Io, Kissinger e le Menzogne del Maestro

WASHINGTON - JULY 29:  Former U.S. Secretary of State Henry Kissinger arrives at the Woodrow Wilson Center's inauguration of the Kissinger Institute on China and the U.S. July 29, 2008 in Washington, DC. Kissinger was honored with the dedication due to his accomplishments in U.S.-China foreign relations.  (Photo by Win McNamee/Getty Images)
di Seymour Hersh

‘Off off the record’ con l’uomo che ha registrato di nascosto le nostre telefonate

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Ho intervistato non meno di mille funzionari, tra cui molti che avevano lavorato per Henry, come era noto a tutti, e il libro di 698 pagine è stato pubblicato nel 1983. Fu un successo in termini di vendite e pubblicità e portò a un anno di discorsi nei college e nelle università di tutta l’America. Ma il libro non servì a diminuire l’intensa relazione d’amore della stampa tradizionale con tutto ciò che riguardava Henry.

I necrologi che hanno seguito la sua morte, la scorsa settimana, sono stati altrettanto accondiscendenti di quelli che lo hanno visto mentire e manipolare nella sua strada verso la fama quando era in carica. La realtà è che il suo ruolo nel distogliere la Russia e la Cina dal sostegno al Vietnam del Nord all’apice di quella terribile guerra è stato spesso sopravvalutato. È stato un facilitatore delle realtà diplomatiche inizialmente promulgate dal presidente Richard Nixon, la cui goffaggine pubblica mascherava una sagace intuizione della volontà delle grandi potenze di tradire anche gli alleati più stretti. (Dimenticatevi il mio libro se volete avere una visione più profonda della più letale delle trame di Nixon e Kissinger: nel 2013, Gary Bass, professore a Princeton ed ex reporter dell’Economist, ha pubblicato The Blood Telegram, un resoconto mirato dell’omicidio di massa che Nixon e Kissinger resero inevitabile nel 1971 in quello che allora era conosciuto come Pakistan orientale, con solo un minimo riconoscimento da parte dei media internazionali).

Henry Kissinger, allora consigliere per la sicurezza nazionale, nella Situation Room nel seminterrato dell’Ala Ovest della Casa Bianca nel 1969. / Foto di Wally McNamee/Corbis via Getty Images.
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Il mio ballo con Kissinger iniziò solo all’inizio del 1972, quando mi fu chiesto da Abe Rosenthal, il direttore esecutivo del Times, di unirmi allo staff del giornale a Washington e di scrivere quello che volevo come reporter investigativo sulla guerra del Vietnam, con la condizione che dovevo essere dannatamente sicuro di avere ragione. A quel punto avevo vinto molti premi, tra cui il Pulitzer, per il mio reportage sul massacro di My Lai in Vietnam e avevo pubblicato due libri, abbastanza da farmi ottenere un lavoro nel posto migliore al mondo per uno scrittore: come reporter del New Yorker. Ma l’offerta di Rosenthal e il mio odio per la guerra mi portarono a lasciare la rivista per la fretta quotidiana di un giornale.

Quando arrivai all’ufficio di Washington nella primavera del 1972, la mia scrivania era proprio di fronte a quella del principale giornalista di politica estera del giornale, un giornalista esperto che era un maestro nello scrivere storie coerenti per la prima pagina entro la scadenza. Imparai che verso le 17, nei giorni in cui c’erano storie da scrivere sulla guerra o sul disarmo – il campo d’azione di Kissinger – la segretaria del capo ufficio diceva al mio collega che “Henry” era al telefono con il capo ufficio e che lo avrebbe chiamato presto. Di sicuro, la telefonata arrivava e il mio collega prendeva freneticamente appunti e poi produceva un pezzo coerente che rifletteva ciò che gli era stato detto che sarebbe stato invariabilmente la notizia principale del giornale del mattino successivo. Dopo una o due settimane di osservazione, chiesi al giornalista se avesse mai verificato ciò che Kissinger gli aveva detto – le storie che risultarono non citavano mai Kissinger per nome, ma citavano alti funzionari dell’amministrazione Nixon – chiamando e confabulando con William Rogers, il segretario di Stato, o Melvin Laird, il segretario alla Difesa.

“Certo che no”, mi ha detto il mio collega. “Se lo facessi, Henry non tratterebbe più con noi”.

Vi prego di credermi: non me lo sto inventando.

Kissinger, che non aveva fatto alcun commento pubblico sui miei scritti sul massacro di My Lai e sul suo insabbiamento, mi invitò improvvisamente alla Casa Bianca per una chiacchierata privata. Ero appena tornato da un viaggio di reportage nel Vietnam del Nord per il Times – ero il secondo reporter americano mainstream in sei anni ad aver ottenuto un visto da Hanoi – e dovevamo discuterne. Avevo scritto dell’opinione del Vietnam del Nord sui colloqui di pace segreti che Kissinger stava conducendo con i vietnamiti a Parigi, ma non era questo il punto. Voleva, così ho concluso, accarezzarmi. Non c’è dubbio che, in quanto mina vagante improvvisamente installata al Times, io fossi di particolare interesse.

Mi chiese le mie impressioni sui nordvietnamiti, viste in una visita di tre settimane ad Hanoi e altrove nel Nord. Sono stato portato in aree sottoposte a pesanti bombardamenti americani e sono stato testimone dell’incredibile capacità del Nord di riparare le linee ferroviarie bombardate entro poche ore da un attacco. Rotaie supplementari e le attrezzature necessarie per le riparazioni erano nascoste ogni centinaio di metri lungo i binari da Hanoi al porto principale di Haiphong.

Mi chiese quale fosse il morale degli abitanti di Hanoi. Gli risposi che non avevo visto segni di panico, paura o disperazione nelle mie numerose e incustodite (così credevo) passeggiate per la città. Ogni mattina, infatti, un gruppo di scolari che mi aveva visto al mio arrivo passava davanti al mio hotel nel centro di Hanoi alla stessa ora – io facevo in modo di essere fuori a quell’ora – e mi diceva allegramente “Buongiorno, signore!” in inglese. Ma ero sempre consapevole di essere in territorio nemico.

Gli scolari e altri aneddoti spinsero Kissinger a convocare un ex ambasciatore di spicco, che era il suo aiutante più anziano per le questioni relative alla guerra, e a dirgli, di fronte a me, con evidente finta rabbia:

“Questo tizio mi sta dando più informazioni sul morale del Nord di quante ne riceva dalla CIA”.

Ricordo di aver pensato:

“È tutto qui? È tutto qui? Pensa davvero che questo genere di evidente adulazione mi conquisterà?”.

Negli anni successivi Kissinger continuò a rispondere alle mie telefonate, con la clausola che tutte le nostre conversazioni dovevano essere, come disse una volta, “off off the records” [non registrate, riservate, NdT]. Non mi era permesso citarlo per nome e anni dopo ho appreso che ero l’unico a rispettare le regole nelle nostre telefonate. Un accademico che stava conducendo una ricerca su Kissinger mi disse che le mie presunte conversazioni private con lui venivano trascritte nel giro di poche ore – ne aveva ottenuto delle copie attraverso la legge sulla libertà di informazione – e rese disponibili a Kissinger o al suo aiutante di lunga data, il generale dell’esercito Alexander Haig.

Rosenthal mi tolse l’incarico di occuparmi del Vietnam alla fine del 1972, nonostante le mie accese obiezioni, quando scoppiò lo scandalo del Watergate e il Times fu martoriato dai servizi di Bob Woodward e Carl Bernstein del Washington Post. Ancora una volta mi ritrovai a fare un servizio su Kissinger, la cui disponibilità a fare qualsiasi cosa per rimanere nelle grazie di Nixon non conosceva limiti.

Nella primavera del 1973, un alto funzionario dell’FBI, presto in pensione, che condivideva chiaramente la mia evidente avversione per Kissinger, mi invitò a pranzo in un locale vicino alla sede dell’FBI che era un luogo di ritrovo per gli alti dirigenti del Bureau. Era un invito davvero sorprendente, ma quelli erano giorni in cui non c’erano che momenti del genere mentre l’amministrazione Nixon si disfaceva, e così andai. Facemmo una piacevole chiacchierata sui capricci di Washington e, alla fine del pranzo, mi chiese di fermarmi un momento o due prima di lasciare il ristorante: Avrei trovato un pacchetto sulla sua sedia.

Conteneva sedici autorizzazioni alle intercettazioni altamente riservate dell’FBI, tutte firmate da Kissinger tranne due. Le intercettazioni riguardavano alcuni giornalisti, una decina di membri dello staff di Kissinger per la sicurezza nazionale e gli assistenti anziani del Segretario di Stato e del Segretario della Difesa. I documenti specificavano che le intercettazioni dovevano essere installate sui telefoni di casa degli obiettivi e includevano i nomi dei tecnici dell’FBI che avrebbero installato le intercettazioni.

Mi ci sono voluti uno o due giorni per rintracciare alcuni degli installatori e confermare che i documenti erano reali. Sapevo di doverlo fare prima di dire ai redattori senior delTimes quello che avevo. Con Nixon alle corde, Kissinger era l’uomo di riferimento per tutte le questioni di politica estera, compresa la crisi che stava emergendo in Medio Oriente.

Per prima cosa è stata fatta una telefonata a Kissinger. La risposta immediata è stata una totale negazione e la rabbia di essere accusato di tali tattiche da stato di polizia. Poi arrivò una seconda telefonata, non inaspettata, in cui si diceva che non ne poteva più di essere costantemente denigrato dalla stampa e che si sarebbe dimesso. Mezz’ora dopo James Reston, noto a tutti come Scotty, il magnifico editorialista del Times che era vicino a Kissinger, pur essendo consapevole dei suoi difetti, si avvicinò alla mia scrivania con le scarpe a forma di pantofola che a volte indossava in ufficio e mi chiese se mi rendevo conto che Henry era seriamente intenzionato a dimettersi.

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Era impossibile non apprezzare Scotty, ma evidentemente non era sicuro che il mio tipo di reportage appartenesse al Times. Essendo ebreo, l’inverno precedente mi ero offerto volontario per fare il doppio turno negli uffici di Washington la vigilia di Natale, il che di solito significava che dovevo scrivere solo un articolo sul meteo o qualcosa di altrettanto banale. Solo io, un buon libro e un telescriventista dalla mattina alla sera tardi. A un certo punto Scotty, vestito in cravatta nera, con la moglie e un importante diplomatico di Washington e sua moglie al seguito, piombò in redazione. Credo che i negozi di liquori della città fossero chiusi e Scotty, che era chiaramente un po’ brillo, era lì per recuperare una o due bottiglie dal suo ufficio. Reston mi lanciò un’occhiata molto fredda e disse – e ancora rido nel ricordarlo –

“Ehi Hersh, non hai intenzione di ottenere quell’intervista esclusiva con Gesù per la seconda edizione?”.

Forse bisognava essere lì per apprezzare la storia, ma Scotty era una persona vera. Si trovava dov’era, come il più rispettato editorialista del Times, perché i presidenti e i loro tirapiedi sapevano che si poteva contare su di lui per trasmettere il loro punto di vista in caso di crisi. E io scrivevo storie, soprattutto sul possibile legame di Kissinger con le malefatte di Nixon, che Scotty non riteneva necessario pubblicare.

Borbottai qualcosa a Scotty, dicendo che il fatto che Kissinger si dimettesse o meno non era affar mio, e continuai a consegnare la storia a New York. La scadenza per la prima pagina era intorno alle 19.00 e quasi a quell’ora Al Haig mi telefonò. “Seymour”, disse, attirando la mia attenzione – chi mi conosceva, compreso Al, mi chiamava Sy – e pronunciò le seguenti parole, che non dimenticherò mai:

“Credi che Henry Kissinger, un rifugiato ebreo dalla Germania che ha perso tredici membri della sua famiglia a causa dei nazisti, possa mettere in atto tattiche da Stato di polizia come le intercettazioni dei suoi stessi collaboratori? Se c’è qualche dubbio, dovete a voi stessi, alle vostre convinzioni e alla vostra nazione di darci un giorno per dimostrare che la vostra storia è sbagliata”.

Naturalmente, capii che Kissinger aveva pregato Haig di fare quella sciocca scelta, ma l’aveva fatta. La storia finì in prima pagina la mattina dopo e Kissinger sopravvisse, come ero sicuro che avrebbe fatto. Avrebbe dovuto essere sorpreso con un coltello in mano, il sangue che colava e il corpo che si contorceva ancora, per subire le conseguenze delle sue azioni.

Ma ha danneggiato le carriere di alcuni che hanno fatto il lavoro sporco per lui all’interno della burocrazia, come ho appreso pochi mesi dopo essere entrato al Times. C’era uno scandalo che coinvolgeva un generale a quattro stelle dell’Aeronautica di nome John Lavelle, che era stato pubblicamente licenziato e degradato dopo aver riconosciuto di aver autorizzato segretamente i suoi equipaggi dell’Aeronautica in Thailandia a condurre missioni di bombardamento su obiettivi non autorizzati nel Vietnam del Nord. La disgrazia di Lavelle era diventata pubblica, cosa insolita, e lui non si trovava da nessuna parte.

In un momento iniziale del mistero Lavelle, fui chiamato da Otis Pike, un democratico di New York che faceva parte della Commissione per i Servizi Armati della Camera. Pike era stato un pilota di bombardieri del Corpo dei Marines nel Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale e mi esortò ad approfondire la storia. Mi disse che non poteva dire tutto quello che sapeva, ma che dovevo trovare Lavelle e farlo parlare.

Durante gli anni di copertura del Pentagono per l’Associated Press, a metà degli anni Sessanta, avevo imparato il valore degli elenchi telefonici del Pentagono. Sapevo anche che Lavelle, che era stato assegnato al Pentagono anni prima come generale a due o tre stelle, aveva senza dubbio uno o due capitani dell’Aeronautica molto brillanti come suoi assistenti personali. È probabile che uno dei suoi validi assistenti sia tornato al Pentagono come maggiore o tenente colonnello.

Di sicuro ne trovai uno che viveva in un sobborgo. Lo chiamai a casa quella sera e mi assicurai di dirgli chi ero e cosa volevo: scoprire dove viveva Lavelle e cosa diavolo stava succedendo. Mi diede le informazioni di cui avevo bisogno. Rintracciai Lavelle il giorno dopo, giocando a golf con i suoi due figli in un campo nelle campagne del Maryland. Ho sempre amato il golf e ho tirato qualche colpo con lui e i ragazzi: i giornalisti fanno di tutto per far parlare qualcuno. Lavelle, che non sapeva nulla di me a parte il fatto che sapevo usare un ferro da cinque, disse ai suoi ragazzi di aspettare in macchina e mi accompagnò al bar della clubhouse.

Ricordo che faceva molto caldo e che entrambi avevamo bottiglie fredde di Miller High Life. Ne bevvi un sorso e chiesi a Lavelle di dirmi cosa diavolo fosse successo. Era freddo, come lo sono i piloti di caccia, e mi disse che per circa sei mesi aveva effettivamente autorizzato bombardamenti all’interno del Nord che erano off limits. Aveva protetto i suoi vice, disse, non dicendo loro che non aveva un’autorizzazione specifica da Washington per farlo.

Ricordo bene lo scambio successivo. Dissi:

“Andiamo generale, se avesse fatto quello che ha detto, sappiamo entrambi che sarebbe stato deferito alla corte marziale”.

Lavelle mi guardò con freddezza e disse:

“Mi dica quando è stata l’ultima volta che un generale o un ammiraglio a quattro stelle dell’Aeronautica Militare è stato messo davanti alla corte marziale?”.

Non conoscevo la risposta.

A quel punto, l’uomo cominciò a piacermi davvero. Percepivo, anzi lo sapevo, che gli erano stati dati ordini di backchannel per effettuare il bombardamento illegale e che quegli ordini dovevano provenire da Kissinger e Nixon. Glielo dissi e lui non disse nulla.

Dissi al generale che avrei riportato la sua spiegazione, ma che avrebbe suggerito che si era preso la colpa per la Casa Bianca perché il presidente e il suo consigliere per la sicurezza nazionale volevano espandere la guerra contro il Nord senza farlo ufficialmente.

E così ho fatto. Continuai a scrivere del pasticcio di Lavelle sul Times per settimane. Alla fine ci furono delle udienze organizzate dal senatore John Stennis, il democratico conservatore del Mississippi che era presidente della Commissione per i Servizi Armati del Senato. Stennis era un falco sulla guerra del Vietnam e un bigotto quando si trattava di afroamericani, ma sospettava che dietro la disgrazia di Lavelle ci fosse Kissinger ed era favorevole a che io facessi quello che potevo. Continuammo a parlare – potevo raggiungerlo quando volevo attraverso una linea telefonica privata nel suo ufficio – fino a quando Nixon non lasciò il suo incarico. Eravamo un’altra strana coppia.

Scrissi una serie di storie su Lavelle piene di insinuazioni sul fatto che il generale avesse fatto ciò che aveva fatto per Kissinger e Nixon, ma che avesse scelto di onorare il suo impegno con gli uomini della Casa Bianca. Un decennio dopo, quando i nastri della Casa Bianca di Nixon e Kissinger divennero pubblici – Lavelle morì nel 1979 – ci furono alcune chiacchierate tra Nixon e Kissinger sulla situazione di Lavelle mentre i miei primi articoli su di lui venivano pubblicati sul Times.

A suo merito, Nixon si sentì in colpa per l’incitamento del generale, come ho notato in un libro di memorie che ho scritto qualche anno fa. “Non voglio che sia fatto passare per un capro espiatorio”, disse a Kissinger. Pochi giorni dopo, quando i giornali parlarono di possibili udienze del Senato sul licenziamento di Lavelle, Nixon disse di nuovo a Kissinger:

“Non mi sembra giusto spingerlo a fare questa cosa e poi fargli prendere tutta la responsabilità”.

Kissinger lo esortò a restarne fuori. Nixon accettò di farlo, ma disse ancora una volta, quasi con tono di supplica:

“Non voglio fare del male a un uomo innocente”.

Era come se il Presidente credesse, o scegliesse di credere, di non avere il potere di intervenire. In quel momento di ambiguità, egli era nelle mani di Kissinger.

Tradotto dall’inglese da Piero Cammerinesi per LiberoPensare

Fonte


Seymour Myron “Sy” Hersh è un giornalista e scrittore statunitense. L’inchiesta che l’ha reso famoso è stata quella con cui svelò la strage di My Lai perpetrata durante la guerra del Vietnam; per essa ricevette il premio Pulitzer nel 1970.
Divenuto, in seguito all’inchiesta su quel fatto, uno dei giornalisti più noti degli Stati Uniti, negli anni successivi è stato autore di numerosi articoli e volumi sui retroscena dell’establishment politico-militare statunitense.
È stato reporter per The New Yorker e Associated Press, per il quale si occupa di temi geopolitici, di sicurezza e militari, in particolare riguardo l’operato dei servizi segreti e di intelligence.

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