ma lì questi la scaricò e sposò la ricca vedova del duca di Dorset, che valeva 13.000 sterline all’anno e possedeva il borgo di East Grinstead. Inutile dire che il nuovo zar Alessandro (1801-1825) richiamò immediatamente la spedizione militare del padre nell’India britannica e riportò la Russia a una politica antifrancese. Non fece giustiziare nessuno dei cospiratori coinvolti nell’assassinio del padre.

Fu durante il regno del nuovo zar Alessandro I che le relazioni tra Gran Bretagna e Russia presero la direzione velenosa che hanno mantenuto da allora, ad eccezione di due brevissime parentesi intorno alla Prima guerra mondiale (1907-1917) e durante la Seconda guerra mondiale (1941-45). Il periodo successivo alla sconfitta di Napoleone nel 1815 fu quello in cui, dopo mille anni di progressivo avvicinamento, i due Paesi che erano ormai diventati la Grande Balena e il Grande Orso entrarono in uno stato di ostilità apparentemente permanente. E iniziò, in un primo momento, a causa della paranoia dell’élite britannica per la possibile perdita dell’India, paranoia che più tardi, nel XIX secolo, fu mascherata con il termine molto britannico di “The Great Game”, “Il Grande Gioco”.

La russofobia dopo il 1815: Il Grande Gioco

La disputa sulla Polonia aveva provocato la prima grave ondata di russofobia britannica dopo il Congresso di Vienna del 1815. Lord Castlereagh, il potente ministro degli Esteri britannico dell’epoca, si era fortemente opposto al desiderio dello zar Alessandro I di essere incoronato re di Polonia. Il falso polacco anti-russo noto come Testamento di Pietro il Grande, diffuso per la prima volta da Napoleone nel 1812, accusava i russi di avere, tra l’altro, disegni sull’India britannica. Fu tradotto per la prima volta in inglese in questo periodo. Guy Mettan in Creating Russophobia (2017) scrive:

La lobby imperialista, sempre più potente a Londra, non avrebbe più perso di vista la Russia e sarebbe diventata l’avversario più determinato della causa russa….”.

A partire dagli anni Venti del XIX secolo, sulla stampa britannica cominciarono a comparire frequentemente lettere, articoli e polemiche sulla sete di espansione illimitata dei russi e sulle minacce che essi rappresentavano per gli interessi britannici.

I Whigs, che rappresentavano i principi del libero scambio britannico e l’opposizione liberale della classe media al governo Tory, erano anche veementi nelle loro critiche alla Russia, che consideravano arretrata, persino barbara e illiberale. Essendo spesso essi stessi antimonarchici, si opponevano naturalmente all’autocrazia zarista. Questa veemenza passò ai liberali a metà del secolo e si ritrova ancora oggi in media come il quotidiano The Guardian e la BBC. Si alluse spesso al Testamento falsificato di Pietro il Grande  senza essere menzionato esplicitamente, nelle assurde accuse che i russi stavano progettando di “conquistare il mondo”.

Anche se negli anni Venti del XIX secolo il governo britannico si trovò alleato con i russi per la questione dell’indipendenza della Grecia dalla Turchia, la stampa britannica continuò a battere il ritmo della russofobia, sospettando sempre che la Russia avesse intenzione di conquistare Costantinopoli e di penetrare nel Mediterraneo, rappresentando così una potenziale minaccia per le rotte marittime e terrestri verso l’India.

E poi ancora la questione polacca, quando i polacchi si sollevarono in rivolta contro lo zar Nicola I nel 1830, suscitando grande emozione nelle classi medie inglesi quando la rivolta fu repressa.

Inutile dire che, allora come oggi, le classi medie britanniche non sapevano quasi nulla della vita reale in Russia o in Polonia, se non quello che la stampa raccontava loro.

Una nota vignetta del disegnatore Granville fece il giro del mondo, raffigurante un cosacco che fumava la pipa, in piedi in mezzo a cadaveri polacchi. Come al solito, la memoria era corta: i dragoni avevano massacrato i manifestanti per i diritti civili a Manchester solo 12 anni prima. Nel 1833, Russia e Turchia firmarono un accordo di pace, che però fece infuriare la stampa britannica, timorosa come sempre che la Turchia potesse permettere alla marina russa di entrare nel Mediterraneo. In realtà, i russi erano preoccupati delle conseguenze del declino turco tanto quanto gli inglesi. L’accordo di pace con la Turchia permise alla Russia di stabilire pienamente il controllo sulla Circassia, nella regione nordorientale del Mar Nero, ma i circassi si opposero. I britannici inviarono segretamente armi ai circassi, ma furono scoperti e i due Paesi arrivarono a un passo dalla guerra, ma i britannici fecero marcia indietro, poiché all’epoca non potevano assicurarsi alcun alleato continentale per combattere la Russia.

Il termine “Grande Gioco” fu coniato da un ufficiale britannico, Arthur Conolly, che cercò di convincere le tribù turkmene a ribellarsi alla Russia, ma finì decapitato a Bokhara nel 1842. Nel corso di questi decenni si susseguirono numerose e intrepide “avventure” di soldati, agenti e spie britanniche nelle profondità dell’Asia centrale; le loro imprese, riportate con fervore dalla stampa, alimentarono il fuoco della russofobia in Gran Bretagna.

Uno di questi “avventurieri” fu l’enigmatico scopritore, traduttore, scrittore, orientalista, agente segreto, diplomatico e occultista inglese, il capitano Sir Richard Francis Burton (1821-1890), che viaggiò molto e conosceva 29 lingue eurasiatiche. Fu membro, insieme al romanziere e politico Edward Bulwer-Lytton e a Lord Stanhope, del gruppo occulto Orphic Circle e accedeva regolarmente all'”altro mondo” attraverso la moglie Isabel, una medium. Burton disse:

“Credo che lo slavo sia la futura razza dell’Europa, così come ritengo che il cinese sia la futura razza dell’Oriente”. Nello scrivere di politica e di storia che possono vivere dopo che si è stati a lungo dimenticati, si deve dire la verità, e seppellire repulsioni e simpatie”(1)

Lo ribadì in occasione di una cena alla presenza di Lord Palmerston e aggiunse che

“Russia e Cina avrebbero un giorno combattuto per l’Asia centrale”.

Sir Richard Francis Burton

La paranoia britannica nei confronti dell’India e il sospetto che i russi stessero usando i persiani per attaccare l’India portarono alla Prima guerra afghana del 1839, che si concluse in modo disastroso per i britannici; essi invasero il Paese ma furono massacrati e, dopo aver riconquistato Kabul, si ritirarono e la pace fu ristabilita con difficoltà nel 1842. Il sovrano afghano Dost Mohammed disse:

“Sono stato colpito dalla grandezza delle vostre risorse, delle vostre navi, dei vostri arsenali, ma quello che non riesco a capire è perché i governanti di un impero così vasto e fiorente abbiano attraversato l’Indo per privarmi del mio povero e arido Paese”.

Evidentemente non conosceva bene gli imperativi del “Grande Gioco”

La crisi egiziana dei primi anni Quaranta del XIX secolo alimentò ulteriormente la russofobia britannica. Mettan osserva:

“In soli 25 anni, l’opinione pubblica inglese era stata completamente ribaltata. Da alleato privilegiato, che era entrato in guerra contro Napoleone a fianco della Gran Bretagna per non partecipare al blocco anti-inglese voluto dall’imperatore francese, la Russia era diventata il nemico pubblico numero uno del Regno Unito. Da grande alleato dell’Inghilterra liberale, lo zar era diventato un despota barbaro e furiosamente espansionista. Da quel momento in poi, solidamente impiantata nell’opinione pubblica, la russofobia britannica si sarebbe rapidamente tradotta in guerra aperta. Una semplice scintilla avrebbe potuto scatenarla”(2) 

Il sostenitore della russofobia britannica, Lord Palmerston, descrisse la lotta contro la Russia come una “lotta della democrazia contro la tirannia” (come i politici britannici di oggi).

La scintilla arrivò nel 1853. Una discussione sui diritti delle minoranze cristiane in Palestina, governata dagli Ottomani, portò la Turchia a dichiarare guerra alla Russia nell’ottobre dello stesso anno. I russi distrussero una flotta turca a Sinope e gli inglesi e i francesi, temendo un crollo turco, si unirono alla guerra e invasero la penisola di Crimea. Questa guerra, l’unica volta in cui le forze britanniche e russe si sono scontrate direttamente, fu uno spartiacque nelle relazioni anglo-russe e le avvelenò per oltre sessant’anni.

Carica della cavalleria nella battaglia di Balaklava (25 Ottobre 1854)

È stata la prima guerra fotografata e raccontata in dettaglio dalla stampa, i suoi nomi e i suoi eventi, gli orrori e gli eroi, le vittorie e i disastri, sono rimasti impressi nella coscienza nazionale. Innumerevoli nomi di strade britanniche in tutto il Paese derivano da essa.

Gli imbarazzi della Gran Bretagna nella guerra di Crimea e le successive sconfitte nelle lotte coloniali in Africa non fecero che preoccupare ancora di più gli imperialisti britannici in quei sei decenni. Nonostante l’apice della potenza al momento del Giubileo di diamante della Regina Vittoria nel 1897, e nonostante l’orgoglio imperiale e l’ostentazione sempre crescente, l’élite britannica sapeva che l’impero era fragile, sia in patria che all’estero, e che dopo gli anni ’70 dell’Ottocento stava perdendo terreno dal punto di vista economico a vantaggio della Germania e degli Stati Uniti. Solo due anni dopo la costosa vittoria in Crimea, era scoppiato l’ammutinamento o ribellione indiana, che aveva profondamente scioccato gli inglesi indignati, li aveva messi sulla difensiva, consapevoli del potenziale degli indiani per ulteriori rivolte, e aveva accresciuto notevolmente il loro senso di superiorità razziale e la distanza psicologica dagli indiani: la mentalità del “Club” aveva ora preso il sopravvento, mentre la comunità britannica in India si limitava sempre più ai propri circoli.

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Un inglese si fa pare il pedicure da un servitore indiano

Nel frattempo, i russi, che stavano costruendo linee ferroviarie, avanzarono lentamente ma costantemente in questi decenni attraverso l’Asia centrale, dal Mar Caspio verso l’Afghanistan. Come sempre, il timore costante degli inglesi era la possibile perdita dell’India, fonte del loro profitto nazionale e personale, del loro orgoglio civile, culturale, religioso, professionale e razziale, e della loro brama di avventura e autoaffermazione.

Il trentennio 1877-1907 fu l’apice del Grande Gioco, mentre i russi si avvicinavano sempre più all’India. Disraeli dichiarò Vittoria “Imperatrice dell’India” nel 1876, mentre il suo amico Segretario alle Colonie Edward Bulwer-Lytton aveva nazionalizzato la Compagnia delle Indie Orientali nel 1858. Disraeli nominò anche il figlio del suo amico, un altro Edward Bulwer-Lytton, Viceré dell’India sotto Vittoria, come Imperatrice dell’India. Nello stesso anno 1876, durante il vicereame di Bulwer-Lytton, scoppiò una grave carestia in India; almeno 8 milioni di persone morirono e Bulwer-Lytton fu molto criticato per la sua scarsa risposta al disastro, una risposta informata dalle sue idee di darwinismo sociale. Nel 1878 portò l’India britannica nella seconda guerra afghana, combattuta più o meno per gli stessi motivi della prima, e nel 1879 l’impero subì un’umiliante sconfitta per mano degli zulu in Africa meridionale, un’altra “avventura” imperiale disraeliana.

Questi anni rappresentarono un altro spartiacque nella storia britannica; per i successivi quarant’anni, fino al 1914, gli atteggiamenti britannici nei confronti dell’Impero furono caratterizzati da una peculiare arroganza, mentre i grandiosi sogni di Federazione Imperiale (1884), un’entità imperiale unita che si estendesse su tutto il globo, nascevano nell’immaginario di settori dell’élite imperialista, guidati da personaggi del calibro di Charles Dilke MP, dello storico J.R. Seeley, di Cecil Rhodes, di Lord Milner e del giornalista W.T. Stead.

Ma insieme a questa crescente arroganza si fece strada anche la consapevolezza di una debolezza dilaniante nei confronti della Russia, della Germania e dell’America. Questa consapevolezza portò alla rivoluzione diplomatica della politica estera britannica che si verificò tra il 1887 e il 1907. Negli anni 1884-87 si cristallizzò un complesso di fattori che non è possibile approfondire in questa sede, ma forse il più significativo di essi fu che nel 1887 gli inglesi si trovarono di fronte a un’incombente alleanza franco-russa a sostegno di una potenziale ribellione indiana da parte del principe sikh Duleep Singh (vedi foto sotto), che era stato allontanato dall’India da bambino dal governo britannico ed era cresciuto in Gran Bretagna. Da allora aveva riscoperto le sue radici indiane e voleva tornare in India per guidare il suo popolo nel Punjab. Per gli inglesi questa era la sfida più seria al Raj britannico: la prospettiva di una ribellione indiana aiutata da due grandi potenze europee. Riuscirono a superare la crisi, anche perché lo zar Alessandro III (1881-1894) si rifiutò di appoggiare Duleep Singh, ma ciò li portò a rivalutare la loro strategia imperiale e la loro politica estera.

Giunsero alla conclusione che la minaccia congiunta dei loro avversari di lungo periodo, Francia e Russia, avrebbe dovuto essere affrontata allineandosi con questi due Paesi, al prezzo di abbandonare le relazioni tradizionalmente amichevoli della Gran Bretagna con i nemici di Francia e Russia, ovvero Germania e Austria.

Il principe sikh Duleep Singh

I miti nazionali della Gran Bretagna

Prima di procedere, occorre considerare un importante motivo di fondo del Grande Gioco e delle relazioni anglo-russe del XIX secolo. Alla fine delle guerre contro Napoleone, la Gran Bretagna e la Russia avevano già abbracciato i propri miti nazionali, entrambi molto significativi, che, in modi diversi, si rifacevano all’antica Roma.

L’élite britannica e molti tra la popolazione britannica nel suo complesso, dopo la vittoria del Paese sull’Armada spagnola nel XVI secolo – che fu più che altro una fuga fortunata – e l’umiliazione della Francia reale e poi imperiale nel XVIII e all’inizio del XIX secolo, il successo nell’impiantare colonie in Nord America e altrove, la crescita della sua economia e della sua cultura in America e altrove, la crescita dei suoi possedimenti oltremare, le sue conquiste commerciali salvaguardate dalla più grande marina militare del mondo e sostenute dal suo progresso scientifico e tecnico e dalla sua abilità nella nascente Rivoluzione industriale, si era arrivati a pensare che la Provvidenza stesse ora soffiando nelle vele della nave di stato britannica.

Alla fine del XVIII secolo, tuttavia, la coscienza nazionale inglese si era in qualche modo spaccata: c’erano quelli più cinici e interessati a se stessi, meno preoccupati di salvare le loro anime e più preoccupati di massimizzare i loro profitti, i cui valori erano più influenzati dai modelli razionalisti e classici romani. Si consideravano realisti e “con i piedi per terra” e volevano “andare avanti nel mondo”, sia in patria che all’estero. Queste persone credevano di accettare il mondo così com’è e cercavano di trarne profitto – così com’è.

Uno di questi era Robert Clive, il generale vittorioso delle guerre della Compagnia delle Indie Orientali a metà del XVIII secolo. Partito per l’India nel 1744 come impiegato della Compagnia delle Indie Orientali, Clive tornò a Shrewsbury nel 1767 come uomo molto ricco, con l’equivalente di circa 50 milioni di sterline al giorno d’oggi, somma che lui stesso considerava moderata, a suo dire, viste le opportunità di maggior profitto disponibili in India. Probabilmente nessuno più di Clive ha contribuito a consolidare la struttura del potere britannico in India. Eppure, quando lasciò l’India nel 1767, disse:

“Siamo consapevoli che… il potere che in precedenza apparteneva al soubah [sovrano] di quelle province è totalmente, di fatto, conferito alla Compagnia delle Indie Orientali. Non gli rimane altro che il nome e l’ombra dell’autorità. Questo nome, tuttavia, quest’ombra, è indispensabile che sembri essere venerato.“(3)

Il barone Robert Clive

Questo era stato anche l’atteggiamento dei governanti della City di Londra, di cui i leader globalmente operativi della Compagnia delle Indie Orientali erano i principali, nei confronti del monarca britannico: venerare il trono, sicuri che dalla cosiddetta “Gloriosa Rivoluzione” del 1688 o addirittura dalla Restaurazione della monarchia nel 1660, il trono regna ma non governa; noi, i ricchi uomini della City di Londra, governiamo. Questo era l’atteggiamento cinico degli uomini di potere. Tuttavia, sette anni dopo il suo ritorno dall’India, nel 1774, all’età di 49 anni, Robert, ora Barone Clive, dipendente dall’oppio e affetto da depressione e calcoli biliari, morì dopo essersi tagliato la gola con un coltellino, vittima del suo stesso successo.

Fin dai tempi dei marinai e degli avventurieri elisabettiani del XVI secolo – “vichinghi dell’ultima ora” come Drake, Hawkins, Frobisher e Raleigh – l’espansione britannica era stata guidata dalla brama di profitto, dalla curiosità e dall’amore per l’avventura; questo era il caso delle colonie più meridionali dell’Inghilterra, in Nord America, dalla Virginia alle Caroline, ma c’era anche un particolare motivo religioso – più evidente nelle colonie più settentrionali, dalla Virginia al Massachusetts – ossia il desiderio dei Puritani di fuggire, come gli israeliti su cui si modellavano, dalla malvagità del peccaminoso “Egitto” (cioè l’Inghilterra) e cercare la loro Terra Promessa nel Nord America. Colpiti dagli ebrei incontrati nei Paesi Bassi, i puritani inglesi in America si considerarono sempre più come il nuovo “popolo eletto” di Dio. Pur essendo nominalmente cristiani, vivevano la loro vita soprattutto secondo l’Antico Testamento, il che significava che molti di loro, anche se non tutti, tendevano a considerare i popoli nativi tra i quali si trovavano come “cananei”, selvaggi al di fuori della grazia di Dio, che potevano e dovevano essere trattati duramente, anche in modo genocida se necessario, come fece Giosuè con i popoli di Canaan.

Tuttavia, a partire dagli anni Settanta del XVII secolo, un nuovo movimento religioso – quello dell’anglicanesimo evangelico – si diffuse in Gran Bretagna; esso diede origine a una nuova forma di mito nazionale del “popolo eletto” e la sua enfasi pietistica metodista sulla vita interiore e sulla nuova nascita in Cristo e nello Spirito Santo pose l’accento sul Nuovo Testamento piuttosto che sull’Antico, sfidando la Chiesa anglicana stabilita, nella quale molti ritenevano che la religiosità fosse diventata una questione di forme esteriori, cerimonie e conformità alle convenzioni sociali.

Molte persone desideravano una vita religiosa di esperienza che enfatizzasse alti standard morali sia per il clero che per i laici. Lo shock per la perdita delle colonie americane, il Declino e caduta dell’Impero romano di Edward Gibbon, pubblicato nell’anno della Dichiarazione d’indipendenza americana, il processo a Warren Hastings per corruzione nella Compagnia delle Indie Orientali, la decadenza stravagante di molti esponenti dell’alta borghesia, la crescente consapevolezza della durezza della Rivoluzione industriale e dei mali della tratta degli schiavi: tutto questo alimentava in molti l’idea che Dio stesse mettendo alla prova e punendo l’Inghilterra per i suoi peccati.

Tuttavia, nonostante la nuova attenzione al Nuovo Testamento, a Cristo nell’anima individuale e alla compassione per gli oppressi e gli schiavi, tra gli inglesi emerse un nuovo senso di convinzione di essere, dopo tutto, il popolo eletto da Dio, un popolo il cui destino era quello di essere una luce per il mondo.

“Chi sfidava Dio, sfidava l’Inghilterra” e “chi sfidava l’Inghilterra, sfidava Dio”. Si riteneva che gli inglesi avessero ricevuto da Dio il manto del potere mondiale e che dovessero usarlo “correttamente”. Essi erano quindi decisi a mantenere quel manto fino a quando fosse stato “appropriato” o fino a quando la Provvidenza avesse decretato che avrebbero dovuto farlo. Gli anglicani evangelici furono molto attivi nel movimento antischiavista, che alla fine raggiunse il successo nell’Impero britannico nel 1833. La Royal Navy, che pattugliava il mondo arrestando i mercanti di schiavi e mantenendo gli oceani sicuri per il commercio britannico, diede alle persone di mentalità liberale in Gran Bretagna un compiaciuto senso di superiorità morale e, gradualmente, il senso di diritto divino nei confronti dell’Impero, soprattutto dopo che lo Stato britannico assunse la gestione dell’India quando la Compagnia delle Indie Orientali fu nazionalizzata nel 1858.

Il mito medievale di San Giorgio che salva la fanciulla dal drago tornò molto utile per giustificare le azioni del Foreign Office. L’impero non era più solo una sordida fonte di profitto e ricchezza, ora si pensava che dovesse essere anche una crociata morale e provvidenziale per “salvare dalla tirannia i popoli oppressi” o per “elevare gli indigeni” nell’Impero che si chiamava così. Si profilavano grandi prospettive gonfiate della storia, del destino e della missione imperiale.

Il compito della Gran Bretagna era ora quello di diffondere in tutto il mondo libertà, governo parlamentare, legge, civiltà e cristianesimo.

Qualcosa di simile al destino dell’antica Roma si è verificato nella Gran Bretagna del XIX secolo nell’atteggiamento verso il suo impero: le conquiste della Repubblica romana erano state un’impresa senza fronzoli, con i piedi per terra, di pura forza militare, per distruggere i rivali in nome della sopravvivenza o per punire i governanti clienti recalcitranti, oppure semplicemente per acquisire più territori per la tassazione e l’estrazione mineraria.

Con il passare del tempo, tuttavia, l’Impero romano divenne sempre più pomposo e pretenzioso, meno romano e più greco e asiatico nel suo atteggiamento e nei suoi valori. Una transizione simile si verificò anche nella Gran Bretagna del XIX secolo e si rifletté nei suoi frequenti scarsi risultati militari nella seconda metà del secolo. La durezza della vita britannica nel periodo napoleonico e le linee semplici e classiche degli edifici georgiani lasciarono il posto a un’immagine più “morbida” e romantica, presieduta dalla coppia essenzialmente borghese della regina Vittoria e del suo consorte, il principe Alberto, mentre il loro popolo, o coloro che potevano permetterselo, si abbandonavano alla nostalgia del Medioevo cavalleresco e dello stile gotico, che rifletteva la “nuova” sensibilità romantica nelle arti e nell’architettura. Oppure, con l’affermarsi del cosiddetto razzismo “scientifico” dopo gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, altri britannici si ritenevano letteralmente discendenti degli antichi israeliti che, secondo il nuovo movimento israelita britannico, avevano vagato dalla Terra Santa, sotto forma delle Dieci Tribù Perdute dell’Antico Testamento, verso l’Europa, la Germania settentrionale e la Danimarca, da dove si erano stabiliti in Inghilterra e avevano dato origine alla famiglia reale britannica!

Molto presi da questa idea, Vittoria e Alberto fecero addirittura circoncidere i loro figli maschi reali, e gli eredi maschi reali apparentemente continuarono a essere circoncisi fino a quando la defunta principessa Diana non si impuntò. Mentre il simbolo della Gran Bretagna nella prima metà del secolo era più l’autocompiaciuto, materialista e con i piedi per terra scudiero John Bull, nella seconda metà era più l’immagine raffinata del gentiluomo inglese per antonomasia, oppure le figure allegoriche di Britannia e del leone britannico.

Rudolf Steiner diede una descrizione umoristica di questo processo in una conferenza del febbraio 1920, alla quale erano presenti alcuni inglesi. Parlò, con notevole ironia, di come l’impero fosse iniziato con “avventurieri, considerati piuttosto indesiderabili nel cuore dell’impero” che andavano a fare fortuna e poi tornavano a casa con le loro ricchezze. La società li guardava con sospetto, ma i loro figli e nipoti “puzzavano” un po’ di più:

“E poi le parole vuote prendono il sopravvento su ciò che comincia ad avere un buon odore. Lo Stato prende tutto sotto la sua ala, diventa il protettore, e ora tutto è fatto in modo onesto. Sarebbe bello se potessimo chiamare le cose con il loro vero nome, ma il nome proprio molto raramente denota la realtà effettiva”(4)

In quella conferenza parlava dei tre periodi di imperialismo che si erano sviluppati negli ultimi 5000 anni circa. Prima c’erano stati gli imperi teocratici, sacerdotali, governati da semidei, re-dio; poi gli imperi militari, governati dalla classe guerriera aristocratica, in cui i governanti non erano più re-dio, ma simboli che governavano per diritto divino a nome della divinità; questo era già un passo indietro, per così dire; e infine, dal XVI secolo, gli imperi economici basati inizialmente sul commercio e sul furto di terre altrui, ma che poi sono stati abbelliti, abbelliti, “truccati”, potremmo dire, con belle parole vuote per rendere gli imperi economici meno, beh, imbarazzanti. Oggi vediamo la stessa cosa in istituzioni come il World Economic Forum o nelle dichiarazioni di politica estera dei governi moderni e, alcuni direbbero, soprattutto del governo britannico, dove negli ultimi due secoli l’ipocrisia è diventata una sorta di arte.

I miti nazionali della Russia

La Russia, nel frattempo, aveva sviluppato due propri miti nazionali, uno del passato e uno del presente. Il mito del passato, dell’epoca greco-romana bizantina di Costantinopoli, era che c’era stata la prima Roma, caduta nel 476 d.C. per mano dei Goti e sostituita dalla seconda Roma – Costantinopoli – e anch’essa caduta, nel 1453, per mano dei Turchi e sostituita da Mosca, che aveva assunto il mantello della cristianità ortodossa. Secondo questa idea, emersa negli ambienti ecclesiastici russi verso la fine del XV secolo, Mosca era diventata “la Terza Roma”, come si espresse nel 1492 il metropolita di Mosca Zosimo, che chiamò Ivan III “il nuovo zar Costantino della nuova città di Costantino – Mosca”.

Il monaco Filoteo scrisse all’inizio del XVI secolo:

“Sappi dunque, pio re, che tutti i regni cristiani hanno avuto fine e si sono riuniti in un unico tuo regno, due Rome sono cadute, la terza sta in piedi e non ce ne sarà una quarta“. (5) . Nessuno sostituirà il tuo potere di Zar cristiano secondo il grande teologo” [cioè San Giovanni l’Apocalittico].

(vedi immagine sotto) Questo deve aver fatto sentire ai russi che il loro Paese era in qualche modo prescelto dal divino. Lo zar russo – il cui nome deriva ovviamente da “Cesare” – era quindi il protettore e il padre di tutti i cristiani, proprio come si consideravano gli imperatori bizantini nei 1000 anni successivi a Costantino. Nella Chiesa ortodossa il patriarca è sempre stato subordinato all’imperatore, a differenza dei papi romani, che si consideravano al di sopra di re e imperatori e che fino agli anni Sessanta del XIX secolo erano governanti territoriali a pieno titolo. Di conseguenza, gli impulsi dello Stato russo erano considerati di natura per lo meno semi-religiosa, quando ad esempio la Russia cercava di spingere i turchi ottomani fuori dalla Crimea o dai Balcani. Si considerava il patrono cristiano-ortodosso degli Slavi meridionali.

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Inoltre, a partire dall’inizio del XIX secolo, quando le dottrine del nazionalismo e del razzismo cominciarono a diffondersi dall’Europa occidentale e furono riprese in Russia, emerse un altro mito nazionale: l ‘idea del panslavismo in due forme, in particolare in una forma imperiale russa, conservatrice e tradizionalista (promossa dal diplomatico savoiardo Joseph de Maistre, che visse per molti anni in Russia ed esercitò un notevole grado di influenza) e in una forma nazionalista repubblicana.

Il panslavismo e l’odio per la Russia

Questo panslavismo nazionalista secolare era sostenuto dall’élite britannica, come si evince dal libro The Ottomans in Europe (1876) dello storico britannico turcofilo John Mill (Nb. non il filosofo, economista e parlamentare John Stuart Mill). Questo libro ci dà un’idea vivida del grado di odio nei confronti della Russia che si era sviluppato in Inghilterra nel XIX secolo (e che ancora oggi si esprime, anche se in modo meno viscerale, nei media britannici attraverso i regolari, orwelliani spazi di propaganda “anti-Russia, odio per Putin” nei notiziari e nei programmi di attualità della BBC). Dopo aver lodato i turchi come “gli inglesi d’Oriente”, Mill dice degli slavi:

“Lo slavo è forse il più grande fallimento che la natura abbia mai fatto nel suo tentativo di creare un uomo civilizzato. …. La causa principale della debolezza della Russia risiede nel nucleo più intimo del cuore slavo. Essa è priva di verità, e questa mancanza di veridicità si insinua in tutti i dipartimenti dello Stato…” [ …] “Per molti anni la Russia è stata come uno dei maghi di cui si legge nei libri dei Fratelli Occulti, che “chiamano gli spiriti dagli abissi immensi”, con questa sfumatura di differenza, che essi chiamavano quelli che potevano dominare e placare. Lei, con la sua avidità, la sua rapacità e le sue brutali brame, ha risvegliato demoni che non è in grado di controllare. Si sono impossessati del suo corpo e della sua anima e sono tutti folletti del sangue”. [….] “La Russia è… la terra dell’odio, della diffidenza, della forza brutale e della viltà abietta; dello spreco profuso in alcuni settori del servizio pubblico, della miseria dolorosa in altri. …Nel cuore pallido e smagrito della Russia si è fatta strada la convinzione che non si può stare peggio, e anche se l’Imperatore e il suo partito, in una certa misura, guidano e frenano la passione militare e tengono in soggezione i contadini, questo non può durare a lungo; i segugi, prima o poi, si lasceranno sfuggire il collare, e allora si leverà il grido di “scempio”…..” “La questione orientale deve essere risolta con il sangue. Si tratta semplicemente di una serie di operazioni chirurgiche, che dovranno essere eseguite con maggiore o minore abilità, e la questione finale è quale delle parti su cui devono essere eseguite le amputazioni può sopportare meglio l’esaurimento. Ce ne sono tre: Russia, Austria e Turchia che devono entrare in sala operatoria; altri, soprattutto l’Inghilterra, possono essere trascinati, ma per i primi tre non c’è scampo”. […] “La soluzione, dunque, o piuttosto la dissoluzione della Russia, è la vera questione orientale…. è piuttosto una questione settentrionale che orientale”. (7)

Un’invettiva altrettanto razziale contro i russi e gli slavi in generale si può trovare negli scritti di Karl Marx quando si trovava in Gran Bretagna e collaborava con un altro russofobo incallito, David Urquhart (1805-1877), diplomatico, scrittore e politico, che dedicò circa quarant’anni della sua vita alla propaganda filoturca e antirussa, fondando anche un giornale a questo scopo e scrivendo infiniti articoli e lettere alla stampa.

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David Urquhart

Mill e coloro che in Gran Bretagna la pensavano come lui, ed erano molti, si preoccuparono quindi di tendere alla disgregazione dell’Impero russo per preservare l’Impero britannico di cui lui e loro erano immensamente orgogliosi. Dobbiamo ricordare che l’unica ragione per cui i britannici come Mill si preoccupavano davvero della Turchia è perché la consideravano la porta d’accesso al loro Raj in India, una porta che erano determinati a tenere chiusa agli sfidanti.

Allo stesso modo, oggi è improbabile che personaggi come il Segretario alla Difesa britannico Ben Wallace e i recenti Primi Ministri britannici Boris Johnson, Liz Truss e Rishi Sunak si preoccupino dell’Ucraina, ma senza dubbio la considerano, come i geostrateghi occidentali di più alto livello, lo strumento con cui l’Occidente può colpire la Russia e il canale attraverso il quale, dopo aver fallito in Asia centrale tra il 2002 e il 2021, gli Stati Uniti e il Regno Unito possono sperare di rientrare in Asia centrale, come sosteneva Zbigniew Brzezinski (8).

I britannici “informati” del XIX secolo, come forse lo era John Mill, cercavano di usare quello che chiamavano panslavismo nazionalista repubblicano come martello contro quello che chiamavano panslavismo imperiale russo. Il panslavismo nazionalista repubblicano, secondo loro, poteva essere usato per attirare la Russia in una grande guerra con la Germania e l’Austria, una guerra che sarebbe sfociata nella disgregazione dello Stato russo o in una presa di potere comunista della Russia, che avrebbe potuto anche, attraverso una guerra civile, finire con la dissoluzione della Russia.

Il libro di Mill contiene mappe dei piani futuri per la Russia, l’Europa orientale e centrale – mappe che, a suo dire, circolavano nelle società segrete che servivano gli obiettivi imperiali russi e altre che rivelavano gli obiettivi dei panslavisti laici nazionalisti e repubblicani come le organizzazioni Narod Odbrana e Omladina (9), che rappresentavano l’eredità nazionalista repubblicana della Rivoluzione francese. Per realizzare gli obiettivi di questi gruppi, tuttavia, le alleanze, le amicizie e i nemici tradizionali di Gran Bretagna e Francia avrebbero dovuto essere invertiti.

I nemici tradizionali della Gran Bretagna – Francia e Russia – avrebbero dovuto essere riuniti in opposizione alla Germania e all’Austria, in modo da accerchiare le potenze dell’Europa centrale. Tutte queste cose straordinarie, difficilmente concepibili negli anni Sessanta dell’Ottocento, furono effettivamente realizzate nella rivoluzione diplomatica menzionata in precedenza, che fu portata avanti, passo dopo passo, tra il 1887 e il 1907, cosicché nel 1907 la Triplice Intesa di Gran Bretagna, Francia e Russia si trovò ad affrontare la Germania, l’Austria e, nominalmente, l’Italia. Questa rivoluzione diplomatica portò direttamente alla Prima Guerra Mondiale sette anni dopo, nel 1914, una guerra iniziata in Bosnia per la questione del panslavismo nazionalista della Serbia, che voleva una federazione di tutti gli Slavi del Sud sotto la guida serba. A questo si opponeva il panslavismo imperiale della Russia e il suo desiderio ancora vivo di recuperare Costantinopoli per la fede ortodossa e il proprio “Impero cristiano”.

Nell’Ucraina di oggi, gli inglesi e gli americani hanno utilizzato il manuale strategico del defunto geostratega polacco-americano Zbigniew Brzezinski per manipolare simili odi etnici slavi al fine di attirare la Russia in un’altra lunga guerra con l’intenzione, come nel 1914, di rovinarla di nuovo.

La differenza tra la Russia del 1876, di cui Mill scriveva, e quella del 1914 è che nel 1914 la Russia si era trasformata in una Grande Potenza che sia le élite britanniche che quelle tedesche vedevano ormai come una grave minaccia alla sopravvivenza dei propri imperi. Gli inglesi erano più che mai preoccupati, come sempre, per la sopravvivenza del loro controllo sull’India e del loro impero mondiale nel suo complesso; come disse Lord Curzon, il viceré in India, nel 1901:

“Finché governiamo l’India, siamo la più grande potenza del mondo. Se la perdiamo, scendiamo subito a una potenza di terza categoria”.(10)

Il Ministero degli Esteri tedesco, consapevole delle ambizioni panslaviste dell’Impero russo, capì che la Russia considerava la Germania e i suoi alleati, Austria e Turchia, come un ostacolo a tali ambizioni, incentrate sul recupero di Costantinopoli e sul controllo dei Balcani. Quello che probabilmente i russi non sospettavano era che i loro “alleati” britannici nella Triplice Intesa stavano in realtà pianificando una guerra che avrebbe distrutto, spezzato o indebolito gravemente la Russia.

Lo storico americano Sean McMeekin, nel suo libro The Russian Origins of the First World War (2011), ha giustamente puntato il dito contro la Russia per aver trasformato quella che avrebbe potuto essere solo una terza guerra balcanica in una guerra paneuropea e mondiale, ma ciò che non ha visto, o non ha voluto vedere, è che erano gli inglesi, preoccupati per la sopravvivenza del loro impero mondiale che dipendeva dal controllo dell’India, e i francesi, ancora in cerca di vendetta per la perdita dell’Alsazia-Lorena a favore della Germania nel 1871, erano stati per quasi tre decenni le due forze principali che avevano guidato la tragedia in corso, iniziata con le pallottole dell’assassino a Sarajevo il 28 giugno 1914. I tedeschi, gli austriaci, i russi e i turchi finirono tutti nella “sala operatoria” di Mill per essere “amputati” come vittime della paranoia e del revanscismo anglo-francese.

In 1993 è stato pubblicato un libro che conferma le intenzioni britanniche appena mascherate da John Mill nel suo libro del 1876 The Ottomans in Europe [L’Impro ottomano in Europa NdT]. Il sottotitolo di quel libro era “o la Turchia nella crisi attuale, con le mappe delle società segrete“. Secondo Mill, queste società segrete erano i gruppi politici segreti che stavano dietro ai panslavisti, in particolare il gruppo repubblicano panslavista Omladina, che rappresentava l’eredità nazionalista repubblicana della Rivoluzione francese, e anche i gruppi segreti che sostenevano gli obiettivi panslavisti imperiali russi. Il libro del 1993 era L’universo trascendentale di Charles G. Harrison, una raccolta di sei profonde conferenze sull’occultismo tenute da Harrison cento anni prima, nel 1893.

Egli predisse “la prossima grande guerra europea”, “la morte dell’Impero russo in modo che il popolo russo possa vivere” e anche che

“il carattere nazionale [dei russi] permetterà loro di realizzare esperimenti di socialismo, politico ed economico, che presenterebbero innumerevoli difficoltà nell’Europa occidentale”. 

Questo è ciò che intendeva John Mill nel suo libro del 1876 quando scrisse:

“se un esercito dell’Imperatore [di Russia] dovesse mai cadere in un’altra Sedan al di là del Danubio, una Comune sarebbe molto presto dichiarata a Mosca”. (11)

L’aspettativa nei circoli occulti e politici britannici era che il comunismo sarebbe presto arrivato in Russia e che l’Occidente lo avrebbe realizzato. Grazie alla sua amicizia con Friedrich Eckstein, un teosofo attivo a livello internazionale che aveva il polso di ciò che accadeva nei circoli esoterici londinesi negli anni Novanta del XIX secolo, Steiner era molto consapevole di questa agenda a cui Mill aveva accennato e Harrison aveva affermato chiaramente.

Steiner riteneva che se le persone non si svegliano dalle menzogne e dagli inganni con cui le forze dell’élite dell’Occidente devono operare, le conseguenze saranno terribili sofferenze e violenze fino a quando le azioni di queste élite non saranno superate attraverso impulsi che derivano dalle culture germaniche e slave.(12)

Il 22 dicembre 1900, nella rivista americana The Outlook, si diceva ai lettori che

“il vero statista guarda al futuro. È chiaro a chi guarda al futuro che, come la questione del passato era tra la civiltà anglosassone e quella latina, così la questione del futuro è tra la civiltà anglosassone e quella slava. […] Il saggio statista farà tutto il possibile, stabilendo relazioni cordiali tra tutte le razze affini, per la vittoria finale della civiltà anglosassone”(13)

Oggi in Ucraina, in un’altra guerra per procura, stiamo assistendo a questa lotta tra l’Anglosfera e i suoi Stati sudditi da una parte e la Russia (e forse anche la Cina) dall’altra.

Il prossimo articolo di questa serie prenderà in considerazione l’antagonismo anglo-russo dal 1900 a oggi.

Note

1 Markus Osterrieder, Welt im Umbruch (2014) p. 927.

2 G. Mettan, Creare la russofobia, p. 191.

3 “Clive, Robert Clive, Barone, Enciclopedia Britannica. Vol. 6 (11a ed.). Cambridge University Press. pp. 532-536.

4 Rudolf Steiner, Conferenza del 20.2.1920, Dornach in Idee per una nuova Europa (Rudolf Steiner Press) 1992, pp 57-58.

5 https://en.wikipedia.org/wiki/Moscow,_third_Rome

6 Per una visione illuminante del carattere di de Maistre, si veda la conferenza di Rudolf Steiner del 1° maggio 1921 in Materialismo e compito dell’antroposofia (RSP, 1987).

7 John Mill, The Ottomans in Europe or Turkey in the Present Crisis, with the Secret Societies’ Maps (1876). Il testo completo è disponibile su archive.org

8 Z. Brzezinski, La grande scacchiera (1997), cfr. i capitoli 4 e 5. 4 e 5.

9 Rudolf Steiner ha discusso a lungo di questi gruppi nelle sue conferenze del 9,10,11 dicembre 1916, in Il karma della non veracità, Vol. 1 (RSP) 2005.

10 In Nicholas Mansergh, The Commonwealth Experience (1969), p. 256.

11 Riferimento alla battaglia di Sedan, una grande sconfitta francese nella guerra franco-prussiana del 1870.

12 Per la citazione completa di Steiner, si veda il mio articolo “La Rivalità Anglo-Russa Parte I”

13 Markus Osterrieder, Welt im Umbruch (2014) p. 928.

Terry M. Boardman

Tradotto dall’inglese da Piero Cammerinesi per LiberoPensare

Fonte

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