Le esplorazioni italiane in Tibet prima di Giuseppe Tucci
L’epoca dei contatti tra Oriente e Occidente inizia al tempo di Alessandro Magno, la cui spedizione aprì la strada dell’India. Dall’epoca del Macedone, dopo il tramonto della potenza Seleucide, seguirono diaspore elleniche fino oltre le rive dell’Indo, in cui il greco era adoperato come lingua franca, e lungo le strade carovaniere fiorirono contatti commerciali e culturali. Si potè assistere ad un avvicinamento tra il mondo ellenico e quello orientale e, oltre a fiorenti scambi commerciali, nacquero da questa occasione nuovi ideali di pensiero e arte.
L’Impero Romano fu l’erede naturale di quella politica di espansione inaugurata dal Macedone: sudditi romani delle province orientali e in particolare Egitto e Siria, mossi da ragioni mercantili e da curiosità di viaggio, portavano in quelle terre remote oltre ai commerci anche notizie del mondo occidentale e della cultura classica. L’imperatore Augusto mirava ad assicurare le vie commerciali dell’Oriente in Asia, mentre in Asia erano sorti a potenza due imperi: quello dei Kushan nell’India Nord-Occidentale e quello dei Han in Cina. Gli Han, dopo la sconfitta degli Unni, dettero vita ad una serie di missioni politiche e successivamente spedizioni militari verso l’Occidente, sia per desiderio di conoscenza che per affermare il loro dominio sui paesi centroasiatici, fino alle porte del mondo iranico. Un messo di Pan chao arrivò ad Antiochia e portò in Cina le prime notizie del mondo romano; Roma e Cina si sarebbero probabilmente incontrate se la Parthia non si fosse opposta, per ostilità e gelosia della sua indipendenza e dei suoi traffici.
Le vie di terra partendo da Antiochia passavano per Zeugma e Palmira, proseguivano per Ecbatana, Ecatompylos, Alexandria Kapica e di qui si diramavano l’una verso nord fino a raggiungere la strada della seta che sfociava a Tun-Huang, l’altra verso sud per Peshawar e l’India. Roma era senza dubbio al corrente di queste strade, attraverso le quali arrivavano le sete e le altre meraviglie dell’Oriente, così come le conosceva la Cina, che a poca distanza di tempo inseriva nei suoi annali dinastici gli itinerari e i racconti di viaggio dei suoi ambasciatori e generali, i quali, mandati ad estendere i possedimenti e la gloria del Celeste impero in Asia Centrale entrarono occasionalmente in contatto con l’Oriente mediterraneo da essi chiamato Ta Ts’ing. Nell’impero che i Kushan, scesi dopo lunghi viaggi attraverso l’Asia Centrale, fondarono in India, sboccavano dunque e confluivano le carovane che univano Estremo Occidente e Estremo Oriente, India ed Asia Centrale, e prosperavano i traffici.
L’aura di mistero da cui l’Asia era circondata, una volta inaugurata tra il mondo mediterraneo e l’India una catena di scambi regolari, sembrava vinta; ma quegli arditi navigatori erano spinti da nuove curiosità verso orizzonti ancora più distanti. Quei mercanti erano venuti in contatto in India con navi cinesi o che della Cina portavano notizie, per cui si proposero di fare un balzo in avanti, proseguendo verso gli empori dei Seres, tentando le vie del mare per spostare il commercio della seta dalle carovaniere che erano rese pericolose dalle insidie della Parthia e dal ribollire dei popoli sui piani dell’Asia. Essi infatti sapevano che la seta non era prodotta in India, ma veniva da un paese più remoto: dalla terra dei Seres, che era oltre le strade di cui Maes Titianus [1] e con lui altri viaggiatori avevano lasciato gli itinerari. Veramente, quando essi chiamavano Seres i popoli produttori della seta, erravano: sin da tempi antichissimi erano state definite Seres, con parola iranica, dalle merci in cui trafficavano certe tribù centro-asiatiche che convogliavano l’oro dalla Siberia verso la Persia e l’India. Nel momento in cui le vicende storiche dell’Asia Centrale e le rivoluzioni di popoli che vi orbitavano intorno al secondo secolo a.C. posero fine a quel traffico, il nome di Seres restò alle genti che importavano la seta, merce della quale il mondo mediterraneo cominciava allora a fare grande domanda. In India il paese di produzione della seta si chiamava in un’altra maniera: dal nome della dinastia Ts’ing, sotto la quale era per la prima volta giunta in India notizia di quel popolo, fu detto “Cina”, con una parola sopravvissuta alle vicende dei tempo e per la prima volta usata in Europa dall’autore del Periplo del Mare Eritreo sulla fine del I secolo d.C. Mercanti dell’occidente arrivarono nel Celeste Impero attraverso le vie di mare.
Seres era dunque il nome che il mondo antico attribuì a certe tribù dedite al commercio dell’oro, facendo da tramite tra l’India e la Persia e il paese di produzione, forse la Mongolia. Il termine Seres, che ha costituito lunga materia di studio per i filologi, non è altro che un adattamento della parola iranica zaray che significa appunto oro [2]; essa non ha dunque niente a che vedere con la seta, con il cui commercio, cambiato l’orizzonte politico ed economico dell’Asia Centrale, i Seres furono poi connessi nella tradizione classica. In effetti in Occidente l’Asia Centrale fu conosciuta, fin dagli albori della storiografia, come il paese dell’oro, ed è con questo nome che si ebbe forse in Europa la prima notizia del Tibet occidentale: lo storico Erodoto vi allude quando descrive una terra dove formiche gigantesche, scavando la tana, accumulano mucchi di polvere preziosa che la gente raccoglie ed esporta. Erodoto situa questa leggenda a nord della Paktyke (Gandhara) e dopo di lui Megastene presso i Dardi, quindi forse nell’alta valle dell’Indo, lungo la quale vi sono testimonianze di miniere d’oro sfruttate fino a tempi relativamente recenti, lo stesso Tucci testimonia di averne visto tracce sulla strada di Leh (Tucci, 1949). Più ad oriente, nei pressi del lago Manasarovar e la montagna sacra del Kailâsa (o Kailash), sorgono numerosi pozzi auriferi, che Tucci descrive come
«non più larghi di 60-70 centimetri, uno vicino all’altro con la terra ammucchiata intorno alla bocca, la prima impressione che fanno è proprio quella di grandi formicai» (Tucci, 1949, p. 192).
Forse proprio così nasceva la leggenda che, portata dalle carovane, giungeva lentamente in Occidente. Tuttavia solo con la grande dinastia dei T’ang ci giungono le prime notizie precise sul Tibet, nello stesso periodo si assiste ad una progressiva “civilizzazione” del Tibet.
Nel VI secolo d.C. tramite una serie di campagne militari vittoriose il potente capo Sronzengampo procede all’unificazione del paese ed estende il suo dominio su diverse contrade dell’Asia Centrale, sconfiggendo i Cinesi e stringendo alleanze di matrimonio con la Cina e il Nepal. Egli accettò il Buddhismo e adottò un sistema di scrittura modellato su quello dell’India, introducendo nel suo paese i primi elementi di cultura sia profani che religiosi.
La prima luce della civiltà nel Tibet sorgeva dunque durante il suo regno, quando la cultura tibetana, influenzata sia dall’India che dalla Cina, a poco a poco si evolveva, lasciandosi alle spalle la sua prima fase di arretratezza, mentre maturava anche il profondo senso religioso che così tanta importanza avrà presso l’uomo tibetano. Religiosi provenienti dall’India varcavano i confini del Paese delle Nevi facendo rifiorire il Buddhismo che stava subendo una fase di declino in India. Emergono figure di santi e asceti e cominciano a fiorire in Tibet le prime scuole religiose. Dall’India proviene un messaggio religioso che porterà anche all’immenso sviluppo artistico e figurativo in Tibet, paese in cui l’arte avrà un significato quasi esclusivamente mistico e religioso e che, seppur manterrà caratteri costanti mutuati dall’India, subirà anche l’influenza cinese per quanto riguardo le arti figurative.
Le prime notizie sul Tibet (chiamato Tubbat dagli scrittori arabi) giunsero in Occidente in seguito al viaggio di Giovanni da Pian del Carpine, che anche se riferisce notizie sul Paese delle Nevi non vi si recò mai. Era un francescano, nato intorno al 1182 a Magione, inviato da Papa Innocenzo IV in Asia Centrale e Mongolia per sondare le possibilità di un’alleanza con il Gran Khan in appoggio ad un’eventuale guerra contro i Turchi, al fine di liberare la Terra santa. Egli fu il primo europeo ad aver avuto accesso alla corte del Gran Khan dei mongoli. Al ritorno dalla sua missione scrisse l’ Historia mongalorum in cui descrisse le usanze di quel popolo; divenne poi vescovo di Antivari, dove morì nel 1252. Le informazioni che Giovanni fornisce sul Tibet (da lui appellato Burutabet) riguardano le particolari usanze funerarie:
«…alla morte del padre tutta la famiglia si riunisce, come ci si raccontava lo mangiavano» e su caratteristiche estetiche: «…essi non hanno peli sul viso e portano in mano un ferro con il quale, come noi stessi vedemmo, si strapparono di continuo i peli che per caso possano crescere. Hanno aspetto assai deforme.» (Amato, 2006, p. 83).
Marco Polo, che come Giovanni non visitò il Tibet, raccoglie nel Milione notizie frammentarie piuttosto curiose:
«non trova né alberghi né vivande…Egli è vero che niuno uomo piglierebbe neuna pulcella per moglie per tutto il mondo, e dicono che non vagliono nulla s’ella no è costumata co molti uomini…Egli sono molti grandi ladroni… E ànno li più savi incantatori e astorlogi che siano in quello paese, ch’egli fanno tali cose per opere di diavoli…E ssono male costumati.» (Amato, 2006, p.83)
A queste vanno aggiunte notizie riferite da Odorico da Pordenone (Villanova di Pordenone, 1265 – Udine, 1331), religioso italiano dell’Ordine dei Frati Minori, il cui viaggio lo portò ad attraversare l’Asia passando per lo Shansi, lo Shensi, il Sse chuan e secondo alcuni il Tibet e Lhasa. Se la notizia fosse vera Odorico sarebbe stato il primo europeo a visitare il Tibet, e a raggiungere Lhasa la città dei Lama. Tucci afferma tuttavia che la descrizione che Oderico fa di Lhasa non concorda con l’aspetto reale della città e vi sono diverse incongruenze nel suo racconto. Per Tucci Odorico non entrò mai nel Tibet vero e proprio, ma ne raccolse notizie presso i Mongoli della frontiera; dalla parte della Cina e dell’Asia Centrale il Tibet era dunque rimasto inaccessibile (Tucci, 1949).
Circa due secoli dopo i discendenti di Gengis Khan puntavano dall’Afghanistan verso le fertili pianure dell’India dove, sotto i primi Moghul, nelle province meridionali vivevano comunità siriache cristiane, che facevano risalire la propria conversione all’età apostolica e a S. Tommaso. Nei missionari vi era il desiderio di varcare la catena Himalayana per rintracciare in quelle zone inaccessibili le ultime propaggini di una remota evangelizzazione. Essi chiamavano il paese a nord dell’Himalaya Catai, termine che designava genericamente l’Asia Centrale.
Nel 1654 a Leida si incontrarono il gesuita Martino Martini, da poco tornato dalla Cina, e l’erudito olandese Jacobus Golius, che stava pubblicando le tavole di Nasir al Din nelle quali erano contenuti i nomi degli anni ciclici in lingua cataj e Golius volle incontrare Martini che ritornava dal Celeste impero carico di nuove conoscenze e libri, accertando il fatto che quei termini erano la trascrizione persiana di nomi cinesi. Si stava sviluppando in quel periodo la filologia: l’identificazione del Catai, che aveva costituito materia di studio e mistero insolubile per i geografi dell’Occidente, dopo che le conquiste dei Portoghesi e lo zelo apostolico dei missionari aprirono le strade dell’Asia più inaccessibile , venne dunque fuori di ogni dubbio documentata: il Catai descritto da Marco Polo si trovava a corrispondere con la Cina dei Ming.
Tuttavia quella identificazione provata tardivamente dalla filologia era già stata intravista da Matteo Ricci (Macerata, 1552- Pechino 1610), che aveva viaggiato lungamente in Cina e aveva appreso la lingua e i costumi cinesi, e dimostrata poi da Bento de Góis ( Vila Franca Do Campo, 1562 – Suzhou, 1607). Questi, partito da Agra il 29 ottobre del 1602, travestito da mercante persiano, aveva attraversato l’Afghanistan, valicato il Pamir, percorso il Turchestan e, dopo quattro anni di viaggio avventuroso, pericoli e disagi, era giunto nel 1607 a Suzhou, dove era morto. Nonostante il suo diario sia stato distrutto dai musulmani suoi compagni di viaggio, Matteo Ricci riuscì a venire in possesso di alcuni frammenti.
In Pechino, in Ch’üan chou, in Hanchou, città che passo dopo passo venivano riscoperte dai missionari dopo il crollo della potenza mongola, si ritrovarono luoghi leggendari come la Cambalic descritta da Marco Polo, Zaitun e Quinzai. Rimaneva a quel punto la speranza di ritrovare le comunità nestoriane sopravvissute, anche sull’onda delle notizie portate dagli indù reduci dai pellegrinaggi sacri al lago Manasarovar e al Kailâsa, che riferivano della presenza di gruppi religiosi simili a quelli cristiani oltre alle cime himalayane.
Spinto da questi racconti il gesuita portoghese padre Antonio d’Andrade (Oleiros, 1580 – Goa, 1634) partì da Agra il 30 marzo 1624 con il fratello coadiutore Manoel Marques [3] e con due servi convertiti al cristianesimo, unendosi ad una carovana di Indù diretti verso le sorgenti del sacro Gange, alla pagoda Badrinath. Passando per Srinagar, capitale del Garhwal, dopo aver superato a circa 5.500 metri di altitudine il passo Mana (Mana-la o Dungri-la), giunse ai primi di agosto del 1624 nella capitale del Tibet occidentale, primo europeo a raggiungere il Tetto del Mondo valicando l’Himalaya. Fu ricevuto con cordialità dal governatore di Guge, e dopo 25 giorni ripartì con la promessa di tornare e si diresse nuovamente ad Agra per raccogliere altri missionari; agli inizi di Novembre rientrò ad Agra descrivendo il suo viaggio in una lettera dai toni epici (datata Agra, 4 novembre 1624). La lettera divenne un fortunato libretto dal titolo nuova scoperta del Gran Catai o dei regni del Tibet, tradotto dal portoghese in varie lingue.
Il secondo viaggio, in compagnia del padre Gonzales de Souza [4] e di due servi, iniziato da Agra il 17 giugno 1625, condusse de Andrade a Tsaparang, dopo dieci settimane, nell’agosto successivo. Già nel settembre de Souza ripartì, mentre Andrade, che nel frattempo aveva fondato una missione e iniziato la costruzione di una chiesa, fu raggiunto nell’aprile 1626 dai padri João de Oliveira [5], Francisco Godinho [6] (ripartito l’anno successivo) e Alano dos Anjos [7] accompagnati da Manoel Marques, il quale rientrò subito in India.
Nel periodo dell’arrivo dei missionari a Tsaparang, la situazione politica vedeva in corso lotte di potere che opponevano il re al fratello (lama principale di Guge) ed altri congiunti appartenenti all’ordine monastico, così de Andrade riuscì ad impiantare la missione, con il favore del sovrano, desideroso di contrastare le ingerenze delle autorità religiose nella sua conduzione del regno. Partito Godinho, nel 1627 tornò ancora Manoel Marques in compagnia del padre António Pereira [8] e nel 1629 arrivò António da Fonseca [9],
Andrade scrisse altre due relazioni, nel 1626 e nel 1627, nelle quali troviamo le prime descrizioni del Tibet e della sua religione, seppur colta nei suoi aspetti più esteriori e superficiali. Fu richiamato a Goa alla fine del 1629 per assumervi la carica superiore di quella grande provincia che comprendeva il territorio di buona parte dell’India, la Persia e le coste orientali dell’Africa, dove operavano circa trecento missionari. Resse quell’incarico dal 1630 al 1633, quando fu rimpiazzato da padre Álvaro Tavares (1575-1637), e assunse l’incarico di rettore del Collegio di San Paolo in Goa. Pur preso dai molti impegni, non dimenticò la missione del Tibet e nel 1631 inviò il padre Francisco de Azevedo [10] a Tsaparang, dopo l’invasione, da parte del Ladakh, del regno di Guge, invasione forse favorita, se non addirittura istigata, proprio dai lama ai quali il re si opponeva.
Dopo essere stato informato sugli ultimi accadimenti da Manoel Marques, appena giunto ad Agra per provvedere ai rifornimenti necessari alla missione, e guidato dall’ormai esperto frequentatore di quelle strade, de Azevedo partì da Agra il 28 giugno 1631 e il 25 agosto successivo, raggiunse Tsaparang. Un governatore nominato dal re del Ladakh reggeva la città: era tornato a Leh portandosi il vecchio re di Guge come prigioniero; d’Andrade trovò un clima di evidente ostilità verso la missione. Ciò spinse il visitatore ad una mossa ardita: andare direttamente a trattare con il re nella capitale del Ladakh. Il viaggio, fatto in compagnia di João de Oliveira, si svolse dal 4 al 25 ottobre 1631 e i due missionari, ottenuto il permesso per la prosecuzione della missione, lasciarono Leh, il 7 novembre 1631, per rientrare ad Agra, via Lahul e Kulu, il 3 gennaio 1632. Andrade fu anche accusatore in un processo dell’inquisizione e morì avvelenato, il 19 marzo 1634, mentre preparava la sua terza spedizione in Tibet.
Nel 1635, dopo la morte di de Andrade fu inviato da Goa, verso la missione costituita nell’ex regno di Guge, un gruppo di sette missionari, guidato dal padre spagnolo Nuño Coresma [11]: la spedizione fu sfortunata perché due padri morirono per strada, altri due (Balthasar Caldeira [12] e Pietro de Freytas [13]) e un laico (fratello Faustino Barreiros [14]) si ammalarono gravemente e furono costretti a fermarsi a Srinagar. Coresma arrivò nel luglio 1635 con il solo padre Ambrosio Corea [15], a Tsaparang, dove trovò una situazione insostenibile, per cui rimandò indietro quasi subito il suo compagno di viaggio, portatore di un messaggio con il quale chiedeva di chiudere la missione. Non ebbe nemmeno il tempo di ricevere la risposta poichè, all’inizio dell’autunno di quello stesso 1635, fu costretto ad abbandonare la missione, inoltrandosi sulla via del ritorno insieme a Manoel Marques, ultimo missionario rimasto nella missione fondata da de Andrade.
Fu comunque deciso di mantenere, in attesa di tempi migliori, una presenza a Srinagar nel Garhwal, dove, nell’autunno 1636, furono inviati i padri Pereira e dos Anjos; quest’ultimo morì in quello stesso anno e venne rimpiazzato dal padre italiano Stanislao Malpichi [16], appena arrivato nel gennaio 1637 ad Agra. Rispondendo, seppur riluttante, alla richiesta del generale della Compagnia, Muzio Vitelleschi (Roma 2.12.1563 – Roma 9.2.1645), il nuovo provinciale di Goa, Manoel d’Almeida (1580-1646), subentrato all’appena deceduto Álvaro Tavares (1575-1637), cercò un’ultima volta di riaprire la missione del Tibet inviando, nel 1640, tre missionari a Srinagar, guidati dal solito Marques. I tre rimasero in sede e il superiore di quella missione, Stanislao Malpichi, nell’estate 1640, partì in ricognizione con il veterano Marques. Appena entrati in Tibet, i due missionari furono arrestati; riuscirono a fuggire, ma Marques venne ripreso e Malpichi rientrò da solo a Srinagar. Manoel Marques risultava ancora prigioniero nel 1641, poi non se ne seppe più nulla.
Mentre si sviluppavano le missioni avviate da de Andrade nel Tibet occidentale, i gesuiti si prodigavano anche in altri tentativi verso il Tibet, con i padri portoghesi Estêvão Cacella (Aviz, Évora, Portogallo,1585 – Shigatse, Tibet, 6.3.1630) e João Cabral (Celorico da Beira, distretto di Guarda, Portogallo, 1599 – Goa 4.7.1669), primi europei in Bhutan (1627) e a Shigatse, in Tibet (1628-1629). Il racconto delle imprese in Tibet dei gesuiti è arricchito dall’attraversamento del paese da nord a sud compiuto, nel viaggio da Pechino (13 aprile 1661) ad Agra (marzo 1662), dai due astronomi Johannes Grueber [17] (Linz, Austria, 28.10.1623 – Sárospatak, Ungheria, 30.9.1680), austriaco, e Albert d’Orville (Bruxelles, Belgio, 12.8.1621 – Agra, India, 8.4.1662), belga. I due missionari furono i primi europei a Lhasa, dove rimasero due mesi, dall’8 settembre alla fine di novembre del 1661; successivamente giunsero nella valle di Kathmandu (gennaio 1662) e furono qui accolti gentilmente dal re di Patan.
Nel 1707 fra Domenico da Fano e fra Michelangelo da Borgogne riuscirono ad arrivare a Lhasa ma, scarsamente appoggiati dalle case madri della Cina e dell’India che si rimbalzavano le responsabilità della missione, privi di aiuto e di mezzi, dopo aver cercato tra molte difficoltà di continuare l’opera dei loro predecessori, furono costretti a ritornare in India.
Il 9 settembre 1712 partiva da Roma, con l’intenzione di continuare l’opera del d’Andrade, Ippolito Desideri: nato a Pistoia il 20 dicembre 1684, non ancora sedicenne, nel 1700, era entrato a Roma nella Compagnia di Gesù formandosi nel prestigioso Collegio Romano, dove, per le sue grandi doti intellettuali e il suo ardore appassionato teso alla salvezza del prossimo, venne scelto dal suo superiore, il preposto generale Michelangelo Tamburini, per la difficile missione nella allora lontana, misteriosa e quasi inaccessibile terra del Tibet, oggetto di tentativi infruttuosi da parte della stessa Compagnia nel secolo precedente.
Il fascino delle “Indie” era sicuramente ispirato dalle esperienze di Francesco Saverio, Alessandro Valignano, Matteo Ricci, Roberto de Nobili e dalle avventure narrate da Daniello Bartoli; il giovane Ippolito aveva comunque non trascurabili esempi anche fra i suoi concittadini, che comprendono il gesuita Giuliano Baldinotti (Pistoia 1591 – Macao 1631), matematico, primo missionario nel Tonchino (Vietnam), e Arcangelo Carradori, missionario francescano in Alto Egitto fra il 1630 e il 1638 e autore di un dizionario Italiano-Nubiano, il primo ad essere redatto per quanto concerne le lingue africane sub-sahariane.
Desideri, prima ancora di avere terminato gli studi, partì da Roma il 9 settembre 1712 e, dopo un viaggio avventuroso, per mare e per terra, giunse a Lhasa il 18 marzo 1716. Il viaggio avvenne da Goa, chiamata la “Roma dell’Oriente”, importante centro di irradiazione del cristianesimo nell’Asia meridionale ed orientale, a Delhi, Lahore, Srinagar in Kashmir con il difficoltoso superamento dei monti Pir Panjal, primi contrafforti della catena himalayana; poi, per gli impervi contrafforti del Karakorum solcati dalle acque dell’Indo e dei suoi affluenti, giunse a Leh, in Ladakh, e, infine, nella capitale del Tibet, dopo la perigliosa ed estenuante traversata delle gelide vastità dell’altopiano transhimalayano. La relazione di viaggio è arricchita da acute osservazioni antropologiche, geografiche, storiche, sociologiche e naturalistiche, rese sempre con impeccabile stile letterario e non prive di poesia e profondità descrittiva.
A Lhasa il missionario, ben accolto e sostenuto nei suoi studi, si meravigliò di questa apertura e del fatto che le idee da lui proposte fossero accolte con favore, anche se i Tibetani non ne accettavano l’unicità salvifica, rimanendo stabili nella convinzione ognuno sia libero di scegliere la strada a lui più affine per la salvazione.
Desideri, impadronitosi perfettamente della lingua tibetana, penetrò nelle più profonde concezioni del buddhismo, e le descrisse mirabilmente, discutendone i fondamenti in cinque libri scritti direttamente in tibetano. Tuttavia il 28 aprile, a causa di un’ingiunzione vaticana, fu costretto a lasciare Lhasa dopo cinque anni di permanenza nel Paese delle Nevi, e il suo lavoro fu forzatamente interrotto; la Congregazione de Propaganda Fide aveva affidato la missione del Tibet all’ordine rivale dei Cappuccini. Lasciato a malincuore il Tibet il 14 dicembre 1721 (si era trattenuto fino allora nella località confinaria di Kuti), Desideri rimase diversi anni in India, finché il 21 gennaio 1727 si imbarcò da Pondicherry per l’Europa, dove giunse, a Port-Louis nella bassa Bretagna, il 22 giugno 1727. Attraverso la Francia, e la navigazione Marsiglia-Genova, arrivò in Italia e, dopo una breve sosta a Pistoia, sua città natale, e a Firenze, rientrò il 23 gennaio 1728 a Roma quindici anni e quattro mesi dopo esservi partito per le missioni in Oriente.
Il rientro fu tuttavia poco fortunato per lui, in quanto il suo ordine era in disgrazia e la sua speranza di tornare in Tibet risultò definitivamente frustrata. Gli venne inoltre impedito di pubblicare la relazione già predisposta per la stampa e di trattare in qualsiasi modo degli argomenti della sua missione: morì il 13 aprile 1733 in solitudine, nella Casa professa della sua Compagnia a Roma.
La relazione della sua missione contiene una completa e approfondita descrizione di quasi tutti gli aspetti della vita e della cultura tibetana e specialmente della religione, sia nelle sue manifestazioni esteriori, sia nei suoi fondamenti dottrinali e filosofici. Tutti gli scritti di Desideri rimasero nascosti e dimenticati per secoli negli archivi, e dopo che furono scoperti attesero a lungo la pubblicazione e soprattutto una adeguata considerazione in relazione al loro valore. La vita e l’opera di Desideri sta oggi ricevendo una maggiore attenzione degli studiosi di vari ambiti disciplinari, per il suo interesse storico e per quanto ancora ha da insegnare oggi a tre secoli di distanza.
Giuseppe Tucci nota che
«l’arrivo del Desideri a Lhasa segna una data memorabile nella storia degli studi tibetani perché egli fu il primo a rivelare all’occidente il Tibet, non dico nei suoi caratteri etnografici o nei suoi confini geografici, quanto piuttosto nella sua profonda e intima realtà spirituale».
La sua opera,
«anche oggi, a due secoli di distanza, è per profondità e chiarezza una delle più sicure esposizioni delle credenze religiose del Tibet».
Altrove lo stesso Tucci apprezza Desideri
«per la sua larghezza di mente e per la simpatia con la quale avvicinò il popolo di cui era ospite e la sua cultura».
Per questo poté studiare con i monaci tibetani,
«si abituò al loro modo di ragionare e perciò riuscì a veder chiaro dove oggi molti non trovano altro che tenebra», e a compilare «quella Relazione del Tibet che per la sua profondità e diligenza resiste all’urto dei secoli e al perfezionarsi dell’indagine». Con la Relazione del Tibet e con le sue opere in lingua tibetana produsse un «mirabile incontro sul Tetto del Mondo di S. Tommaso e di Tsongkha-pa».[18]
Abbiamo visto come la missione tibetana passava ai Cappuccini, che già erano arrivati in Tibet nel 1707 e nel 1709: Domenico da Fano, Francesco Orazio da Pennabili, Cassiano Beligatti sono testimoni delle vicende politiche durante le quali il Tibet subisce la conquista cinese. [19] Le relazioni di questi missionari costituiscono le fonti storiche più precise su quel travagliato periodo della storia tibetana, in cui si assiste anche alla fortificazione dei monasteri e si vedono le sette religiose combattere l’una contro l’altra. Il contributo dei religiosi si rivela fondamentale per lo studio della filologia, come lo era stato il contributo del Desideri per la conoscenza della dottrina teologica: Beligatti pubblicava l’Alphabetum Tanguticum che servì di base all’Alphabetum Tibetanum del Georgi; mentre Francesco Orazio da Pennabili redigeva un dizionario tibetano e italiano, che acquistato nel Bengala dal Latter e volto successivamente in inglese venne pubblicato dallo Schröter col suo nome a Sarampore nel 1826.
Tuttavia l’opera missionaria in Tibet conobbe ben presto una fase di decadenza fino a spegnersi del tutto: non ultima ragione è costituita da comportamenti poco accorti dei missionari, che si discostarono dalle sagge vie seguite da Ippolito Desideri.
I Tibetani lo avevano rispettato ed erano stati tolleranti con lui perché Desideri non offendeva le loro credenze: lasciarono perciò che predicasse la sua religione, gli permisero di edificare una chiesa e a loro volta lo istruirono nella loro dottrina. Per i buddhisti ciascun uomo è libero di scegliere la propria via spirituale, sono tolleranti rispetto alle altre religioni, viste in genere come un altro cammino spirituale non necessariamente falso o sbagliato. I cappuccini invece sostenevano di essere i soli dalla parte del vero: consideravano falsa la dottrina dei Tibetani e giunsero al punto di bruciare alcune opere religiose. Altra ragione per il mancato successo delle missioni cristiane in Tibet fu forse lo scarso interesse dei Tibetani per la cultura europea. Per essi tutta la vita ricadeva sotto l’ombra della spiritualità e della religione, non avevano particolari interessi scientifici e culturali verso l’Occidente che permettessero all’opera missionaria di lasciare tracce durevoli, come invece accadde in Cina e in India.
Tucci racconta, nel suo libro Italia e Oriente, di non aver quasi trovato testimonianze del periodo missionario nel Paese delle Nevi: cita un’opera di geografia scritta da un grande Lama del Tibet orientale sulla fine del settecento e i primi dell’ottocento. Di seguito riporto le parole di Tucci:
« La fonte di questo trattato geografico è un testo italiano, sunteggiato direttamente senza passare per tramite di traduzioni in altre lingue, chè solo in un libro italiano quel monaco avrebbe potuto trovare nomi come questi: Mare Morto, Napoli e simili, o darci un cenno di Roma che, per essere stato scritto nei deserti del Tibet, non è da buttarsi via. Altre tracce non ho trovato, all’infuori di certi angioletti come le ali distese che stanno sulla tomba del terzo Lama di Tashilumpo e sono copia di modelli italiani. Me li trovo ancora davanti agli occhi come li vidi dopo tanto girare per gli oscuri e barocchi musei di Tashilumpo: tutt’oro e argento e pietre preziose, quasi per nascondere col fasto che la fede dei bei tempi antichi era sparita e intisichita. Quei cherubini li avevano forse visti sulle stampe sacre portate dai missionari, e poi, alla meno peggio, li avevano copiati su quel mausoleo, rompendo i paradigmi della tradizione. D’altri influssi che abbiano lasciato non saprei dire; se non forse in certe pitture le quali rappresentano la successione dei maestri della setta gialla: un albero vigoroso nasce da un fiore di loto – che è simbolo dell’energia cosmica –tocca coi suoi rami il cielo e si rinverdisce di foglie su ciascuna delle quali è dipinto un dottore della scuola. Non raffigurano così la discendenza spirituale dei santi alcuni nostri ordini monastici? Il simbolismo religioso s’era espresso nel Tibet in altra maniera: nelle pitture sacre che sono il più fastoso ornamento dei tempi, così vivaci di colore, quasi per vincere la tenebra che è intorno. Non si trova mai, prima del ‘700, questa rappresentazione dell’albero per indicare l’espandersi e propagarsi della dottrina. Piuttosto mettevano al centro la figura del maestro e all’in giro, come i pianeti intorno al sole, s’irradiavano i discepoli e i seguaci. Le scuole mistiche non immaginavano la trasmissione degli insegnamenti arcani, come la diramazione da un unico tronco; piuttosto come il folgorante trionfo d’una luce, nella quale tu non puoi misurare un’intensità maggiore o minore, ma sempre trovi un medesimo abbagliante folgoramento. Se ho visto giusto, questa è l’unica traccia che i nostri missionari abbiano lasciata sull’arte o, per essere più preciso, nel linguaggio artistico del Tibet; la tradizione che s’era formata alla scuola dell’india e della Cina era troppo forte per cedere d’un tratto a motivi stranieri. L’arte nel Tibet era una liturgia figurata; un simbolico diagramma delle forze che muovono il mondo e traggono il cosmo a nascimento da quella suprema coscienza che essi pongono come principio di tutte le cose. Persino gli dei, come aveva detto benissimo il Desideri, non hanno esistenza obbiettiva; quelli che tu trovi a migliaia nei templi e su queste pitture, sono il simbolo visibile di piani spirituali ultraterreni o di occulte potenze e coscienze crepuscolari che bruceranno e si scioglieranno nel fuoco della gnosi. Non si poteva cambiare una linea senza che tutto l’edificio crollasse. E perciò non sorprende che neppure sulla pittura si trovino tracce notevoli di questa permanenza dei nostri missionari nel Tibet. Del resto ci restarono poco, in un momento difficile e, negli ultimi tempi, poco amati. Ma per l’Europa fu tutt’altra cosa: il Tibet fu da quei missionari rivelato nella sua realtà geografica, nella sua lingua e nei secreti della sua religione: Körosi Csoma [20] fu giustamente considerato il fondatore della filologia tibetana: e anch’io come tale lo venero, ma l’opera sua non deve farci dimenticare i predecessori, non meno ardimentosi, che aprirono la via al grande ungherese. Alcuni anzi, come il Desideri, lo superarono nella comprensione delle sottigliezze filosofiche della religione lamaistica. Il capitolo delle missioni tibetane fu dunque breve e presto si concluse senza martiri e senza tragedie; eppure le sue vicende ebbero spesso la grandezza delle imprese eroiche: luce di epica grandezza sempre splende su l’opera umana, ove essa affronti le ostili asprezze della natura e il sospetto dei popoli.» [21]
Quando il Tibet chiuse le proprie frontiere agli stranieri gli Italiani, non potendo più attraversare i confini vietati, seguirono il suggerimento di quei pionieri che hanno lasciato tante tracce nel campo degli studi tibetani e si misero a studiare i paesi confinanti col Tibet, come il Ladakh e il Tibet indiano, dove si parlavano dialetti tibetani e dove, quando non sopraffatta dall’islamismo, la religione era ancora il Buddismo. Il piemontese marchese Osvaldo Roero di Cortanze fu il primo a prendere quella strada: giunto nel Kashmir proseguiva per Leh. Per oltre venti anni, tra il 1853 e il 1875, di Cortanze intraprese numerosi viaggi nei territori del maharaja, valicando la grande catena montuosa ed esplorando il Ladakh ed il Baltistan e inoltrandosi verso gli altipiani sconosciuti dell’Aksai-Chin ad oriente della valle del Nubra. Il Roero descrisse i suoi viaggi in tre volumi: Ricordi dei viaggi al Cashemir, Piccolo e Medio Thibet e Turchestan (Torino, 1881), nei quali si rivela un osservatore acuto e un viaggiatore coraggioso: le sue opere contengono anche utili ragguagli sui costumi e sulla lingua del paese.
All’inizio del Novecento iniziava poi la presenza tra le catene montuose dell’Asia centrale di alpinisti italiani, tra cui diverse guide alpine valdostane; ed è di alpinismo vero e proprio, oltre che di esplorazione geografica, che dobbiamo parlare presentando la figura di Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, Duca degli Abruzzi [22], che nel 1909 guida una grande carovana da Srinagar verso Skardu: la meta sarà l’esplorazione del Baltoro e verrà messo in atto anche un tentativo di conquista del K2, raggiungendo la quota di 7.150 metri che costituiva per allora un vero primato. Fra i componenti della spedizione vi era il fotografo Vittorio Sella e il chirurgo e fisiologo Filippo De Filippi.
Nel 1913 giunge in Ladakh uno dei fratelli Piacenza, accompagnato dal medico Borelli, da Calciati e dalla guida alpina Gaspard. Mario Piacenza è un imprenditore laniero del biellese: amante della montagna, svolge una notevole attività alpinistica con salite di grande impegno sia sulle Alpi, sia sui gruppi montuosi extraeuropei, dove si distingue anche per un’attività esplorativa in compagnia del fratello Guido. Assieme a Sella fu quindi uno dei primi fotoreporter dell’ area himalayana. Giunto in Ladakh nel marzo 1913 si trova impossibilitato ad intraprendere le scalate in programma, per cui procede fin oltre Leh con al seguito un voluminoso bagaglio di apparecchi fotografici, lastre ed una cinepresa da 35 mm con la quale filma in modo completo le cerimonie del Set-chu di Hemis. Da questo viaggio Piacenza riporta in Italia un vasto repertorio di testimonianze etnografiche mentre i suoi collaboratori si occupano di rilevamenti topografici e di ricerche di fisiologia umana. Finalmente il 3 agosto, assieme a Borelli ed a Gaspard, ascendono le cime dei picchi gemelli del Nun e del Kun (m. 7.147 e 7.095) e successivamente salgono lo Z3 chiamandolo “Cima Italia”. Mentre i compagni della spedizione fanno ritorno in Italia, Piacenza con le guide valdostane giunge in Sikkim per una perlustrazione della zona del Kanghenjiunga.
Sempre nell’anno 1913 parte la grande spedizione scientifica organizzata e guidata da Filippo de Filippi [23], che vuole proseguire il lavoro cominciato partecipando alla spedizione del 1909. La spedizione venne allestita non più per una meta alpinistica ma con uno scopo puramente scientifico: il rilevamento topografico di entrambi i versanti del Karakorum, che erano stati visitati dai viaggiatori inglesi, ma dei quali non si conosceva l’esatta conformazione. Oltre ai sette italiani, vanno menzionati anche due inglesi del Servizio Trigonometrico Indiano e due indiani appartenenti alla famosa serie di pandit [24] che sotto vari travestimenti avevano rilevato l’Himàlaya nepalese e tibetano, quest’ultimi giunsero accompagnati da due gurka.
Raggiunta Skardu la spedizione trascorse l’inverno, mentre Giotto Dainelli [25] terminava il rilevamento di alcune zone del Baltistan, raggiungendo poi gli altri membri della spedizione a Leh; lungo il percorso Dainelli ha l’occasione di documentarsi e studiare le popolazioni del Purig, i Dardi ed i Baltì. Petigax guida un tentativo di raggiungere l’altipiano delle Rupshu, che però fallisce per la troppa neve, mentre si riescono a rilevare le zone dell’altipiano Depsang e tutta la zona orientale del Karakorum esplorando i ghiacciai Rimu e Siachen. La spedizione prosegue e, dopo aver valicato la catena, riesce a penetrare nel Turkestan cinese, raggiungendo Yarkand e Kashgar, continuando verso il Turkestan russo ed arrivando a Taskent. I partecipanti sono però costretti ad un ritorno precipitoso dallo scoppio delle ostilità; tuttavia i risultati scientifici, raccolti in una imponente documentazione, sono rilevanti.
Giotto Dainelli tornò poi nella stessa zona con una spedizione da lui guidata, organizzata con l’Istuto geografico Militare alla quale parteciparono il tenente Enrico Cecioni (fotografo) e il capitano Alessandro Latini (topografo). Questa missione, che raggiunse zone ancora inesplorate, fu descritta da Dainelli in Il mio viaggio nel Tibet Occidentale (Mondadori, Milano, 1932, pp. XVI + 405).
Le spedizioni del Duca degli Abruzzi, del Piacenza, del De Filippi e del Dainelli sono dunque state fondamentali, poichè raccolsero per la prima volta notizie antropologiche ed etnografiche che contribuirono in maniera determinante allo studio di quelle terre, e costituiscono un fiore all’occhiello per la scienza delle esplorazioni italiane.
Note:
[1] Maës Titianus è stato un antico viaggiatore di cultura ellenistica che si dice abbia viaggiato a lungo seguendo la via della seta partendo dal mondo Mediterraneo. All’inizio del II secolo o alla fine del I secolo a.C., durante una pausa della guerra tra Romani e Parti, il suo gruppo raggiunse la famosa Torre di Pietra, Tashkurgan, nel Pamir. Non si sa nulla di lui, tranne per una breve citazione nel Geografia di Tolomeo, 1.11.7, la cui conoscenza di Maës deriva da una fonte intermedia, Marino di Tiro: « Marino dice che un certo macedone di nome Maen, chiamato anche Titian, figlio di un mercante, e mercante lui stesso, misurò la lunghezza del suo viaggio [alla Torre di Pietra], nonostante non raggiunse lui stesso i Sera ma vi mandò altri » (Claudio Tolomeo, I-XI). I Maesii Titianii sono una famiglia vissuta in Sicilia attorno al 150-210.
[2] In tibetano oro dice gser
[3] Manoel Marques, nato nel 1596 ed entrato nella Compagnia di Gesù nel 1618. Fu il compagno di viaggio di António de Andrade in Tibet, prima traversata della catena himalayana da parte di europei, rimanendovi dall’agosto al settembre 1624, e ritornandovi varie volte. Fu in Tibet: dall’aprile alla fine del 1626, dopo avervi condotto i padri João de Oliveira, Francisco Godinho e Alano dos Anjos (Alain de la Beauchaire); dal settembre al novembre 1627, dopo aver condotto il padre António Pereira; in vari periodi successivi, guidandovi tra gli altri il padre Francisco de Azevedo, nel 1627, fino a condurvi il padre Nuño Coresma, alla guida della sfortunata spedizione giunta a Tsaparang nel luglio 1635, che nell’autunno dello stesso anno fu costretta ad abbandonare la missione. L’epilogo fu, per Marques, ancora più tragico: nell’ultimo tentativo di restaurare la missione del Tibet, su pressione del Generale della Compagnia, accompagnò tre padri da Agra a Srinagar nel Garhwal, e da lì partì, nell’estate del 1640, con il padre Stanislao Malpichi, superiore di quella missione. Furono arrestati appena entrati in Tibet; riuscirono a fuggire, ma Marques fu ripreso e nel 1641 risulta ancora prigioniero a Tsaparang, dopo di che se ne perdono le tracce.
[4] Padre Gonzales de Souza, nato a Matosinhos (Portogallo) nel 1589, entrò nella Compagnia di Gesù nel 1605, fu inviato in India nel 1611 e impegnato nell’Impero moghul dal 1619.
[5] João de Oliveira, nato nel 1595 a Damão (insediamento portoghese, divenuto capitale dello Stato Portoghese dell’India, fino all’indipendenza di questa; oggi Daman, distretto del territorio federato di Diu e Daman) ed entrato diciassettenne nella Compagnia di Gesù. Fu mandato nella missione dell’Impero moghul e subito a Tsaparang, dove rimase fino all’ottobre 1631, quando, insieme al padre Francisco de Azevedo, si spinse fino a Leh, in Ladakh. Rientrato ad Agra nel gennaio 1632, operò in quella missione, dove le liste dei missionari lo attestano fino al 1641.
[6] Francisco Godinho (Évora, Portogallo, 1596 – Goa 30.1.1662), entrato nel 1615 nella Compagnia di Gesù, partì per l’India nel 1619. Le precarie condizioni di salute lo fecero rimanere in Tibet solo un anno, e, dopo due anni passati ad Agra, rientrò nella missione di Goa, impegnato sia in sede, sia a Diu, Damão e Bassein.
[7] Alano dos Anjos è il nome portoghese adottato in India dal francese Alain de la Beauchaire (Pont-à-Mousson, Lorraine, Francia, 1592 – Srinagar, Garhwal, 1636) che, entrato nel 1607 nella Compagnia di Gesù, partì per l’India nel 1622. Dopo una prima permanenza di circa due anni in Tibet, vi ritornò una seconda volta per rimanervi fino al 1635. Rientrato ad Agra, si portò di nuovo, nel 1636, a Srinagar, dove morì poco dopo.
[8] António Pereira, nato nel 1596 a Lixa, nel distretto di Porto, Portogallo, entrò nel 1612 nella Compagnia di Gesù; partì per l’India nel 1624 e nel 1626 fu assegnato alla missione dell’Impero moghul.
[9] António da Fonseca, nato a Mourão, nel distretto di Évora, Portogallo, nel 1600, entrò ventenne nella Compagnia di Gesù. Rimase in Tibet forse sino al 1635.
[10] Francisco de Azevedo (Lisboa 1578 – Goa 12.8.1860) trascorse quasi tutta la sua vita in India, essendovisi recato già da bambino; nel 1597, a Goa, entrò nella C. d. G. Dopo Diu (1614) e Rachol (1620), fu visitatore di missioni in Africa sud-orientale, e, nel 1627 fu assegnato alla missione dell’Impero moghul. Designato come visitatore del Tibet, dopo l’invasione del regno di Guge da parte del Ladakh (1630), Azevedo, guidato da Manoel Marques, partì da Agra il 28 giugno 1631, raggiunse Srinagar nel Garhwal, da dove il 31 luglio si incamminò verso Tsaparang, che raggiunse il 25 agosto 1631. Da qui, il 4 ottobre 1631, partì verso Leh, in compagnia di João de Oliveira, attraverso terre non ancora visitate da europei. Raggiunta il 25 ottobre 1631 la capitale del Ladakh, i due missionari vi rimasero fino al 7 novembre 1631, quando, assolto il loro compito, presero una diversa via del ritorno, attraverso Lahul e Kulu (arrivo a Nagar, capitale di Kulu, il 26 novembre 1631), che li condusse ad Agra il 3 gennaio 1632. De Azevedo lasciò una importante relazione in portoghese sul suo viaggio, un manoscritto non autografo, ma da lui firmato, che porta il destinatario (Padre António Freire, procuratore delle missioni dell’India in Portogallo) come intestazione: Pera o Padre Antonio Freire, Procurador das Provincias da India da Comp. de Jesus em Portugal. De Azevedo è il primo visitatore europeo accertato, anche se sembra che un mercante portoghese, Diogo d’Almeida, vi avesse soggiornato per due anni agli inizi del diciassettesimo secolo. Ignorando il viaggio dei missionari portoghesi e trascurando il passaggio, nel 1715, del gesuita italiano Ippolito Desideri (1684-1733), in compagnia del confratello portoghese Manoel Freyre (1679- ?), il grande esploratore inglese William Moorcroft (1767-1825), che fu in Ladakh fra il 1820 e il 1822, si ritenne il primo visitatore europeo di Leh.
[11] Nuño Coresma, nato nel 1600 (probabilmente nel villaggio San Roman, del distretto spagnolo di Tordesillas) entrò sedicenne nella C. d. G. e andò in India nel 1625. Dopo la missione a Tsaparang, nel Tibet occidentale (luglio-ottobre 1635), diresse un collegio nell’isola Salsette. Morì nell’ ottobre 1650 presso le coste di Mozambico, probabilmente mentre rientrava a Goa dopo una permanenza in Europa
[12] Balthasar Caldeira (Macao 1609 – Goa 3.5.1678) entrò nella C. d. G. a Goa nel 1627 e rimase tre anni nella missione dell’Impero moghul; poi operò nel Tonchino, in Cina, Giappone e altri paesi, prima di tornare in India, dove ebbe molti incarichi.
[13] Pietro de Freytas (Mondim, Portogallo, 1608 – Goa 3.5.1840) entrò nella C. d. G. a Goa nel 1630 e, sempre a Goa fu professore di teologia.
[14] Barreiros (Lisboa 1605 – Bassein 8.3.1866) divenne fratello laico della C. d. G. a Lisbona quando era ventenne; risulta a Goa nel 1633 e, al ritorno da Srinagar del Garhwal, passò a Bassein, dove fu impegnato per la maggior parte della sua vita.
[15] Ambrosio Correa (Aveiro, Portogallo, 1606 – Angola 24.5.1652) entrò nella C. d. G. a Lisbona nel 1622. In India dal 1630, dopo la missione a Tsaparang, dove rimase dal luglio al settembre 1635, fu impegnato a Goa fino al 1650.
[16] Stanislao Malpichi (Catanzaro, , 1600 – ?) rimase dal 1637 a 1644 nel Garhwal e fu molto amico del rajah locale. Successivamente si alternò fra Goa e Agra, dove fu anche tutore di Dara Shikoh (20.3.1615 – 30.8.1659), figlio maggiore di Shah Jahan (5.1.1592 – 22.1.1966), imperatore moghul dal 1628 al 1658, e di sua moglie Mumtaz Mahal (1593 -17.6.1631), per la quale fu edificato, ad Agra, il Taj Mahal. Nel 1662 assunse la massima carica della provincia missionaria di Goa.
[17] Grueber, rientrato a Roma fornì elementi al padre Athanasius Kircher per il suo famoso libro sulla Cina, dove appare il primo disegno del Potala di Lhasa.
[18] G. TUCCI, Italia e Oriente, Garzanti (Piani. Biblioteca di studi economici, sociali, politici e storici), Milano, 1949, pp. (5) + 263 [Nuova ed. IsIAO (Il Nuovo Ramusio, collana diretta da G. Gnoli, 1), Roma, 2005, a cura di Francesco D’Arelli, presentazione di Gherardo Gnoli, p. 212]: il paragrafo “P. Ippolito Desideri” è alle pp. 201-204 [ed. 2005, pp. 155-158] nell’ambito del Cap. XI, “L’Italia e l’esplorazione del Tibet”, pp. 191-210 [ed. 2005, pp. 149-162].
[19] All’inizio del XVIII secolo, la Cina ottenne il diritto di avere un commissario residente (amban) a Lhasa. Il Tibet si trovava sotto una specie di protettorato allora, pur essendo nominalmente indipendente. Nel 1720 i Manciù che dominavano la Cina si intromisero nelle questioni tibetane inviando truppe per scortare il giovane settimo Dalai Lama, nato nel Tibet orientale a Lhasa. Quando le truppe manciù abbandonarono Lhasa, lasciarono indietro un residente (o amban) ufficialmente per rimanere a disposizione del Dalai Lama, ma in effetti per proteggere i loro propri interessi: questo fu l’inizio della interferenza Manciù negli affari tibetani. Quando i tibetani si ribellarono contro i Cinesi nel 1750 e uccisero l’amban, l’esercito cinese entrò nel paese e nominò un successore del funzionario ucciso. Un intervento Manciù in Tibet si verificò ancora nel 1790, quando i rappresentanti (gli amban) dell’imperatore manciù si trasferirono a Lhasa e tentarono di impegnarsi in “indicibili” intrighi per intromettersi negli affari tibetani. Nel frattempo, la situazione internazionale era assai peggiorata: i Britannici, dal 1757 avevano assunto l’intero controllo della penisola indiana e, dal 1835 al 1843, completavano la creazione del protettorato sul confinante Kashmir. Il Tibet era divenuto un “paese a rischio”, uno “stato cuscinetto” nella morsa dei Cinesi a settentrione e dei Britannici a meridione. Nel 1856 un trattato stabilì i confini tra Tibet e Nepal e l’accordo fu stipulato dai Cinesi per il Tibet e dai britannici per il Nepal. I Manciù ottennero un controllo nominale sul Tibet Orientale durante questo periodo che terminò nel 1865 quando i tibetani ripresero possesso dei territori perduti. Quando nacque il XIII Dalai Lama, il Tibet si trovava già di fatto sotto protettorato cinese.
[20] Sándor Kőrösi Csoma (27 Marzo 1784 – 11 Aprile 1842), noto anche come Alexander Csoma de Kőrös, era un filologo e orientalista ungherese, autore del primo dizionario Tibetano – Inglese. Era nato a Kőrös in Transilvania. Sperando di riuscire a rintracciare le origini del gruppo etnico Magiaro, partì per l’Oriente nel 1820 e, dopo un lungo viaggio avventuroso, giunse nel Ladakh, dove, con grandi sacrifici, nonostante l’aiuto del governo inglese, si dedicò allo studio della lingua tibetana. Produsse il primo dizionario Tibetano – Inglese mentre risiedeva al monastero di Zangla, nello Zanskar, nel 1823; ill testo venne pubblicato l’anno successivo. Nel 1831 si stabilì a Calcutta, dove compilò il suo Tibetan Grammar and Dictionary e catalogò le opere tibetane della biblioteca dell’ Asiatic Society. Morì a Darjeeling nel 1842. Si dice che fosse in grado di leggere in 17 lingue diverse. E’ considerato il fondatore della Tibetologia.
[21] Tucci G., «Italia e Oriente», Garzanti (Piani. Biblioteca di studi economici, sociali, politici e storici), Milano, 1949 pp. 206-208.
[22] Luigi Amedeo Giuseppe Maria Ferdinando Francesco di Savoia, duca degli Abruzzi (Madrid, 29 gennaio 1873 – Villaggio Duca degli Abruzzi, 18 marzo 1933), fu esploratore e alpinista. Nel 1894 salpa da Venezia sulla Cristoforo Colombo per una missione diplomatica che dura ventisei mesi e che gli consente di compiere la sua prima circumnavigazione del globo. Nel corso di questo viaggio, sbarcato a Victoria, nella British Columbia, viene a conoscenza dell’esistenza nella regione tra Alaska e Yukon di una cima inviolata di 5.489 metri, il Monte Saint Elias. Durante una sosta di un mese a Calcutta, viaggia attraverso l’India insieme ai colleghi ufficiali Umberto Cagni e Filippo De Filippi arrivando fino alle prime propaggini dell’Himalaya, da cui può vedere a distanza per la prima volta un ottomila, il Kangchenjunga. Nel giro di poco più di un decennio, tra il 1897 e il 1909, ha compiuto le spedizioni che lo hanno reso internazionalmente celebre: nel 1897 la prima ascensione del Monte Saint Elias, in Alaska; nel 1900 la spedizione al Polo Nord che raggiunse la latitudine Nord più avanzata dell’epoca; nel 1906 l’esplorazione del massiccio africano del Ruwenzori e l’ascesa delle sue cime maggiori; nel 1909 la spedizione nel Karakorum, con il fallito tentativo di ascesa del K2 e il nuovo record mondiale di altitudine. Durante la Prima guerra mondiale è stato al comando della flotta alleata; in seguito si è dedicato fino alla sua morte ad un innovativo progetto di sperimentazione agricola e di cooperazione con le popolazioni locali in Somalia.
[23] Filippo de Filippi (Torino 6.4.1869 – Settignano, Firenze 23.9.1938), figlio di Giuseppe e di Olimpia Sella, medico e fisiologo, docente di medicina operativa all’Università di Bologna, si perfezionò in chimica fisiologica in istituti scientifici tedeschi e inglesi, producendo importanti pubblicazioni, prima che il suo interesse per la montagna e i viaggi lo indirizzassero totalmente verso i campi della geografia e delle esplorazioni. Nel 1901 sposò la scrittrice inglese Caroline Fitzgerald (figlia del Rev. William John), morta prematuramente dieci anni dopo. Prestò servizio volontario in guerra come tenente-colonnello medico nella Croce Rossa e poi fu inviato a Londra, dove dal 1917 al 1919 organizzò e diresse l’Ufficio italiano di propaganda e informazione. Insignito di altre onorificenze dal governo britannico e da varie società geografiche nazionali, fu membro dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia Pontificia e di altre importanti istituzioni. Autore di scalate su varie cime alpine, delle quali rese testimonianza nelle relazioni pubblicate sulla Rivista del Club Alpino Italiano dal 1887 in poi, partecipò alla spedizione di Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, in Alaska nel 1897 (conquista del monte Saint Elias, il 31 luglio) e ne scrisse la relazione. Fu autore anche delle relazioni di altre spedizioni africane dello stesso Duca degli Abruzzi (Ruwenzori, 1906, Uebi Scebeli 1928) pur non partecipandovi. Importante fu invece la sua partecipazione alla spedizione del 1909 al Karakorum del Duca degli Abruzzi che affrontò il K2 e raggiunse sul Chogolisa la quota di 7.500 metri, la massima raggiunta fino allora, e che fece importanti rilievi del ghiacciaio Baltoro; la relazione sempre di De Filippi, arricchita dalle splendide fotografie di Vittorio Sella, uscì nel 1912 in italiano (La Spedizione nel Karakorum e nell’Imalaia Occidentale, 1909, Zanichelli, Bologna) e in inglese (Karakorum and Western Himalaya, 1909, Constable, London/E.P. Dutton, New York). Questa fu la premessa per una grande spedizione scientifica, diretta dallo stesso De Filippi, che nel periodo 1913-14 si articolò fra Karakorum e Himalaya estendendosi nel Turkestan cinese (attuale Sinkiang o, con la nuova traslitterazione cinese, Xinjiang), producendo una grande messe di risultati riportati nei 15 volumi (Zanichelli editore, Bologna), usciti fra il 1925 e il 1934, delle Relazioni scientifiche della spedizione italiana De Filippi nell’Himalaia, Caracorum e Turchestan cinese (1913-1914), riunite in due serie, una coordinata dallo stesso De Filippi, l’altra dal geologo e geografo Giotto Dainelli (Firenze 19.5.1878 – ivi 17.12.1968). Alla spedizione presero parte i geografi e geologi Giotto Dainelli e Olinto Marinelli, l’astrofisico Giorgio Abetti (docente all’Università di Roma e futuro direttore dell’Osservatorio di Arcetri), i meteorologi marchese Nello Venturi Ginori e Camillo Alessandri, il primo tenente di vascello Alberto Alessio, il tenente del Genio Cesare Antilli (a cui si debbono le splendide fotografie), l’ingegnere John Alfred Spranger (collaboratore di Alessio e Abetti nei lavori geodetici e topografici) e la guida alpina di Courmayeur, Joseph Petigax (già accompagnatore del Duca degli Abruzzi in varie spedizioni, tra le quali quella del 1909 al Karakorum). Erano inoltre aggregati al gruppo italiano tre topografi del Servizio trigonometrico indiano: il maggiore inglese Henry Wood (autore di una specifica pubblicazione su quella spedizione) e due collaboratori indiani (Jamna Pranad e Shib Lal)
[24] Pandit è un titolo onorifico col quale in India si indica uno studioso o un insegnante dalla conoscenza particolarmente approfondita della lingua sanscrita, della religione, della musica o della filosofia. Il termine significa in sanscrito “dotto, maestro” e spesso viene premesso al nome di importanti personaggi appartenenti alla casta dei brahmani
[25] Giotto Dainelli (Firenze 19.5 1878 – Firenze 16.11.1968), figlio del generale Luigi e di Virginia Mari, nacque a Firenze il 19 maggio 1878. Vantava ascendenze illustri: il padre era imparentato con i carbonari e patrioti bolognesi Zambeccari e Ranuzzi; la madre era figlia dell’avvocato Adriano Mari (1813-1887), politico della Destra che rivestì importanti cariche istituzionali. Trascorse la sua infanzia lontano da Firenze, a seguito dei cambiamenti delle sedi di servizio del padre, ed ebbe modo di conoscere l’Europa data l’abitudine della famiglia di approfittare delle vacanze estive per compiere viaggi all’estero. Nel 1900 si laureò in Scienze naturali all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, dove fu allievo del geologo e paleontologo padovano Carlo De Stefani (1851-1924), all’epoca il più illustre docente della materia (fu direttore dell’Istituto di Geologia di Firenze e accademico dei Lincei); in seguito si perfezionò all’Università di Vienna. Dainelli mostrò subito il suo valore di studioso con le pubblicazioni geologiche e paleontologiche apparse nel 1901, le prime di una serie numerosa, estesa fino al 1967, che costituisce ancora oggi un ricco patrimonio informativo, fecondo di validi insegnamenti. Nel 1903 conseguì a Firenze la libera docenza in Geologia e Geografia fisica e dal 1914 al 1921 tenne la cattedra di Geografia nella Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa; successivamente, titolare della cattedra di geologia a Napoli fino al 1924, anno in cui, morto De Stefani, tornò a Firenze per subentrare nella cattedra di Geologia del suo maestro, tenuta poi ininterrottamente fino al 1944 e ripresa, nel secondo dopoguerra, fino al 1953. Dainelli non fu solo uno studioso da tavolino, ma anche autore di numerosi viaggi di studio e missioni esplorative, qualificandosi come un grande viaggiatore dotato di abilità alpinistiche. Già nel 1905-1906 compì un viaggio esplorativo in Eritrea, in compagnia del geografo Olinto Marinelli, suo amico e compagno di studi. Ne riportò una ricca messe di dati e di materiali, utilizzati per il resoconto, pubblicato a Firenze nel 1912 con il titolo Risultati scientifici di un viaggio nella Colonia Eritrea. Tornò nel Corno d’Africa nel 1936-1937 con una missione esplorativa al lago Tana, da lui organizzata e diretta su incarico dell’Accademia d’Italia, della quale era membro. Da quel viaggio derivò il volume La regione del lago Tana, pubblicato a Milano nel 1939. Importante la partecipazione del geologo fiorentino alla spedizione scientifica al Karakorum, effettuata nel 1913-1914 sotto la guida di Filippo De Filippi, e che si impose come la più rilevante e fruttuosa compiuta in quell’area. La ricchissima raccolta di dati e materiali della spedizione sopra ricordata trovò degna e appropriata utilizzazione nelle Relazioni Scientifiche della Spedizione Italiana De Filippi nell’Himàlaia, Caracorùm e Turchestàn Cinese (1913-1914), pubblicate in 18 volumi fra il 1922 e il 1934 dall’editore Zanichelli di Bologna, e divisa di due serie. La seconda, Resultati geologici e geografici pubblicati sotto la direzione di Giotto Dainelli (12 volumi in 14 tomi, 1922-1934), impegnò vari eminenti studiosi, geologi paleontologi, botanici, zoologi e antropologi, non partecipanti alla spedizione. Lo stesso Dainelli fu direttamente autore dei volumi: 1. La esplorazione della regione fra l’Himàlaja occidentale e il Caracorùm (1934); 2. La serie dei terreni (2 tomi, 1933 e 1934; 3. Studi sul glaciale (2 tomi, 1922); 4. Le condizioni fisiche attuali (1928; insieme a Olinto Marinelli); 8. Le condizioni delle genti (1924); 9. I tipi umani (1925; insieme a Renato Biasutti); 12. Indici analitici (1934). Dainelli pubblicò anche il diario della sua esplorazione e per completare le osservazioni compiute nel 1913-1914, tornò nella stessa zona a capo di una spedizione. Nel 1944 Dainelli, dopo essere stato Podestà fascista di Firenze, seguì Mussolini a Salò (Repubblica Sociale Italiana), come direttore dell’Accademia d’Italia. Lasciato, il 1° novembre 1953, l’insegnamento universitario di Geologia a Firenze, a seguito del compimento dei 75 anni, si trasferì a Roma; morì il 16 novembre 1968 a Firenze, dove era da poco rientrato..A suo nome risultano una trentina di specie fossili e quattro viventi e gli fu intitolata anche una cima dei monti Kazbegi, un massiccio montuoso del Caucaso georgiano, che comprende i vulcani, ora spenti, Kazbek e Khabarjina. Dotato di forte personalità, oratore efficace e brillante scrittore, Dainelli si impose fra le personalità di spicco della cultura italiana fra le due guerre. Socio dal 1919 dell’Accademia dei Lincei e, in seguito, dell’Accademia d’Italia, della quale fu presidente, dopo l’uccisione (15.4.1944) di Giovanni Gentile, negli anni della Repubblica di Salò; socio della Pontificia Accademia delle Scienze e socio corrispondente o onorario di tutte le più importanti Società Geografiche nazionali, gli fu assegnata nel 1954, dalla Società Geografica Italiana, la medaglia d’oro per i grandi esploratori. Fu autore di circa seicento opere (fra libri e articoli) di argomento geografico e geologico, sia specialistiche che divulgative. Spaziò in ogni campo della geografia e della geologia: dalla paleontologia alla glaciologia, alla morfologia, alla geografia antropica, alla storia delle esplorazioni. Oltre alle ricerche connesse alle sue esplorazioni asiatiche e africane (Geologia dell’Africa Orientale, 1943; Gli esploratori italiani in Africa, 1960), si occupò ampiamente dell’Italia, sia in generale che di sue particolari zone: Atlante fisico-economico d’Italia, 1940 (coordinatore e in gran parte autore); Le Alpi, 1963; L’Eocene friulano, 1915; La struttura delle Prealpi friulane, 1921. Specificamente sulla sua regione si ricordano: Le zone altimetriche del Monte Amiata, 1910; La distribuzione della popolazione in Toscana, 1917. Collaborò all’ Enciclopedia Italiana; fondò e diresse le “Memorie geografiche” e le “Memorie geologiche e geografiche”.
* * *
Giuseppe Tucci: le spedizioni tibetane dal 1928 al 1933
Tra il 1925 e il 1930 Tucci aveva vissuto in India insegnando italiano, tibetano e cinese presso le università di Shantiniketan e di Calcutta, dove lo studioso non si limitò ad esercitare la professione di docente ma, oltre a perseguire le sue finalità di studioso ed orientalista in maniera “sedentaria”, iniziò ben presto a viaggiare verso i confini del Tibet e nei territori circostanti. Nel maggio del 1926 si spinse da Darjeeling (dove si era recato con il poeta bengalese Rabrindanath Tagore) verso l’interno del Sikkim. A Temi fu scattata l’unica immagine che può essere con certezza attribuita a questo viaggio: una foto di gruppo in cui Tucci appare insieme ai suoi accompagnatori, corredata da una didascalia scritta dallo studioso sul retro, con informazioni sul luogo, la data e le altre persone ritratte.
Nel 1926, in un periodo imprecisato tra giugno e agosto, coincidente con il periodo di pausa estivo dalle lezioni, Tucci visitò l’Assam. Durante il viaggio visitò Gauhati e si soffermò in particolare al tempio di Kamakhya, sul quale scrisse poi un articolo. Dato il suo crescente interesse verso il buddhismo, visto dallo studioso come un coronamento della filosofia indiana classica e un ambito di studio ancora vasto ed inesplorato, Tucci tra il 1928 e il 1930 organizzò alcune spedizioni nel Ladakh, in Nepal e nelle aree himalayane dell’India di cultura tibetana. Dal giugno all’ottobre 1928 visitò Rawalpindi e gli scavi di Taxila, poi, in compagnia della moglie Giulia Nuvoloni, si diresse a Shrinagar attraverso Murree: dopo che ebbero ottenuto il lasciapassare per il Ladakh, si recarono in alcuni dei principali monasteri del paese. In particolare, la coppia soggiornò per oltre un mese nel monastero di Hemish, poiché Tucci voleva studiare i testi della biblioteca. Si sono conservate fotografie datate al 1928 anche di Dras, Leh, Basgo e Lamayuru. È probabile che la maggior parte della documentazione fotografica sia stata eseguita da Giulia Nuvoloni, la quale scrisse anche una relazione del viaggio, pubblicata però incompleta. L’anno successivo, sempre con la moglie, visitò il Nepal, mentre nel dicembre 1929 – 1930 Tucci viaggiò in India settentrionale e tra febbraio e marzo 1930 visita Darjeeling e Ghum. Tra il giugno e il settembre 1930 Tucci tornò nuovamente in Ladakh e forse visitò anche lo Zangskar, per rintracciare antichi testi buddisti e testimonianze artistiche a archeologiche; tuttavia di questo viaggio rimangono solo brevi accenni negli scritti [1] e una quindicina di fotografie del Ladakh sulle quali sul retro compare la data «1930».
Nella corrispondenza con le autorità indiane per ottenere i permessi di viaggio, si fà riferimento anche allo Zanskar, ma non si conosce esattamente quali siano state le località visitate. Da luglio a ottobre 1931 Tucci organizzò la sua prima grande spedizione che, secondo il suo progetto iniziale, doveva attraversare zone poco conosciute dello Himalaya indiano e buona parte del territorio del Tibet occidentale.
Nella prima parte del viaggio Tucci attraversò il Ladakh e visitò Rupshu, Lahul e Manali. Percorse in seguito la valle del Sutlej fino allo Spiti, che fu da lui risalito fino a Kaza (Kaja), come è documentato dai nomi delle località in cui raccolse i ts’a-ts’a [2] pubblicati nel primo volume della serie Indo-Tibetica [3]. La marcia della spedizione fu rallentata da una serie di traversie, cosicché essa entrò in Tibet superando il passo di Shipki, e raggiunse Tiak solo il 2 ottobre: dato che l’inverno stava per cominciare rinunciò a proseguire e rientrò a Shimla alla fine del mese. Nel novembre 1931 Tucci visitò nuovamente, ma per breve tempo, il Nepal: al fine di consultare le biblioteche e mantenere contatti con le autorità e gli studiosi del posto, si trattenne a Kathmandu e nelle vicine città storiche. La successiva spedizione ebbe luogo tra giugno e ottobre del 1933: con questa Tucci volle completare l’esplorazione dello Spiti raggiungendolo dalla valle del Chandra, proseguendo la ricerca sui monumenti archeologici, religiosi e artistici dell’antico regno di Guge, riprendendo il cammino da dove era stato impedito a continuare due anni prima, per giungere fino a Gartok, capoluogo della regione affacciato sull’Indo. Questa è la prima spedizione che Tucci raccontò sotto forma di diario, per cui è molto più facile ricostruire l’itinerario con le varie località visitate e gli elementi di interesse annotati dal professore. Vi è innanzitutto da segnalare che per questa spedizione fu ingaggiato in qualità di fotografo, cineoperatore e medico Eugenio Ghersi [4], il cui apporto fu determinante per la documentazione raccolta: il diario della spedizione fu infatti pubblicato originariamente con la doppia firma di Tucci e di Ghersi [5]. Seguiamo ora nel dettaglio la carovana, organizzata dal Tucci a Sultanpur, dove giunse il 14 giugno 1933, dopo un viaggio prima in treno e poi in camion da Palanpur (Kangra).
Qui lo studioso incontra tre servi kashmiri (il capocarovaniere Kalìl, il cuoco Abdùl e l’uomo di fatica Sheikh) che faranno parte della spedizione, tutti e tre veterani di questo genere di impresa, e organizza materialmente la carovana, inventariando il materiale occorrente per il viaggio e la documentazione.
Sultanpur è una città mercantile di confine, crogiuolo di genti diverse (indù, balti, tibetani) e luogo di partenza delle varie carovane. Per accedere alla valle del Chandra e allo Spiti era possibile il transito da due passi: il Rohtang-La (3900 metri), rimaneva chiuso fino a dopo la metà di giugno, ed era accessibile solo a carovane di pony e yak, e l’Hamtah-la (4200 metri), transitabile solo per carovane di portatori; i portatori di Jagatsukhsi rifiutarono di andare per il passo di Hamtah e dopo lunghe e laboriose trattative si stabilì di partire con una carovana di pony e di raggiungere lo Spiti attraverso il Rohtang e la valle del Chandra. La carovana, composta da ventiquattro cavalli e diciassette carovanieri, partì dunque all’alba del 21 giugno per la prima tappa fino al ponte di Kelat, dove giunse nella sera dello stesso giorno, mentre Tucci e Ghersi viaggiavano in camion, lungo una strada impervia e pericolosa, transitando per ponti pericolanti a grande velocità, Tucci in prima classe e Ghersi in seconda, seduto sui sacchi della posta, ricongiungendosi infine con il resto della carovana. Il 23 giugno, dopo l’arrivo a Manali, ultimo ufficio postale e telegrafico del paese, vengono arruolati portatori locali, dato che quelli originali non davano troppo affidamento e il passo poteva essere in condizioni difficili per la neve. Il giorno successivo la carovana parte da Manali per il passo di Rohtang, percorrendo un’antica strada gradinata che una leggenda tibetana vuole costruita dal mitico Gesar. [6] Nelle vicinanze del passo Tucci scopre la presenza di una tana di un serpente sacro onorato dai viandanti, che versavano del latte come offerta in un incavo scavato nella roccia: il culto dei serpenti era preponderante nella religione bon, che nel Tibet ha preceduto il buddhismo e che sopravviveva nei riti, nelle leggende e nelle cerimonie che accompagnavano la vita dei Tibetani. Il 25 giugno la carovana valica il passo, dove la neve era ancora molto alta e il freddo intenso, ma da cui risultava fantastica la visuale sulle guglie e i picchi ghiacciati della catena himalayana. Sul passo si trovava un lhato: un cumulo di pietre con alcuni rami secchi piantati sopra di esso, al quale venivano annodate dai viandanti buddisti delle striscie di stoffa multicolore, come offerta per le divinità che abitano il passo.
Dal 26 al 31 giugno la carovana percorre la strada per lo Spiti: il sentiero è pericoloso, perchè ancora molto innevato, soggetto alla caduta di frane, massi e valanghe e prevede il pericoloso attraversamento di fiumi e del ghiacciaio dello Shigri. Il 31 giugno, dopo varie disavventure e pericoli, la carovana valica il passo di Kanzam ( 4500 metri) dove, oltre al lhato, si trovava un pianoro cosparso di cippi di pietra di varie dimensioni, piantati verticalmente, di cui molto sgretolati dal ghiaccio: il fatto che di frequente questi siano presenti sui passi del Tibet indica che probabilmente non sono pietre funerarie, ma piuttosto monumenti rituali, del genere dei lhato. Lungo la strada, che dal passo scende lungo la valle del fiume Lichu, vengono anche trovate iscrizioni preistoriche su grossi macigni, raffiguranti capre e uomini, dello stesso tipo di quelle ritrovate in Ladakh. A tarda sera il gruppo raggiunge il villaggio di Losar, lungo il corso del fiume Spiti, dove Tucci ha modo di conoscere le personalità del luogo: i lama e il medico. A Losar lo studioso ha modo di visitare alcune cappelle private ricche di testi sacri, biografie di santi tibetani, manuali liturgici e trattati di mistica buddhista [7], nonché diversi esempi delle onnipresenti thanka [8]. Il tempio del villaggio, appartenente alla setta gialla [9], appare piuttosto nuovo e modesto; i membri della spedizione hanno inoltre modo di assistere a danze popolari e canti.
Il 4 luglio la spedizione giunge a Kibar (4200 metri), dopo aver transitato per Hansi, Kioto e Tumlè. I templi di Kibar sono tutti di scarso interesse: l’unico tempio antico della zona (Lha k’an sgan) è distrutto; più interessante è invece una cappella privata chiamata Cianciublìn, che conserva pitture murali probabilmente del diciassettesimo secolo. Il medico del paese fornisce una raccolta delle erbe mediche da lui normalmente utilizzate. [10] Il 7 luglio viene aggregato alla carovana un lama, appartente al monastero di Kaze e precettore del nono dello Spiti [11] : questo permetterà a Tucci di avere più facile accesso ai monasteri incontrati lungo il percorso. Nel villaggio è giorno di festa: si tiene un banchetto e viene celebrata una cerimonia di esorcismo, documentata fotograficamente dal Ghersi. Il giorno successivo la carovana riparte e arriva il 9 luglio al monastero di Ki, il cui capo ha dieci anni ed è un tulku, ovvero un incarnato.[12]
Il monastero sorge su una collina e assomiglia ad una cittadella: qui Tucci avrà modo di assistere ad una danza religiosa dei sacerdoti del monastero e potrà acquistare oggetti sacri. Il 10 luglio si giunge a Kaze, nel territorio della setta dei Sakyapa.[13], dove si trova il monastero del lama aggregato alla spedizione, che si staglia su rocce impervie ed è circondato da alte mura costruite sull’orlo di precipizi. Le pitture sono di scarso valore e la biblioteca non è fornita, ma Tucci riesce ugualmente a trovare qualche pezzo interessante. Il 12 luglio la spedizione transita per Lithang, nella zona di influenza religiosa dei Nyingmapa [14]. Partendo da Lithang la carovana si divide in due gruppi: Tucci e Ghersi con le tende, il materiale fotografico, la cucina e due uomini proseguono per Lhalung nella valle del Lingti, mentre il grosso della carovana parte per la capitale Drangkhar. A Lahlung Tucci visita un antichissimo tempio con statue di divinità e una vecchia immagine in legno di un Buddha meditante, di fattura indiana, che verrà ceduta a Tucci dopo un complicato rituale. Il 15 luglio la carovana si riunisce a Drangkhar, capitale dello Spiti, che sorgeva su una roccia a picco che strapiomba sul fiume e consta di una trentina di case addossate alle mura pericolanti e ai ruderi dell’antica città: anche il vecchio castello reale versava in rovina, i templi erano stati saccheggiati, per cui Drangkhar era ormai capitale soltanto di nome. I tempietti (lha k’an) della città sono piccoli e in stato di abbandono, le pitture murali cancellate, tuttavia qua e là furono trovati affreschi interessanti raffiguranti vite di Buddha, scene relative alla fondazione dei templi e cerimoniali, nonché idoli in bronzo e legno. Il capocarovaniere Kalìl tratta con i lama per l’acquisto di oggetti interessanti. La spedizione prosegue poi per Tabo, dove trascorrerà il 19 e 20 luglio, dopo il tragitto attraverso Po (3500 metri) e un lungo, ripido e pericoloso sentiero fino a Tabo.
Tabo era un villaggio povero, che doveva la sua fama al monastero fondato da Rin Chen Bzang Po [15], costituito da otto templi, di cui il più grande è anche il più antico. Esso fu fondato da Rin Chen Bzang Po, ma gran parte della costruzione, al tempo della spedizione di Tucci, risaliva al XIV secolo: conteneva statue ed affreschi molto interessanti, sia per la storia dell’arte nel Tibet occidentale, sia per lo studio dell’iconografia buddhista. I fregi e le statue dei templi, tra altri elementi, raffiguravano leggende della tradizione tibetana, momenti della vita di Buddha, cicli mistici buddisti connessi con le scuole tantriche e vari mandala [16]. Della biblioteca non restavano che scarsi frammenti; in ogni caso gran parte dell’importante complesso monastico versava in stato di grave degrado e abbandono. Per i Tibetani, tuttavia, il carattere di cui un edificio è investito dalla cerimonia di consacrazione iniziale non va perduto, al di là del suo stato di conservazione: una rovina non è meno degna di venerazione che un tempio in buono stato, perché per il popolo tibetano solo il carattere sacro del luogo ha valore, al di là di considerazioni artistiche e archeologiche. A est del monastero sorgevano, lungo una rupe scoscesa, una serie di cellette monastiche abbandonate, dove i lama si ritiravano per lunghi periodi al fine di meditare, anche per dodici anni consecutivi, senza nessun contatto con il mondo esterno. Inoltre, nella valle attorno al monastero, si erigevano numerosi ciortèn [17], spesso in file di 108, numero sacro per il buddhismo: Tucci e Ghersi di dedicarono all’esplorazione di ciascuno di essi, poiché spesso contenevano oggetti sacri (tra cui ts’a ts’a) e scritture.
La spedizione riparte e attraversa il 21 luglio Lori, ultimo villaggio dello Stato dello Spiti; il 22 giunge nella valle del Pare-Chu e il 23 arriva a Chang, alle frontiere dello Stato di Bashahr (dove dominava l’ortodossia indù), ai confini con lo Spiti, dove la gente appare diversa rispetto ai montanari dello Spiti: gli uomini portano i capelli lunghi, un berretto di lana bianca con una banda di velluto nero e un vestito di lana grezza tagliato a foggia di lunga tunica; sia le donne che gli uomini amano adornarsi di fiori; i sacerdoti non portano più la tunica rossa dei lama, ma la comune casacca dei laici, pur portando il rosario buddhista al collo.
A Chang Tucci ha modo di visitare un antico tempietto le cui pareti, anche se annerite e rovinate, conservavano tracce notevoli di interesse dal punto di vista storico, iconografico e religioso. Il 25 luglio la carovana affronta una marcia di tre ore sino a Nako, villaggio più grande di Chang e come l’altro formato da tre borgate, costruite sui costoni della montagna. I templi di Nako sono stati ampiamente studiati da Tucci nel terzo volume di Indo-Tibetica; diciamo qui soltanto che si trattava di un piccolo tempio contenente, oltre a pitture murali del XV e XVI secolo con figure buddhiste, una roccia sulla quale la leggenda vuole scorgere l’impronta della mano di Padmasambhava.[18] L’altro tempio sorgeva su un pianoro a sud-ovest del paese ed era attribuito dalle tradizioni del luogo a Rin Chen Bzang Po: ai tempi della visita di Tucci restavano alcune statue di stucco raffiguranti la sacra pentade dei Buddha supremi e una bella immagine in stucco di una divinità femminile probabilmente riconducibile alla Prajnaparamita, poi alcuni mandala notevoli connessi con il culto di Vairocana [19]. Queste opere, accuratamente documentate dalle fotografie del Ghersi, vanno attribuite ad una scuola identica a quella che decorò i templi di Tabo. Usciti dal tempio un sacerdote conduce Tucci e Ghersi a vedere un grosso macigno, dove si trovava un’antica impronta che la tradizione attribuisce al dio Purgyul: Ghersi per fotografarla la scavalca, commettendo involontariamente un sacrilegio, e per questa sua azione involontaria avrà qualche problema, ma tutto si risolverà in breve tempo.[20] Il 27 luglio la carovana riparte per Tashigang, attraversando il passo omonimo e arrivando nella valle dello Sutlej, lungo una strada pericolosa poiché soggetta a distacchi improvvisi di frane e macigni; il monastero di Tashigang è invece costruito sopra una roccia tra due vallette, al riparo dalle frane. Mentre Kalil porta la carovana al villaggio per piantare il campo, Tucci e Ghersi si recano al monastero per conoscere un famoso incarnato, forse la personalità religiosa più autorevole in tutto l’alto Kunavar. Egli stesso accompagna gli Italiani nella cappella centrale del tempio, dove si trovavano una serie di statue di scarso interesse, ma dove viene mostrato a Tucci un preziosissimo ruchièn, una veste cerimoniale di ossa umane finemente lavorate e scolpite con divinità dei cicli tantrici più esoterici. La veste è principalmente adoperata per la cerimonia del chod [21]; Tucci si offre di acquistarla ma l’incarnato non vuole saperne.
A Namgia (3000 metri) il 28 luglio la carovana allestisce il venticinquesimo campo, dove si conclude la prima parte della spedizione, che in un mese circa ha attraversato la valle del Chandra, lo Spiti, visitato tutti i monasteri e i templi, fotografandone gli interni, gli affreschi, le statue e le iscrizioni, raccogliendo importantissimo materiale per lo studio del Tibet, sia per la sua storia politica e religiosa che per aspetti ancora in parte sconosciuti del lamaismo. Il materiale raccolto nello Spiti venne riunito in casse ed inviato a Poo in deposito fino al ritorno della spedizione. Alla carovana venne aggregato Devichand, il lamberdar di Poo (il figlio della più alta autorità della contrada, lo zialdar), che insieme al lama di Kaze si mette all’opera per ottenere il permesso di visitare i principali tempietti privati del paese e cercare tra le vecchie raccolte di libri quelli più rari ed interessanti. Egli è buddhista, pur appartenendo ad una frangia della religione buddhista, come in genere avviene in questa zona, decisamente intrisa di hinduismo. Viene inoltre “arruolato” nella carovana l’amico di Devachan Denzin, profondo conoscitore del Tibet poiché aveva prestato per qualche tempo servizio come corriere postale. Viene dunque riorganizzata la spedizione, distribuiti i viveri e controllato il bagaglio, calcolando la durata della missione fino a circa il 20 novembre.
Denzin ha poi la poi la possibilità di visitare la casa e il tempio del signorotto del paese, ricco di belle statue e pitture, ma il prestigio della sua famiglia nel villaggio gli impedisce di vendere tutto ciò che vorrebbe acquistare il professore tuttavia, interessato a guadagnare un po’ di denaro, il lamberdar di Namgia si presenta di notte da Tucci con pacchi di libri da cedere, tra cui una copia del trattato tra il Tibet e i re del Ladakh.
L’orientalista incontra anche tre alpinisti inglesi diretti a Nako per tentare la prima salita al Leo-Purgyul. La notte del 2 agosto, arrivato il giorno prima per compiere cerimonie di esorcismo, si presenta l’incarnato di Tashigang, inviando un messo a Tucci con il ruchièn visto a Tashigang: alla fine, dopo contrattazioni varie, il prezioso e macabro oggetto passerà nelle mani dello studioso. Il 3 agosto la carovana si incammina preceduta come al solito da Tucci e Tenzin; a circa due miglia dal paese un piccolo torrente segnava il confine tra l’alto Bashahr e il Tibet, nonché il termine della Hindustan-Tibet trade-route, che si trovava sotto il controllo inglese. Dopo aver transitato per un pericolosissimo sentiero affacciato sul baratro, la carovana giunge al villaggio di Shipki, dove Tucci era già conosciuto perché nella spedizione del 1931 proprio in questo luogo si era ammalato ed era stato curato da un lama; la spedizione è dunque accolta calorosamente, il professore trascorre la notte in un tempio. Il giorno dopo arriva anche il resto della carovana con i cavalli che ha avuto grandi difficoltà nel percorso. Tucci rincontra anche il lama che lo aveva curato nel 1931: è un mongolo che vive in meditazione in un eremo sopra il villaggio. Dopo essere transitato per Kiuk, il 6 agosto Tucci giunge a Serkung, mentre il grosso della carovana parte per Tiak. A Serkung Tucci credeva si trovasse un tempio di Rin c’en bzan po, ricco di affreschi e statue, mentre non vi trova che una piccola cappella privata, contenente però oggetti religiosi antichi, nonché un piccolo tempio piuttosto moderno.
Il 7 agosto la parte di carovana condotta da Tucci riprende la strada lungo il Sutlej, dove un lungo muretto in pietra conduce ad un ciortèn di grandi dimensioni, sul quale campeggia l’iscrizione: “Omaggio al grande traduttore”, ovvero il famoso Rin c’en bzan po, che nacque non lontano da questa zona. Il sentiero si fa più difficile poiché si restringe e si inerpica su per macigni a picco sul fiume; i cavalli vengono scaricati e i bagagli portati in spalla. Dopo grandi rischi e fatiche verso sera si arriva a Tiak dove i due gruppi si ricongiungono. Di fronte a Tiak, nascosto in una valletta, sorge Radnis, patria di Rin c’en bzan po: il fiume in piena non permette però l’attraversamento. Comunque a Tiak vi era un tempio dedicato al grande traduttore che, pur versando in cattive condizioni, conservava tracce di indubbia antichità, come una serie di divinità in stucco inquadrata in una cornice di motivi ornamentali di tradizione indiana. La cella centrale era chiusa, ma Tucci riuscì comunque ad identificare una figura di Avalokiteshvara [22] a quattro braccia e altre immagini sacre, nonché una statua in bronzo di Padmasambhava con gli occhi in argento; la pianta del tempietto era a croce greca, riproducente cioè il diagramma del mandala; intorno al piccolo tempio si trovavano numerosi ciortèn con iscrizioni antiche. A Tiak inoltre la spedizione vede gli ultimi alberi: fino al ritorno non ne avrebbe incontrati altri.
Partendo da Tiak l’ 8 agosto la spedizione abbandona la valle dello Sutlej e punta a nord-est verso Miang, dove si accampa un’ultima volta prima di superare il passo dello Shirang. Lungo il percorso si trovavano sorgenti sacre poiché ritenute sedi di divinità. A Miang, circa tre mesi prima del passaggio della spedizione, era successa una grave disgrazia: una valanga sul passo Shirang aveva decimato gli uomini del villaggio, mentre cercavano di trarre in salvo una carovana di Tibetani bloccati nella tempesta: il paese era quindi ormai popolato solo da donne, vecchi e bambini e l’unico lama del villaggio viveva murato nella sua cella. La setta che domina il paese è quella aBrug pa: non ci sono templi, ma solo qualche cappella privata, e le rovine imponenti di un castello sulla montagna, chiamato Dorgèlin nella tradizione. Le pareti del castello erano costituite da pesanti blocchi di fango e sterpaglia, con un basamento in pietra. L’antichità e l’importanza del paese viene documentata da Tucci grazie al ritrovamento di alcuni oggetti preistorici tipo campanelle di bronzo, fibbie decorate, ecc. spesso indossati dai locali come talismani, (per farsi capire dagli abitanti del villaggio, e farsi portare gli oggetti, per poi eventualmente comprarglieli, Tucci era costretto a chiedere di “oggetti caduti dal cielo”, altrimenti essi non avrebbero capito). All’epoca della spedizione del 1933 l’archeologia preistorica in Tibet non era ancora incominciata. Tucci e Ghersi assistono in questo luogo al macabro ritrovamento di un corpo femminile sventrato e decapitato, e al funerale della donna celebrato otto giorni dopo la sua morte: nel Tibet questa era una normale forma di “seppellimento”, nel corso della quale il lama tagliava a pezzi il cadavere per facilitare l’opera degli animali e degli uccelli. Questa usanza era praticata in gran parte del Tibet specialmente dai nomadi, e all’epoca della spedizione era stata sostituita dal rito dell’incinerazione solo in qualche regione.[23]
La spedizione riparte da Miang per una strada ripida e difficile valicando il passo dello Shirang (4920 metri) e l’11 agosto giunge al villaggio di Nu sotto una furiosa grandinata. Tucci e Ghersi, insieme ad alcuni carovanieri, intraprendono ricerche archeologiche nelle rovine dei forti circostanti, che non danno grandi risultati, a parte qualche ritrovamento di ossa umane, vasellame in terracotta rozzamente decorato e alcune frecce di ferro. Sorgevano poi due tempietti, appartenenti alla setta dGe lugs pa, in cui l’orientalista trova affreschi del XVII secolo raffiguranti divinità e momenti della vita del Buddha. I due forti di Nu erano stati costruiti con tecnica diversa rispetto a quelli di Miang: non erano stati adoperati mattoni di fango, ma pietre e ciottoli di varia grandezza sovrapposti: erano probabilmente resti di un’ occupazione militare.
Il 13 agosto Tucci arriva a Gumphug, dove il resto della carovana si era già accampato nei pressi del tempio. A Gumphug (località non segnata sulle carte, nemmeno un vero e proprio villaggio) c’erano un paio di case, un tempietto e alcuni ciortèn molto antichi, dove lo studioso rinviene alcuni ts’a ts’a. Tutta la zona apparteneva ad una famiglia di lama della setta aBrug pa. Tucci andrà a far visita ad un vecchio lama della famiglia che mostrerà la cappella principale della famiglia, ricchissima di libri, statue di divinità e thanka.[24]. Inoltre visiterà un tempietto dove la famiglia di sacerdoti si ritirava per meditare: si trovava lungo uno strettissimo passaggio scavato nella roccia a strapiombo sul fiume, ed era per metà scavato nella pietra e per metà costruito con grossi mattoni di fango. All’interno c’erano statue di stucco colorate e numerosi thanka di pregio, ma ormai rovinati. In un angolo a fianco dell’altare vi era inoltre uno scaffale di libri polverosi e abbandonati: Tucci riuscirà ad acquistare alcune delle opere più rare, tra le quali alcuni testi liturgici della setta bonpo.[25]
Il 15 agosto la carovana raggiunge il pianoro di Dungbara (4600 metri), dove si svolgeva probabilmente il mercato all’aperto più alto del mondo e dove genti di tutti i tipi (mercanti, sacerdoti, razziatori di cavalli, nomadi selvaggi ecc.) si incontravano per contrattare su merci di vario genere, come lana, riso, uva secca, stoffe e oggetti vari. Il 16 agosto viene piantato il trentacinquesimo campo della spedizione nel villaggio di Luk, dopo aver valicato il Karum-la. Luk era ridotto ad un paesino di poche case, ma la sua importanza di un tempo era testimoniata dalle grandi rovine di case e monasteri; inoltre numerosissimi ciortèn molto antichi, alcuni di grandi dimensioni e intonacati di rosso. L’esplorazione delle rovine del castello non porta a nulla di notevole, invece la visita del monastero porta Tucci alla scoperta di bellissimi affreschi e di immensi thanka; il tempio apparteneva alla setta dei dGe lugs pa.
L’Hindustan-Tibet trad- route proseguiva da Luk per l’Op e quindi tagliava dritto fino a Shangtse; tuttavia la carovana non poteva seguire quella via perché l’Op in quel periodo era impetuoso e non aveva ponti: bisognava dunque seguire la strada battuta dai postini di Poo che andavano fino a Gartok che, pur essendo più lunga, aveva il vantaggio di passare per alcuni monasteri interessanti come quello di Rabgyeling e di Sumur.
Il 19 agosto la spedizione valica il difficilissimo passo di Sumur (4900 metri) e il 20 sosta tutto il giorno nel paese di Sumur, dove c’erano solo due piccoli gompà [26] in rovina, in uno dei quali vi erano manoscritti antichi di mistica e liturgia. Sumur non aveva più di sei o sette case, anche vista l’altitudine: la gente viveva solo di pastorizia. Il 21 agosto la carovana entra nella valle di Jangtang, in un paesaggio meno desolato rispetto a quelli attraversati negli ultimi giorni. Vi erano case trogloditiche abitate da pastori, rovine e lunghe file di ciortèn, contenenti ts’a ts’a antichissimi. In un tempio in rovina erano ancora visibili tracce dei rosoni circolari in mezzo a cui dovevano trovarsi statue di stucco, come a Tabo, e sulle pareti i frammenti delle grosse travi che le sorreggevano. Il giorno successivo la carovana giunge al monastero di Rabgyeling, dove si accampa: esso era solo un monastero, anche se sembrava una fortezza, e non vi erano case attorno. Tucci viene invitato a prendere il tè con il capo del monastero e gli è concesso di visitare approfonditamente il luogo. Restavano tre templi: uno in basso, piuttosto moderno, ma contenente una raccolta di belle statue antiche e alcuni libri interessanti. Il gTsug lag k’an era invece il tempio più grande e antico, in discreto stato di conservazione: le pareti erano affrescate con pitture del diciassettesimo secolo, con rappresentazioni di divinità; inoltre vi erano moltissime statue e thanka. Il terzo tempietto, molto antico, era letteralmente stipato di statue di ogni dimensione, molte delle quali di pregio e portate dalla Mongolia e dalla Cina, nonché di libri, oggetti sacri e pitture; il tempio era probabilmente dedicato a divinità tantriche e riservato ai riti di iniziazione.
Il 24 agosto con una marcia rapida viene raggiunto Raksa (4500 metri), dove sorgevano rovine di un castello, ciortèn e abitazioni trogloditiche. In generale in questa zona la carovana attraversa sempre luoghi semi-abbandonati e rovine, indice dello spopolamento del paese. La spedizione prosegue fino al villaggio di Kyinipuk, dove Tucci scopre diverse abitazioni trogloditiche scavate nel tufo, tra cui una caverna dove l’orientalista trova migliaia di ts’a ts’a, alcuni dei quali del decimo secolo. In un’altra caverna era depositata un’intera biblioteca, con migliaia di fogli manoscritti, di argomento religioso. La marcia prosegue attraverso vallate un tempo popolate ora quasi disabitate, costellate di rovine, grotte e ciortèn, fino ad arrivare e accamparsi il 26 agosto a Shangtze, capitale estiva della prefettura di Tsaparang, alle pendici della catena del Ladakh. Un castello di proporzioni immense sorgeva sopra il colle sull’altra riva del fiume, riconosciuto dalla tradizione come castello reale di Guge. Tucci viene ricevuto in visita dallo zonpòn (prefetto) e sua moglie. Lo studioso ottiene poi il permesso di visitare il tempio, che versava in stato di abbandono; le pareti erano coperte di affreschi del sedicesimo secolo, tra cui gigantesche figure degli otto dei della medicina, appartenenti al periodo di massima fioritura dell’arte di Guge, che rappresenta a sua volta il punto di arrivo di una lunga tradizione artistica le cui origini risalgono a maestranze dell’India, chiamate dai primi re del Tibet occidentale. Sugli altari erano poste statue di tutte le forme e dimensioni e nella cella centrale era dipinta un’enorme figura di Vairocana, simbolo della coscienza cosmica e del vuoto oltre il fluire del mondo fenomenico. Si riparte il 29 agosto per Shang, villaggio di poche case, con resti di due castelli e due templi sconsacrati, con poche pitture di pregio ma devastate dal tempo, manoscritti gettati alla rinfusa, frammenti di libri lasciati nell’incuria e thanka.
Il 31 agosto comincia l’ascesa al Laoche-La attraverso estese praterie popolate da grandi branchi di asini selvatici. In un valico a 4900 metri viene mostrata a Tucci una pietra venerata dai Tibetani, in cui compare un sigillo da loro attribuito a Padmasambhava. Il 1° settembre viene raggiunto il Laoche-la dove la carovana valica il passo a 5500 metri e la spedizione si accampa a 5200 metri sotto una fitta nevicata. Nei giorni successivi continua la marcia ad alta quota sul versante orientale della catena del Ladakh, verso la capitale del Tibet occidentale, giungendo nel pianoro di Gartok, un’immensa pianura tra i 4700 e i 4500 metri, al limite orientale raggiunto da questa spedizione del 1933. Qui scorre il fiume Gartang, affluente dell’Indo, che separa la catena del Ladakh da quella del Kailash. Gartok, pur essendo la capitale, non consta che di due case, qualche capanna per i servitori e alcune tende di lana appartenenti a mercanti. Gartok è la capitale estiva, mentre quella invernale è Gargunsa. Questi due nomi derivano dal termine garpòn, ovvero ufficiali di alto rango inviati da Lhasa, che restavano in carica per tre anni. Anticamente, come riferisce anche Ippolito Desideri, Gartok era sede di una guarnigione militare, fatto dovuto alla vicinanza del regno del Ladakh e alle scorribande di predoni tartari. Al tempo della spedizione di Tucci la guarnigione non esisteva più.
L’orientalista viene invitato a prendere il tè dal garpòn e gli viene fatto dono di un importante libro-guida del pellegrinaggio del Kailasa e del Manosarovar [27] , ricco di interessanti informazioni storiche e geografiche. Una grande fiera si svolgeva a Gartok il 25 settembre, e già erano arrivate alcune carovane di mercanti, che vendevano merci di ogni tipo. Tucci riesce a stringere amicizia con un lama proveniente da Kham e diretto a Gargunsa per ritirarsi in meditazione, il monaco, comprendendo l’immensa conoscenza del professore della religione e mistica tibetana, gli proporrà addirittura di diventare suo discepolo sotto la sua guida spirituale per dodici anni, a meditare in qualche grotta del Tibet.
L’asceta riprenderà poi da solo la sua strada, mentre Tucci riorganizzerà la carovana per prendere la via del ritorno. Dal 9 al 13 di settembre sono giorni di sosta forzata a Gartok: bisognava organizzare nuovamente la carovana, informarsi sulle strade da percorrere e attendere il ritorno di due uomini mandati da Tucci da Namgia a Rampur per ritirare del denaro, che stava per finire. La spedizione riparte il 14 settembre riattraversando la pianura e, guadando le numerose ramificazioni del Gartang, prosegue la marcia lungo una valle selvaggia e triste popolata da lupi. A più di 5000 metri di quota, valica il Bogo-la (5900 metri) con un percorso difficile sulla neve, ma in uno scenario di grande bellezza, e discende a 4800 metri dove, sotto una nevicata, si accampa il 16 settembre. Il 18 settembre la carovana giunge a Toling, dopo essere transitata il giorno precedente per il piccolo villaggio di Dongbo. Lungo la strada per Toling Tucci ha modo di visitare un luogo chiamato Drinsa, completamente disabitato e antichissimo: sono rovine di un tempio dalla pianta simile a quelli di Guge e ciortèn che contenevano gli ts’a ts’a più antichi ritrovati dalla spedizione.
A Toling il lama di Kaze e il lamberdar di Poo vengono mandati al monastero con una lettera di presentazione del prefetto di Tsaparang e una cospicua offerta monetaria. Dopo un lungo colloquio con le autorità religiose del monastero viene concesso a Tucci di visitarlo e di poter scattare delle fotografie, cosa piuttosto insolita poiché il governo di Lhasa ne aveva proibito la visita a tutti gli stranieri. Toling è praticamente solo il monastero, tutto il resto era in rovina: non vi era altro poi che qualche casupola di mota e alcune grotte scavate nelle pareti di rupi argillose, in cui vivevano i servitori laici del monastero e dei suoi dignitari; un tempo però dovevano sorgere in quella sede molte altre costruzioni, come abitazioni private e castelli reali. Secondo l’Andrade, che visitò Toling nel 1624, qui risiedeva la madre del re di Guge. Il monastero era circondato da mura, all’interno numerosi ciortèn, cappelle, templi colorati rosso scarlatto, e un santuario centrale sormontato da una cupola dorata. Fuori dalla cinta muraria, ai quattro angoli, sorgevano quattro grandi labàb ciortèn, cioè ciortèn che sui lati hanno delle scale che stanno a ricordare, secondo la tradizione indo-tibetana, l’ascesa del Buddha al paradiso tushita, quando andò a predicare la sua dottrina alla madre ascesa al paradiso dopo la morte. Secondo quanto riferito a Tucci dai monaci, nel ciortèn sull’angolo di nord-ovest sarebbero conservate le reliquie di Rin c’en bzan po. Intorno al tempio vi erano poi innumerevoli ciortèn di tutte le dimensioni, isolati oppure a file di 108.
Il 20 settembre Tucci viene ricevuto dal khampo del monastero, il quale, rendendosi conto della profonda erudizione dell’orientalista e del suo interesse verso la religione del Tibet, stringerà amicizia con lui. Tucci, in compagnia del lama di Kaze, sale poi ad esplorare le rovine sulle montagne circostanti: antiche cappelle collegate da corridoi mezzo franati con all’interno i resti di magnifici affreschi e statue di stucco colorato di finissima fattura. Prevalgono le rappresentazioni di divinità nel loro aspetto terrifico e quelle di deità infernali. In mezzo a ruderi di un altro tempio lo studioso molti manoscritti, frammenti di statue di carta pesta e di stucco e parecchi ts’a ts’a. In una grotta sottostante, di difficile accesso, viene scoperta una biblioteca intera con anche finissime opere miniate (alcune delle quali realizzate probabilmente da maestranze indiane) e frammenti di statue in legno e stucco e pezzi di cornici di rame dorato.
Il giorno successivo Tucci visita e documenta in maniera esaustiva l’importante monastero di Toling guidato da un lama colto e preparato. Ai tempi dell’Andrade vivevano in questo monastero cinquecento monaci, nel 1933 non erano che una trentina. La pianta del tempio è a croce, come fosse un mandala. All’interno del tempio era riprodotto il ciclo tantrico del Vajradhatumandala, con la statua di Vairocana al centro, Akshobya a est, Ratnasambhava a sud e di seguito Amithaba e Amoghasidhi. Molteplici affreschi di grande qualità erano presenti nelle cappelle che formavano i vari bracci della croce e illustravano tutto il pantheon mahayanico. Il nome sotto cui è conosciuto il tempio è Ye shes ‘od (che era un celebre re di Guge che invitò in Tibet Atisha, e fu il patrono di Rin c’en bzan po); secondo la tradizione Rin c’en bzan po era solito abitare nella cappella di Ratnasambhava. Questo tempio era sempre stato celebre nella cultura tibetana, poiché in esso molte opere buddhiste vennero tradotte in tibetano dagli originali dell’India, e dunque fu questo un importante polo di irraggiamento della dottrina buddhista nel Paese delle Nevi. Dopo aver visitato e fotografato il tempio di Ye shes ‘od Tucci passa all’esplorazione delle venti cappelle che lo circondano: anch’esse molto antiche, anche se in alcuni casi portavano segni di restauri e ritocchi. Erano coperte di affreschi e stucchi e letteralmente stipate da ogni genere di statua: i cicli che predominavano erano quelli di Vairocana, Aksobhya, Vajrapani, Samara e gli dei della medicina.
Il tempio Tonghiùd lacàn era sconsacrato: sullo sfondo vi era una grande figura di Shakyamuni, sulle due pareti Avalokitesvara e Tara; inoltre diversi affreschi raffiguranti i Buddha dell’evo attuale. Sempre abbandonato risultava un altro grande tempio, chiamato Lacàn carpo (il tempio bianco), con il soffitto lavorato e colonne di legno: la fattura piuttosto barbarica dell’ingresso tradiva un’origine indiana, con rappresentazioni del vimana[28], due gazzelle e in mezzo una ruota [29]. Le pareti erano interamente ricoperte da splendidi affreschi, del XV e XVI secolo, raffiguranti varie divinità e scene con cimiteri, belve divoratrici di cadaveri e asceti in meditazione.[30] Sul lato opposto si trovava il duncàn, la “sala delle adunanze”, con al centro una gigantesca figura di Buddha in bronzo dorato con Amitayuh e Maitreya ai due lati; le pitture erano qui molto rovinate. Il tempio era adoperato come luogo di ritrovo dei monaci per le cerimonie rituali giornaliere: infatti si trovavano qui vari utensili cerimoniali in argento.
Vi era poi il tempio dei sedici arhat [31], che prendeva il nome dalle sedici statue di stucco dei protettori della legge conTenute nel sacrario. Le statue erano di qualità inferiore rispetto a quelle del tempio di Ye shes ‘od. Sulle pareti vi erano raffigurazioni di Buddha. Molto importanti erano poi alcuni pannelli, anche se rovinati dalle infiltrazioni d’acqua, poiché raffiguravano scene della storia del Tibet e le varie fasi della diffusione del buddismo in queste terre.
Tucci venne quindi ammesso nel tempio più sacro di tutto il complesso di Toling, il sercàn, ma stato visitato prima da uno straniero. Esso era il sancta sanctorum di tutto il monastero: vi si accedeva attraverso un vestibolo e una porta istoriata da immagini sacre, di provenienza indiana. Il sercàn era fatto da tre piani che vanno rastremandosi, come si trattasse di un tronco di piramide: nello stile riecheggiava modelli indiani come il tempio a tre terrazze di Odantapuri, al quale diversi architetti tibetani si ispirarono. Si accedeva dal primo al secondo piano e da qui al terzo attraverso scalette esterne che immettevano in ambienti angusti dai pilastri e cornici di legno scolpito; le pareti di ogni cella erano coperti da bellissimi affreschi di finissima esecuzione. Erano qui riprodotti vari mandala, che riproducevano diagrammi della mistica buddista e delle scuole tantriche più esoteriche, con tra gli altri i cicli di Vairocana, Guhyasamaja, Samara e Kalachakra.. Tutta questa immensa mole di materiale artistico venne ampiamente fotografata da Tucci e Ghersi: Toling era infatti uno dei più antichi e celebri monasteri dell’intero Tibet. La spedizione riparte il 22 settembre percorrendo la strada tra Toling e Tsaparang, che era al tempo dei re di Guge, secondo la tradizione locale, una città di 3000 famiglie, anche se tale cifra sembra piuttosto esagerata. Nel 1933 la città era disabitata e in rovina, pur se molto vasta. Un tempo Tsaparang era la capitale ed un emporio commerciale di grande importanza, con costanti rapporti di traffico con Garwhal. Tutte le province confinanti si rifornivano di merci a Tsaparang: doveva essere una città ricca e attiva nei commerci.
Tutta la giornata del 23 settembre è dedicata da Tucci all’esplorazione delle rovine e dei templi che restavano in un’atmosfera di triste desolazione e abbandono. Le antiche cappelle reali, pur istoriate di superbe pitture murali, erano sconsacrate e a volte pericolanti. La visita di Tucci comincia dal tempio che sorgeva in pianura, chiamato lotàn gompà: esso presentava la pianta caratteristica delle cappelle costruite durante la prima dinastia di Guge, con atrio e nicchia. Era ancora frequentato da monaci di Toling, ma era gravemente degradato, con molte pitture rovinate dall’acqua. Nella nicchia vi era una grande statua di Vairocana, sulle pareti a destra e sinistra due mandala inoltre vi erano raffigurazioni della vita di Buddha. Sopra la porta era effigiata la dea Kargyal [32] a cavallo di una capra. Dall’altra parte di un torrente vi era un altro gompà chiamato Lacàn car po (il tempio bianco), anch’esso minacciato dalle infiltrazioni d’acqua e con gli affreschi rovinati. Vi era un immenso Buddha di bronzo dorato e molte statuette di maestri buddhisti e Buddha poggiate su piccole mensole o cadute a terra. Le pareti erano affrescate con pitture così raffinate che parevano miniature, un po’ come nel sercàn di Toling. Il ciclo riprodotto in questo tempio è quello del vajiradhatumandala, con i cinque simboli dell’emanazione cosmica e le divinità del pantheon mahayanico. I margini a destra della nicchia centrale erano invece istoriati con la genealogia dei re di Guge, anche se le didascalie erano così in alto che Tucci non riuscì a leggerle o fotografarle. In un fregio erano anche raffigurate scene della fondazione del tempio, con feste e cerimonie. Più in alto di questo tempio ce n’era un altro chiamato il Lacàn marpò (ovvero il tempio rosso). Nella nicchia centrale vi erano due gigantesche statue di Buddha una dietro all’altra, con intorno gli otto dei della medicina inquadrati in cornici decorate; come nell’altro sacrario vi erano anche qui rappresentazioni dipinte della fondazione del tempio, con anche scene di carovane che portavano le travi a Tsaparang per costruire gli edifici sacri. Il soffitto era dipinto a lunghe fasce parallele con motivi floreali e geometrici e una serie di mandala. Accanto a questo tempio ve n’era un altro di dimensione più ridotte, dove Tucci ebbe qualche difficoltà a farsi accompagnare. In esso vi era una gigantesca statua di Maitreya [33] di bronzo dorato, con di fronte Gigcèd (Bhairava), rappresentato con cinque teste di cui quella centrale di bufalo: nonostante l’aspetto spaventoso è un dio benefico e misericordioso. Sulle pareti vi erano affreschi antichi di divinità tantriche, poi molte statue in bronzo dorato di finissima esecuzione.
Sopra ancora sorgeva il tempio del trutòb (ovvero dell’uomo perfetto): non aveva porta, era sconsacrato e pericolante. Sulla parete centrale stava una raffigurazione di Gigcèd con intorno affreschi tantrici con divinità dall’aspetto terrificante. Molte di queste fantastiche pitture erano accompagnate da preziose didascalie. In cima alla montagna restavano le macerie del castello reale smantellato e i resti del tempietto di Demcog (Samvara), in cui era venerato lo yi-dam o spirito tutelare del paese. Vi erano pitture sulle pareti di superba qualità che illustravano il ciclo di Samara e del Guhyasamaja. In questo tempio, ai tempi degli antichi re di Guge si svolgevano i battesimi iniziatici. Il 25 settembre la spedizione riparte e arriva a Toshang, dove sorgevano due case, due templi, un castello e una fila di ciortèn, il tutto in stato di abbandono. La carovana prosegue nei giorni successivi per Puling, il fiume Op e Rildigang, un piccolo villaggio in mezzo ai campi dove sorgeva un tempietto con una cappella molto antica contenente affreschi e una notevole statua in avorio di Avalokiteshvara. Il 29 settembre si continua per Ri valicando un passo a quasi 5000 metri di quota da dovve si possono vedere svettare le cime ghiacciate del Purgyul. Ri era un grosso villaggio molto antico adagiato sui campi. Vi era un monastero, che comprendeva diversi templi e cappelle in cui vivevano alcuni monaci alla dipendenza di Toling. Tucci, lasciando offerte e mance, può visitare i templi e le cappelle private. Il tempio più grande, in completo disfacimento, era attribuito a Rin c’en bzan po, e restavano alcune statue in stucco con divinità assise su fiori di loto poggiato su un trono, tra cui quella di Vairocana. La carovana prosegue verso Sud, verso il monastero di Chusu, costruito su un gigantesco sperone che scende sul fiume Sarang: anche questo semi-distrutto e abbandonato, con due tempietti: in quello basso moltissimi libri e manoscritti gettati alla rinfusa, statuine e thanka sparse per terra; l’altro tempietto sembrava piuttosto una cappella di qualche lama, ed era situato in alto su di una terrazza: conteneva alcune statue e thanka.
Il 1º ottobre Tucci è ricevuto dal rupòn [34] di Sarang che, dietro una mancia, mostra all’orientalista alcuni preziosi documenti storici del Tibet, senza però permettergli di fotografarli. Il viaggio prosegue attraverso il ponte Tinzam sullo Sutlej, poi lungo un sentiero estremamente scosceso sotto lo Sharing-la, che viene valicato il 3 ottobre, seguendo successivamente la strada carovaniera percorsa all’andata, transitando dunque per Tiak, Shipki, Namgia per giungere il 7 ottobre a Dabling, dove Tucci va a far visita ad una vecchia conoscenza: l’ultimo discendente di una antica stirpe di lama che possedeva una vasta biblioteca di testi buddhisti, tra cui opere mistiche e iniziatiche sulle pratiche ascetiche dei saggi tibetani. Dal 9 al 12 ottobre viene percorsa la strada da Dabling a Poo e il 13 ottobre la carovana giunge a Kanam, luogo celebre poiché in uno dei suoi gompà visse per qualche tempo il grande pioniere della tibetologia Csoma de Körös. Qui Tucci trova ancora le opere del canone buddhista sulle quali egli lavorò per scrivere la sua analisi. Più in alto si trovava un gampò attribuito dalla tradizione a Rin c’en bzan po, ma che, essendo stato pesantemente ricostruito, non conservava del tempio antico che la pianta. A Kana, durante la sosta della carovana, Tucci assiste inoltre ad una lunga danza rituale e cerimonia cantata per celebrare la nascita di un figlio maschio nel villaggio. Dal 14 al 16 ottobre la spedizione passa per Jangi e Pangi fino a Chini, dove già comincia a sentirsi la vicinanza con l’India e il territorio è montagnoso, ma coperto di foreste: fino a quel punto arrivavano le propaggini del buddismo lamaistico e viveva ancora il ricordo di Rin c’en bzan po; oltre cominciava un buddhismo compenetrato di induismo.
Dal 18 ottobre al 2 novembre la carovana continuava la propria marcia sino a Simla, dove ha termine la fondamentale e affascinante spedizione di Tucci nel Tibet Occidentale del 1933, in una delle zone più misteriose e sconosciute dell’Asia.
Note:
[1] G. Tucci Nuvoloni, «Dal Kashmir al Ladak (Viaggio di due studiosi italiani)», Nuova Antologia, vol. 278, serie VII, agosto 1930, pp. 381-396, 525-537; settembre 1930, pp. 118-131, 249-263; ottobre 1930, pp. 516-529; G. Tucci, «La spedizione scientifica Tucci nell’India, nel Nepal e nel Tibet», L’Illustrazione Italiana, LVIII, 40, 1931, pp. 508-509.
[2] Gli ts’a ts’a sono delle tavolette votive, delle tipologie di figure coniche o delle formelle di argilla impastata con acqua e talvolta con le ceneri di lama o personaggi santificati, talvolta appiattite, solitamente ricoperte da uno strato di calce che ha la funzione di preservarle.
[3] In seguito alla spedizione del 1931 Tucci fu in grado di completare le informazioni precedentemente raccolte e produrre così i primi due volumi di Indo-Tibetica, forse la sua opera più famosa, costituita quattro volumi divisi in sette tomi, tradotta anche in inglese. Il primo volume porta come sottotitolo Contributo allo studio dell’arte religiosa tibetana e del suo significato ed è esplicativo delle motivazioni che avevano spinto lo studioso ad organizzare queste prime spedizioni.
[4] Eugenio Ghersi nacque a Oneglia il 14 luglio 1904. Nel 1931, in qualità di medico della Marina Militare, fu inviato a prestare servizio per un anno sulla cannoniera Carlotto, che pattugliava il corso del Fiume Azzurro da Shanghai alle gole di Yichang, e a questa esperienza risale il suo primo approccio con l’Asia. Ghersi e Tucci si incontrarono nel 1933, per tramite di un cugino del professore che era ufficiale sulla stessa nave di Ghersi. Il medico, durante le spedizioni di Tucci, ebbe anche il ruolo di disegnatore degli schizzi cartografici dell’itinerario. Nel periodo 1933 – 1935 collaborò assiduamente con Tucci anche mettendo ordine nella documentazione raccolta. Dopo essersi sposato nel 1936, Ghersi lavorò come medico a Jeddah per due anni. Tra il 1939 e il 1940 partecipò ad una crociera militare attorno al mondo. Fu nominato Capo della Sezione fotografica del Centro di documentazione storica per le operazioni navali della Marina Militare nel giugno del 1940. Fece carriera e nel 1967 fu promosso Ammiraglio ispettore e diresse l’ospedale militare di La Spezia fino a quando non andò in pensione. Morì a La Spezia il 13 ottobre 1997.
[5] Per approfondimenti maggiori sul ruolo di Ghersi nelle missioni di Tucci cfr. Rossi Luisa e Gemignani Carlo A, 2009, Geografia e fotografia di montagna: Eugenio Ghersi nelle spedzizioni di Giuseppe Tucci, in “La Dimora delle nevi” e le carte ritrovate, Filippo de Filippi e le spedizioni scientifiche italiane in Asia centrale (1909 e 1913-14), Atti del Convegno Firenze 13 – 14 marzo 2008 a cura di Laura Cassi, in Memorie Geografiche, nuova serie n. 8 anno 2009, pubblicate come supplemento alla rivista Geografica Italiana, pp. 205 – 232.
[6] Gesar di Ling: famoso eroe dell’epica tibetana. La storia di re Gesar di Ling costituisce il poema epico più importante del Tibet. Gli studiosi tibetani pensano che il personaggio di Gesar di Ling si riferisca ad un re vissuto intorno al decimo secolo. E’ menzionato nelle cronache familiari della dinastia rLangs che governò gran parte del Tibet nel quattordicesimo e quindicesimo secolo.
[7] Giuseppe Tucci, nel corso delle sue spedizioni, era perennemente alla ricerca di testi e manoscritti, soprattutto mistici e religiosi, dato che era in particolar modo interessato alle religioni del Tibet, di cui era profondo conoscitore. Egli riteneva tra l’altro possibile ritrovare nelle biblioteche dei più sperduti monasteri tibetani opere buddhiste di cui in India si era persa traccia: innumerevoli furono le opere letterarie ed artistiche da lui acquistate da monaci accomodanti e portate in Italia. A volte si rimane un po’ interdetti, leggendo i diari delle spedizioni di Tucci, nell’apprendere la quantità di opere di ogni genere portate via da templi e monasteri, d’altronde molto spesso queste stesse opere giacevano in contesti di degrado e abbandono, sovente a causa dell’ignoranza degli stessi monaci, e sarebbero probabilmente andate perdute per sempre se il professore non avesse compiuto questo spoglio sistematico.
[8] Pitture religiose su tela.
[9] Dge lugs pa: setta gialla. Setta buddhista dei riformati fondata da Tson k’a pa nel XIV secolo. sono il lignaggio più diffuso e più potente del Tibet. A Lhasa nel Potala ha sede il Dalai Lama, ritenuto dai Gelugpa un Tülku, emanazione, del Bodhisattva Chenresig; mentre nel monastero Gelugpa di Tashilunpo a Shigatse, ha sede il Panchen Lama, Tülku del Buddha Amithaba.
[10] La spedizione raccoglieva infatti un erbario medico completo delle regioni attraversate, annotando ogni volta il nome locale della pianta. Venivano inoltre raccolte opere mediche, dato che la letteratura medica tibetana, pur derivata per la maggior parte dall’India e in misura minore dalla Cina, ha conosciuto un’elaborazione locale con connotati originali.
[11] Il nono è una specie di figura reale del paese.
[12] L’incarnato è un bodhisattva, cioè un individuo che ha già raggiunto la massima perfezione, ma sceglie di rinunciare al nirvana per restare nel mondo e per salvare e aiutare gli esseri. Il suo principio cosciente trapassa così di corpo in corpo, egli è un Buddha in potenza.
[13] Essi derivano il proprio nome dal Saskya Pan c’en, che ricevette per primo l’investitura del Tibet dalla dinastia mongola e operò una prima riforma del lamaismo.
[14] Setta religiosa dedita a pratiche ascetiche.
[15] Rinchen Zangpo (rin chen bzang po, 958-1055) fu un prolifico traduttore all’inizio del periodo di diffusione del buddhismo in Tibet. Nato nella regione di Ngari (mnga’ ris), nel Tibet occidentale, fu ordinato monaco all’età di 13 anni. Intraprese diversi viaggi nel Kashmir per studiare la dottrina buddhista e le lingue dell’India, godendo della protezione di Lha Lama Yeshé Ö (lha bla ma ye shes ’od),il re di Ngari. Quando Atisha (Atiśa Dipankara Shrijnana) arrivò in Tibet, Rinchen Zangpo (che aveva 85 anni)lo conobbe e studiò con lui. Durante la sua vita, Rinchen Zangpo fece anche erigere monumenti ed edifici religiosi nel Tibet occidentale, alcuni dei quali esistono ancora.
[16] Mandala, termine di origine sanscrita, significa letteralmente: «essenza» (manda) + «possedere» o «contenere» (la); si può tradurre anche come «cerchio-circonferenza» o «ciclo», (entrambi i significati derivanti dal termine tibetano dkyil khor) è un termine simbolico associato alla cultura veda ed in particolar modo alla raccolta di inni o libri chiamata Rig Veda. La parola è anche utilizzata per indicare un diagramma circolare costituito, di base, dall’associazione di diverse figure geometriche, le più usate delle quali sono il punto, il triangolo, il cerchio ed il quadrato. Il disegno riveste un significato spirituale e rituale sia nel Buddhismo che nell’Hinduismo. Il Mandala rappresenta, secondo i Buddhisti, il processo mediante il quale il cosmo si è formato dal suo centro; attraverso un articolato simbolismo consente una sorta di viaggio iniziatico che permette di crescere interiormente.
[17] I ciorten sono torrette, alte da 2 a 15 metri circa, caratteristici del Tibet; possono essere antichi o nuovi. La parola chorten in tibetano significa “ricettacolo per le offerte”, traduzione dal sancito dhatugarbha (che divenne poi dagaba, da cui deriva il nostro termine pagoda). Essi possono contenere reliquie, ma più che tombe o reliquari, sono cenotafi per ricordare un evento, una persona, insomma una specie di ex voto. Il tibetano che, viaggiando, passa vicino ad una di queste costruzioni (vanno sempre sorpassate tenendosi alla loro sinistra), considera gli ciorten come un simbolo della religione stessa. In essi possono essere presenti ossa di lama venerati, ceneri, immagini sacre o libri. Anche la loro forma ha un preciso significato simbolico, poiché sta a rappresentare diversi momenti dell’ascesi spirituale buddhistica e della dottrina.
[18] Padmasambhava (detto anche Padmakara e Padma Raja, tibetano: Padma rgyal-po ‘Re del loto’) (Cinese: 蓮華生上師; Tibetano: Pema Jungnay – Padma ‘byun-gnas), in Sanscrito significa ‘Nato dal Loto’. In Tibet è noto come il ‘Prezioso Maestro’ Guru Rinpoche ed è venerato dalla scuola Nyingmapa come secondo Buddha. Viene considerato il primo e più importante diffusore del Buddhismo in Tibet, particolarmente del Vajrayana e il fondatore del Buddhismo tibetano. Il suo culto è diffuso anche in Bhutan e in Sikkim. Con Padmasambhava varie divinità del pantheon tibetano furono trasformate in divinità tutelari del buddhismo, i Dharmapala, in particolare le forme irate (Krodha), come la Shri Devi Lhamo. Ma è probabile che egli fosse anche responsabile dell’importazione di figure già presenti nel culto tantrico della sua regione natale, l’Uddiyana, come Kurukulle. A Padmasambhava si fa anche risalire la pratica, specifica del Buddhismo tibetano e non presente nel Buddhismo Vajrayana indiano, di sotterrare in luoghi remoti (grotte, montagne, ghiacciai) dei tesori religiosi, detti terma (gter-ma): testi tantrici che sarebbero poi stati scoperti secoli dopo dai terton, gli ‘scopritori di tesori’. In questo modo gli insegnamenti più segreti si sarebbero rivelati al momento opportuno e alle persone giuste. Direttamente agli insegnamenti di Padmasambhava si rifà la scuola Nyingmapa (rÑin-ma-pa), la più antica delle scuole tibetane (ma diffusa anche nel Sikkim, Bhutan e Yunnan), spesso erroneamente citata dagli occidentali col nome di ‘Berretti Rossi’. Tipicamente Ningmapa è l’importanza dei Mantra, l’esorcismo, la divinazione e le guarigioni magiche.
[19] Vairocana (chiamato anche Vairochana o Mahāvairocana; in tibetano རྣམ་པར་སྣང་མཛད།, rNam-par-snang mdzad, è un Buddha che rappresenta l’incarnazione del Dharmakaya, e dunque può essere visto come la rappresentazione universale del Gautama Buddha storico. Nel buddhismo sino-giapponese, Vairocana può anche rappresentare l’incarnazione del concetto di vacuità (śunyātā). Vairocana è una figura centrale nella filosofia dei Cinque Buddha del Buddhismo Vajrayana. La sua consorte è Tārā Bianca.
[20] Per un resoconto completo delle disavventure di Ghersi a Nako cfr. Tucci G., Dei demoni e oracoli, Neri Pozza, 2006.
[21] Il chod è un rituale che prevede il ritiro dell’iniziato in un luogo dove si espongono i cadaveri e che si suppone infestato dagli spiriti, armato di un pugnale magico, di un flauto ricavato da una tibia umana, del kapala (teschio che finge da coppa) e del damaru (un piccolo tamburo rituale). Egli, in quel luogo spaventoso (soprattutto terrificante per un tibetano) dovrà invocare gli spiriti e i demoni della tradizione offrendosi in olocausto; egli dovrà vincere le paure e realizzare lo shunya, cioè il “vuoto”. Per un approfondimento sul rituale del chod cfr. David-Neel Alexandra, Mistici e maghi del Tibet, Astrolabio, 1965.
[22] Avalokiteshvara è un bodhisattva che rappresenta la compassione di tutti i Buddha. E’ uno dei bodhisattva più venerati nel buddismo mahayana, ed è spesso raffigurato nella forma femminile di Guan Yin. In Tibetano, Avalokiteshvara è conosciuto sotto il nome di Chenrezig, སྤྱན་རས་གཟིགས་ , di cui il Dalai Lama è la reincarnazione. Avalokiteshvara è una divinità importante nel buddhismo tibetano, ed è considerato, per la scuola tantrica Vajirayana, come un Buddha. Nella scuola buddhista Mahayana (Grande Veicolo) è considerato un bodhisattva di alto livello. Il Dalai Lama è considerato dalla scuola GelugPa e da altre come la manifestazione terrestre di Cherenzig.
[23] Da notare la quasi assoluta mancanza di legname in gran parte del Tibet.
[24] Thangka: pitture religiose su stoffa, solitamente raffiguranti divinità, scene della vita di Buddha o mandala, spesso usati come supporto per la meditazione.
[25] Il Bön (tibetano: བོན་) è un’antica religione del Tibet e del Nepal, diffusa anche in alcune aree dell’India, del Bhutan e nelle province cinesi del Sichuan, del Gansu e dello Yunnan. E’ solitamente considerata una religione legata allo sciamanesimo e all’animismo; il suo fondatore è considerato Tönpa Shenrab Miwoche. Il Bön distingue tre fasi del proprio sviluppo: una orale, di “bon manifesto”, in cui sarebbe stata prevalente la prassi dell’estasi oracolare e dei sacrifici, forse anche umani. Nella fase successiva, di “bon differente”, si officiavano soprattutto culti funerari regali. Infine i testi sacri del bon riconoscono una terza fase di “bon trasformato”, in cui si ammette l’influsso del pensiero buddhista. Quest’ultima è l’unica fase storicamente accertabile del Bön nella forma attuale e risale all’epoca dell’introduzione del buddhismo in Tibet (VII-VIII sec) Il Bön ha raggiunto la sua massima diffusione nell’area himalayana e subhimalaiana nel VII secolo dopo Cristo. Dopo la diffusione del buddhismo in Asia, si è mescolato con quest’ultimo e oggi sopravvive in una serie di rituali e di usanze considerate compatibili con il buddhismo stesso. Bönpo è un termine che designa un seguace della religione Bön
[26] Il Gompa è un tempio buddhista simile ai monasteri o alle abbazie. I gompa si trovano prevalentemente in Tibet, Ladakh, Nepal e Bhutan. Gli interni variano da regione a regione, seguendo comunque un unico schema: una sala centrale per la preghiera con una statua di Buddha, panchine per i monaci per la meditazione e le camere per dormire e mangiare
[27] Il monte Kailash (Kailāśā Parvata) è una montagna appartenente alla catena dei monti Gangdisê che fanno parte dell’Himalaya nel Tibet. Da qui traggono fonte alcuni dei fiumi più lunghi dell’Asia: l’Indo, il Sutlej (un importante affluente del fiume Indo), ilBrahmaputra, e il Karnali (un affluente del fiume Gange). La montagna è considerata un luogo sacro da quattro religioni: Induismo, Buddhismo, Giainismo e Bön. Nella religione indù, è considerata la residenza di Shiva. La montagna si trova nei pressi del lago Manasarovar e del lago Rakshastal sempre in Tibet. Non sono stati registrati tentativi di scalare il Monte Kailash, poiché il luogo sacro non è considerato scalabile in ossequio alle credenze buddiste e indù. È il più significativo picco nel mondo che non ha registrato alcun tentativo di arrampicata noto. Il lago Manasarovar si trova a 4556 metri di altezza ed è uno dei laghi più alti del mondo. Esso è di forma circolare con una circonferenza di 88 chilometri, 90 metri di profondità e 320 chilometri quadrati di superficie.Il lago è solitamente ghiacciato tutto l’inverno fino alla primavera. E’ collegato al vicino lago Rakshastal dal canale naturale Ganga Chhu. Per gli Indù, I Buddhisti, I Giainisti e i Bonpo il lago Manasarovar è sacro. Chi beva l’acqua del lago raggiungerà il paradiso di Shiva e sarà purificato dai peccati commessi durante cento incarnazioni. Come il monte Kailash il lago Manasarovar è un luogo di pellegrinaggio che attrae fedeli dall’India, dal Tibet e dai paesi vicini, i quali vengono a bagnarsi nelle sue acque sacre. Sulle sponde del lago sorgono alcuni monasteri, il più importante dei quali è il gompà di Chiu, costruito sul fianco di una collina.
[28] Carro celeste.
[29] Simbolo della prima predicazione della legge nella simbologia buddhista.
[30] Molti asceti tibetano erano soliti ritirarsi nei cimiteri al fine di meditare e ottenere realizzazioni mistiche.
[31] Nel Buddhismo Theravāda e nel Buddhismo dei Nikāya, gli arhat “degni di venerazione” sono coloro che hanno raggiunto il pieno risveglio spirituale, diventando degni di essere venerati dal sangha. Un arhat ha quindi percorso lo stesso cammino di un Buddha raggiungendo il nibbāṇa (pāli, nirvāṇa sans.), ma non attraverso una dottrina e una disciplina sviluppati autonomamente, bensì grazie all’insegnamento di un Buddha, vivente o passato. Nelle altre scuole di buddhismo, e in particolare nel buddhismo Mahāyāna, gli arhat sono dei Buddha a tutti gli effetti, detti śrāvakabuddha, ma comunque inferiori a coloro che, pur potendo ormai conseguire tale stato, prendono il voto di continuare a rinascere innumerevoli volte come bodhisattva fintanto che resteranno al mondo esseri senzienti non illuminati, e sono detti Bodhisattvabuddha o Samyaksambuddha.
[32] Divinità protettrice dei templi, molto frequente nelle pitture di questa regione.
[33] Il Bodhisattva Maitreya; tibetano Byams-pa — è il nome del prossimo Buddha nella soteriologia buddhista, un bodhisattva che molti buddhisti credono comparirà sulla Terra, otterrà l’illuminazione completa, e insegnerà il puro Dharma. Il Bodhisattva Maitreya sarà il futuro Buddha, successore di Gautama Buddha, ed è destinato ad essere “Re del mondo”, unendo tutti i fedeli delle varie scuole. La profezia della venuta di Maitreya è presente nella letteratura canonica di tutte le tradizioni buddhiste (Buddhismo dei Nikāya, Theravāda, Mahāyāna e Vajrayāna) ed è accettata dai buddhisti come un dato di fatto, un evento che prima o poi avverrà. Maitreya è in genere rappresentato seduto all’occidentale, con entrambi i piedi per terra e non alla maniera indiana posti sullo stesso trono, ad indicare che il trono su cui siede gli è stato dato in prestito e ancora non gli appartiene.
[34] Carica militare simile al nostro colonnello.
* * *
Le spedizioni in Tibet di Giuseppe Tucci dal 1935 al 1939
Dal giugno all’ottobre 1935 Tucci organizza un’altra importante spedizione in Tibet nella quale si propone di completare l’esplorazione dell’antico regno di Guge. Questa missione parte da Taklakot e Khojarnath, ai confini con il Nepal e l’India, raggiunge il lago sacro Manosarovar ed il monte Kailash, e da qui si dirige verso occidente visitando altri luoghi importantissimi per la loro storia e per i resti dei loro monumenti quali Kyunglung e Mangnang. Incrocia l’itinerario del viaggio del 1933 a Toling e Tsaparang, proseguendo poi verso Gartok su una via differente. Rientra in India attraverso il Ladakh. Con questa spedizione Tucci voleva ultimare lo studio di quelle province del Tibet che, prossime ai confini dell’India, sono state tramite di scambi culturali tra la terra di origine del Buddhismo e il Paese delle Nevi.
Nell’inverno 1934-1935 Giuseppe Tucci cominciò a organizzare la spedizione, nei suoi aspetti diplomatici, finanziari e logistici. Per ottenere passaporto e permessi l’orientalista si rivolse al governo indiano; al finanziamento della spedizione contribuirono l’amico Prassitele Piccinini [1] e Tucci stesso. Partecipò anche a questo viaggio il Capitano medico Eugenio Ghersi, a cui va nuovamente il merito della documentazione fotografica della spedizione: migliaia di fotografie di opere d’arte, iscrizioni e manoscritti che ora probabilmente non esistono più.
Ad Almora, città indiana a 1600 metri di altezza vicina ai confini col Tibet, tra il 24 maggio e il 6 giugno 1935 viene preparato il materiale per la spedizione e definiti i vari dettagli. Pur essendo un luogo di frontiera, la gente che si vede nei bazar è quasi tutta del posto: anche se il Tibet non dista più di due settimane di marcia non si vedono in giro Tibetani, forse tenuti distante dal clima caldo e afoso. In questi giorni Tucci lavora instancabilmente ai preparativi: è anche presente il capo carovaniere Kalil, già membro della spedizione del 1933, e a breve è previsto l’arrivo di un cuoco e di un uomo di fatica dal Kashmir. Alla fine viene stabilito di partire il 6 giugno e viene assoldata una carovana di quarantuno uomini di fatica, affinché trasportino a spalla, tappa dopo tappa, trentacinque chili di bagaglio a testa. La marcia procede lentamente a causa del caldo torrido dell’estate indiana: si cammina dalle cinque alle undici del mattino, poi bisogna fermarsi. Bharichinia, Kannerichina, Ganai, Berinag, Thal sono alcune delle prime tappe della spedizione. Dopo aver patito un clima terribilmente afoso, soprattutto a Balvakot e a Darchula, la carovana giunge a Khela (1550 metri), dove le montagne si fanno più alte e scorre impetuosa la Kaliganga. Questa zona è vicina sia ai confini del Tibet che alle foreste del Nepal, vicino alla catena himalayana. Questi luoghi erano abitati dall’etnia dei Bhutia, gente dai lineamenti mongolici e di religione animista, insieme ad influenze induiste. Vicino ad ogni villaggio sorgeva un bosco sacro, dove gli alberi erano abitati da divinità a cui venivano offerti sacrifici; agli alberi creduti dimora di spiriti erano appese strisce di stoffa e corna di montone. I Bhutia avevano spesso contatti con il Tibet e spesso parlavano, oltre al loro dialetto, anche il tibetano; le donne svolgevano i più faticosi lavori nei campi e portavano grosse collane e pendagli di argento; sia gli uomini che le donne indossavano casacche di lana grezza.
La strada successiva si snoda sopra abissi e sotto rupi franose, lungo gigantesche scalinate intagliate nella roccia. Vengono attraversate Malpa e Budhi, fino ad arrivare il 21 giugno a Garbyang, dopo 15 giorni di marcia in cui vengono percorsi 200 chilometri. Qui Tucci è ospitato da Nandaram, ricco e influente mercante della zona ed esperto conoscitore del territorio intorno al Kailash e al Manasarovar: aveva fatto da guida a tutti i più celebri esploratori dell’Himalaya, come Sven Hadin e Rutledge; Tucci lo invita con successo a prendere il comando della carovana fino a Davazong.
Garbyang era un piccolo villaggio di una quarantina di case in legno decorate, che rivestiva tuttavia una notevole importanza commerciale essendo luogo di passaggio delle carovane da Almora, ed inoltre era una tappa per i viaggiatori indiani che compivano il pellegrinaggio sacro del Kailash e del Manasarovar. La religione della zona non era tuttavia né completamente indù né buddhista, quanto piuttosto animista, come in territorio Bhutia. Nel centro del villaggio, su uno spiazzo semicircolare, si trovavano alcuni pilastri di pietra conficcati nel terreno e alti più di due metri, veri e propri monumenti megalitici. Vicino al paese erano anche stati eretti tre tempietti dimora della divinità locale Llanga: casupole basse con muri a secco e il tetto fatto da lastroni di pietra, con intorno mucchi di corna di montone e strisce di stoffa colorata. Questo tipo di divinità locale preannuncia i sa bdag del Tibet, ovvero spiriti che abitano boschi, montagne, villaggi ecc., similmente al genius loci.
Il 25 giugno la carovana, con nuove acquisizioni di uomini e muli, parte da Garbyang attraverso una strada al confine tra il territorio indiano e quello nepalese e, passando da Kalapani, arriva a Sangchum, in mezzo alla neve e ai ghiacciai delle montagne himalayane. Il 28 giugno viene valicato il passo di Lipulekh, reso più difficile dalla neve, e il gruppo scende a Taklakot: uno sperone giallo sormontato da rocce a picco sul fiume, in cui erano ancora presenti le celle degli anacoreti e gli eremi invernali dei monaci e, sulla cima, le rovine degli antichi castelli dei re di Purang [2]. Sulla cima della roccia troneggiavano in mezzo alle rovine due templi (il primo, appartenente alla setta gialla, era conosciuto sotto il nome di Scimpuling ed era governato da un Campò inviato ogni tre o sei anni da Lhasa; l’altro apparteneva ai Sa Skya pa) e il palazzo del prefetto. Chi comandava su questa provincia era una donna, moglie del prefetto, e Tucci viene da lei ricevuto.Il 19 l’orientalista sale a visitare i due templi e a conoscere il Campò: Scimpuling non conteneva nulla di antico; nel monastero Sa skya pa i monaci erano radunati per una cerimonia rituale, a cui Tucci riesce ad assistere. Il tempio si presentava sporco e maltenuto, con pitture religiose accatastate alla rinfusa e rovinate e pochi libri abbandonati; sotto al monastero, in uno spiazzo vicino al villaggio sorgevano le case dei mercanti indiani, in muratura ma prive di tetto, avevano teli di tenda come copertura. Era prevista una fiera mercantile ai primi di luglio, e alcuni partecipanti erano già arrivati, movimentando il paese. Viene qui organizzata una nuova carovana, questa volta di yak e Tucci, mentre lascia l’incombenza dell’acquisto degli animali agli uomini Nandaram, riesce a fare una veloce esplorazione nella valle della Karnali, fiume sacro che la tradizione vuole sgorghi dal lago Manasarovar; sulla riva sinistra della Karnali sorgeva uno dei più celebri santuari del Tibet, quello di Khojarnàth, meta di pellegrinaggi dal Tibet e dall’India.
Il 30 giugno la carovana si ferma a Kantze, in una gola nelle pendici meridionali del Gurla Mandata, dove si trovava un piccolo monastero attribuito a Rin c’en bzan po, che dipendeva dal grande monastero di Byanc’ubglin, nel Tibet centrale: vi era soltanto un monaco con cui Tucci stringe subitanea amicizia. Nel corso di questa spedizione lo studioso arricchisce la collezione di oggetti preistorici già iniziata nella spedizione del 1933: sono da lui ritrovati amuleti, pendagli e ornamenti vari; mentre nella provincia di Guge predominavano amuleti di forma circolare, simili a quelli scoperti nelle tombe barbariche dell’Europa orientale e dell’Asia centrale, nelle tombe di Purang sono comuni soprattutto i pendagli triangolari. Dopo una breve marcia viene raggiunto Khojarnath, dove sorgeva un monastero della setta Saskyapa retto da un abate molto colto e preparato che fa da guida a Tucci. Vi erano due templi, in mezzo ad un dedalo di case, abitazioni di monaci e ricoveri per pellegrini; i templi erano molto antichi ed erano attribuiti al solito Rin c’en bzan po. Il primo, più venerato, era chiamato Lotsavelhakang, ossia “il tempio del traduttore”: nella cella al fondo del sacrario vi erano tre superbe statue d’argento dorato effigianti Mangiusrì, Cianrezig e Ciagnàdorgè [3], che si vuole risalenti all’età di fondazione del tempio, sicuramente opera di artisti indiani, poggiavano su un trono di bronzo sul quale erano raffigurate figure di divinità, motivi floreali e figure arabescate di mostri marini; sugli altari stavano altre statue molto antiche, tra cui un gruppo di bronzo con Vairocana e una statua di pietra turchina, entrambe di scuola bengalica. L’altro tempio si chiamava Ducàn, ovvero”l’aula delle adunanze”: in questo luogo Tucci assiste ad un rito simile a quello di Taklaklot, essendo giorno di festa per la luna nuova; un cristallo di rocca viene sollevato dai monaci, mentre intorno risuonano canti e orazioni. Il tempio era di schema costruttivo simile a quelli di Rin c’en bzan po, ma l’unica cosa antica che restava era il portale, una delle più notevoli opere d’arte del Tibet occidentale: una scultura lignea indiana a pannelli istoriati con fiori, divinità mahayaniche della scuola artistica che prosperò sotto i Pàla. Altrove vi erano anche pannelli e fasce con riprodotti momenti della vita di Buddha; per la datazione Tucci ipotizza che si possa far risalire il portale all’undicesimo o al dodicesimo secolo.
Il 3 luglio Tucci approfitta della giornata di riposo per visitare le rovine intorno a Taklakot e per acquistare libri e manoscritti dai monaci conosciuti; vi erano rovine di castelli e templi, tra cui le più notevoli erano quelle attribuite a Nor bzan [4]; più in alto vi erano invece i resti attribuiti al palazzo di Timekunden, (anch’egli celebre nell’agiografia tibetana), ma più probabilmente resti del campo e delle fortificazioni costruite da Zoravar [5] quando svernò a Purang prima di morire nella battaglia che pose fine alle sue conquiste (1841). Il corpo principale di questo cumulo di rovine era costituito da grossi muri di mattoni in terra essiccata al sole, intorno vi erano invece trincee di pietre e muri a secco. Il giorno successivo Tucci parte per un’escursione sulla riva destra del Mapcia, alle rovine imponenti del castello di Sidecar, dove rimangono due cappelle, essendo il resto dei templi in rovina. Si conservava ancora qualche pittura piuttosto antica, tra cui un Mandala dipinto su legno. Ai piedi della ripidissima discesa vi era poi una piccola costruzione venerata come abitazione del Sa bdag, il genius loci. Al ritorno al campo base i membri della spedizione assistono ad una danza rituale al ritmo di tamburi, con attori mascherati.
Il 5 luglio la carovana di yak è pronta a partire sotto il comando di Nandaram; ci sono inoltre due uomini Garbyang e quattro di Taklakot, tutti esperti dei territori attorno al Manasarovar e al Kailash. La spedizione segue il corso del Mapcia verso nord, passando dal villaggio di Doyo e incontrando piccoli gruppi di mercanti e contadini e casupole bianche con strisce rosse sotto il tetto. La strada passava per la tomba di Zoravar, dipinta di rosso, che sorgeva in una zona desertica protetta dai vicini ghiaccia del Gurla. Sopra un’altura che dominava la tomba vi era un piccolo gompà della setta gialla e più in alto ancora una cappella dimora dello spirito tutelare del luogo. Il 6 luglio si prosegue per Cardam, convento in rovina con un tempio costruito recentemente su una collina; il luogo doveva probabilmente essere stato devastato durante l’invasione Dogra, infatti qui a Cardam erano state combattute due battaglie tra le avanguardie di Zoravar e le truppe tibetane.
Dopo due marce la carovana arriva sulle rive del Rakas Tal, il primo dei laghi a sud del Kailash, chiamato dai tibetani Langag ts’o; la strada costeggiava il gruppo del Gurla mandhata, montagna di circa 7700 metri, sacra per indù e tibetani. [6] Da qui si comincia a vedere l’immensa mole del Kailash, e vengono montate le tende sulle rive del lago, sacro anch’esso fin dai tempi dei Bonpo. Il 9 luglio la spedizione raggiunge il lago Manasarovar, una delle tappe principali di questo viaggio, luogo sacro consacrato a Brahma, in cui si bagnano i pellegrini dell’India e del Tibet, simbolo delle acque cosmiche da cui il creatore trasse l’universo. Il giorno successivo, dopo una breve marcia, la carovana sosta a Jiu, un monastero con miniere e pozzi auriferi nelle vicinanze. Il monastero sorgeva su di un colle affacciato sul lago; le mura erano crollate, vi erano muretti a secco, due cappelle tinte di rosso e tre ciortèn. Questo luogo apparteneva alla setta Drupa ed era affidato alle cure di un monaco che era anche un mercante, insieme alla moglie e ai figli. Nelle due cappelle non vi era nulla di importante, però la seconda era stata costruita sopra una vecchia grotta di eremiti, dove si dice meditò Padmasambhava. Sotto al monastero vi erano anche sorgenti d’acqua sulfurea in cui si bagnavano malati e pellegrini in cerca di guarigioni e purificazione. Alle pendici del colle di Jiu si era scavato il suo corso un canale naturale, unico sbocco del lago Manasarovar, che univa il lago sacro con il Rakas Tal.
L’11 luglio Tucci comincia il circuito del lago per esplorare il luogo e visitare i monasteri costruiti sulle sue rive; il primo si chiama Ciachib, anch’esso appartenente alla seta Drupa: con poche pitture e qualche statua in cartapesta e legno, esso era stato convertito in magazzino per il pesce. Poi viene visitato Langpona, dove sorgevano accampamenti di nomadi con tende di lana o pelle di yak; il convento di Langpona apparteneva ad un incarnato che risiedeva nel gompà di Chorzog nel distretto di Rùpsciu, che aveva fama di potente mago e abile commerciante, incontrato da Giuseppe Tucci nella zona di Gartok, nel corso della spedizione del 1933; il monastero era di costruzione recente e non conteneva nulla di notevole. Viene qui aggiunto un nuovo membro alla spedizione, un molosso tibetano che diventerà un ottimo cane da guardia.
La strada conduce poi il 12 luglio a Bunti attraverso una gola sassosa lunga e arida; il gompà di Bunti, a più di 5000 metri di quota, apparteneva alla setta gialla, quella dei Dge lugs Pa: era un monastero molto ricco, affidato alle cure di un custode e momentaneamente abitato da un lama mongolo di passaggio. Nonostante la tradizione gli attribuisse trecento anni di storia, il monastero era in realtà più recente: nelle cappelle erano appese alle travi thanka di soggetto religioso, ed erano disposte numerose statue sugli altari; su alcuni pilastri erano allineate armature e corazze in maglia di ferro che i locali attribuivano ai soldati di Zoravar, ma erano probabilmente antichi trofei conservati in ricordo di scorribande di predoni scesi dal nord.
Il 13 luglio, scendendo a valle attraverso pascoli acquitrinosi, la carovana costeggia il lago sacro Curgyal incontrando numerose tende di pastori, i quali si spostavano e accampavano secondo le stagioni e le necessità; i nomadi vestivano lunghe casacche rosse di lana grezza e le donne portavano collane e braccialetti fatti con conchiglie marine. La pianura era popolata anche da mercanti, divisi in due gruppi: quelli ”dell’interno”, che andavano a barattare sale, borace e lana nelle fiere di Garbyang e Darciula da giugno a ottobre, e quelli “di fuori”, provenienti dalle grandi pianure del nord, che si spingevano al massimo fino al mercato di Taklakot. Tucci visita in questa giornata il gompà di Seralung, in realtà piuttosto lontano dalle rive del Manasarovar, un edificio con intorno casette in muratura; il monastero era abitato da numerosi monaci, non abituati a vedere e parlare con stranieri; apparteneva alla setta Digumpà e non conteneva nulla di notevole, nonostante la visita approfondita di Tucci a tutte le cappelle.
Dal 14 al 16 luglio ci sono giorni di pessime condizioni meteorologiche, dovute al passaggio dei monsoni, che rendono difficoltoso il guado dei fiumi e rallentano la marcia, finchè il 16 luglio la carovana arriva al monastero di Gniergò: edificio piccolo e basso, senza monaci, affidato alle cure di un custode che mostra a Tucci tutti i sacrari. Nel centro della cappella principale l’orientalista scopre un’immagine di Padmasambhava con le mogli Mandàravà e Iescéghiazò e, sull’altare, una bella e antica statua nepalese di bronzo dorato di Hevajra. in mistico accoppiamento con la sua potenza divina [7]; vi erano anche alcune statue di terracotta che rappresentavano alcuni celebri teologi ed asceti della setta Saskyapa. Successivamente viene visitato Trugò [8], il luogo più famoso sulle rive del Manasarovar. Esso constava di un monastero circondato da poche casupole misere e un modesto bazar. Il 17 luglio arriva a Trugò un gruppo di briganti armati a cavallo, venuti per razziare e derubare: Ghersi tuttavia puntando e utilizzando verso di loro la macchina fotografica, li metterà in fuga. Lo stesso giorno Tucci riesce a visitare il monastero, il più grande e popolato della zona, con una ventina di monaci agli ordini di un dotto teologo, che dipendeva dal Campò di Scimbuling a Taklakot. Turgò era stato depredato dai soldati di Zoravar, tuttavia non tutto era andato perduto: restavano thanka e libri, tra cui il Carciag, una guida esplicativa del convento, che ne riporta la storia, le leggende e gli avvenimenti.
L’ultimo monastero del Manasarovar visitato è quello di Gosul, il 18 luglio. Per arrivarci la spedizione passa vicino agli accampamenti dei briganti dove si vedono le migliaia di capi di bestiame che avevano depredato. Il convento sorgeva su una rupe a precipizio sul lago, era abitato soltanto da un monaco dedito a continue pratiche ascetiche. Questo gompà non era molto antico, ma da ogni pilastro pendevano bellissime thanka e sugli altari erano raccolte statue di diversa fattura ed epoca. Alcuni pellegrini indù, spaventati dall’arrivo dei briganti, avevano trovato rifugio nel tempio; fra questi vi era un sadhu tra i più noti dell’India, Bhumananda il quale, non avendo paura, stava a meditare in una grotta sul lago. Gli indiani, compreso Bhumananda con cui Tucci stringe amicizia, seguiranno la spedizione. Di ritorno a Jiu, il 19 luglio, il circuito del Manasarovar era stato completato in dieci giorni di marcia; nel complesso i monasteri visitati da Tucci non possono ritenersi antichissimi, essi non superavano infatti due o tre secoli di storia al massimo. La spedizione si rivolge ora verso il sacro Kailash, unito al Manasarovar da un’immensa pianura attraversata da fiumi e popolata da accampamenti di nomadi, accampandosi il 20 luglio a Barka, dove non vi erano che una casa, abitata da un sottoprefetto con funzioni di polizia, che proprio il giorno prima aveva arrestato quattro briganti, e un gruppo di tende. A Barka nacque una delle più notevoli figure della rinascita lamaistica: Brontòn, allievo dell’indiano Atisa a come lui apostolo del Buddismo in Tibet. La tappa successiva è Darcin, generalmente punto di partenza dei pellegrinaggi intorno al Kailash, un grosso accampamento con la casa del prefetto di polizia, che ha titolo di re e una guarnigione di armigeri, e del quale Tucci fa immediatamente conoscenza. Darcin era luogo di mercanti e pellegrini, sia buddisti che Bonpo e indù, tra cui alcuni sadhu come Bhumananda.
Il 22 luglio comincia il percorso attorno alla montagna sacra, diviso in quattro tappe, ovvero il numero dei gompà che sorgevano ai quattro punti cardinali del Kailash. La prima tappa è Ghiantrag, monastero solitario fuori dalla strada battuta, sopra una collina solitaria che sorge in mezzo ad un anfiteatro roccioso, abitato da non più di venti monaci. Esso apparteneva alla setta Digumpà e la tradizione vuole che sia stato edificato dal fondatore della scuola; esso conteneva pitture murali probabilmente databili al XVII secolo, un ciortèn in argento, contenente forse le reliquie di un celebre lama della setta, e diverse corazze e spade, che i custodi del monastero dicono essere appartenute alle truppe di Zoravar, ma che , almeno nel caso delle corazze , dovevano essere più antiche. Poi, appesi in vari angoli del monastero stavano ricordi lasciati dai sadhu dell’India, come Ananda Singh, che trascorse molti anni in questo luogo isolato cibandosi solo di erbe e ortiche selvatiche, e altri asceti dediti alle pratiche dello yoga. Il gompà di Ghiantrag aveva inoltre una stamperia, e Tucci, accompagnato nella visita da Bhumananda, riesce qui a trovare una guida del Kailash e del Manasarovar in cui sono raccolte le vicende e le leggende della zona: un documento della massima importanza per lo studio della geografia storica del Tibet occidentale.
Il sentiero dei pellegrini prosegue su un pianoro sassoso che si restringe fino a diventare una gola stretta tra muraglie di roccia, per poi arrivare al monastero di Ciocu, un piccolo eremo posto su di una rupe, appartenente alla setta Caghiupà: piuttosto antico, era tuttavia stato rinnovato in epoca più recente. Vi erano affreschi riproducenti le immagini dei mille Buddha, successivi al XVII secolo e di scarso valore artistico, una biblioteca alquanto povera e thanka di poco pregio.
La carovana si accampa poi sulle rive del fiume sotto l’imperversare di una bufera , rinunciando all’idea di raggiungere in giornata il secondo gompà. Il monastero viene visitato da Tucci e Ghersi il giorno successivo: Tinthipù era un monastero modesto posto su di un’altura franosa; doveva anche esserci un incarnato che tuttavia non era più stato ritrovato, e al suo posto era stato mandato un reggente da Lhasa, un lama molto colto e devoto che trascorreva il suo tempo in preghiera e meditazione. Tucci viene ricevuto dal lama e trova nel monastero un’altra guida storico-geografica del Kailash e Manasarova indipendente rispetto a quella di Ghiantrag. Anche qui esisteva una volta una stamperia. [9] Tinthipù era costruito su una caverna in vista del Kailash, luogo celebre del buddhismo tibetano poiché qui trascorse parecchi anni Cozampa [10], uno dei maestri più conosciuti della scuola Drugpa.
Tucci e Ghersi raggiungono poi il resto della carovana che si dirige verso il passo di Dolma (5700 metri), dedicato a Tara dea della salvazione, in compagnia di gruppi di pellegrini che percorrono la stessa strada. [11] Il passo si apriva tra due pareti coperte di ghiaccio, ed era cosparso da pali a cui erano attaccate banderuole di stoffa, secondo l’usanza tibetana; gli asceti sostavano qui a meditare. Subito a valle stava un laghetto ghiacciato chiamato dagli Indiani Gaurikunda. “il lago sacro a Gauri”, e dai Tibetani Cagrò Zimbù, “il bacino delle fate”; i pellegrini dell’India frantumavano la crosta di ghiaccio e dopo essersi denudati si tuffavano dentro le acque gelide. Dopo il lago il sentiero scompariva e il passaggio diventava difficile. Dopo due ore di marcia il 25 luglio viene raggiunto l’ultimo dei monasteri intorno al Kailash, quello di Zuprul, anch’esso dei Drupa. Era un edificio modesto non molto antico, abitato da pochi monaci e privo di opere d’arte o ricordi storici particolari, tuttavia era uno dei luoghi più venerati e frequentati dai pellegrini, poiché la cella del tempio era costruita intorno alla grotta dove Milarepa, il maggiore dei mistici tibetani, passò svariati anni a meditare. [12] Nel tardo pomeriggio Tucci torna a Darcìn, piena di pellegrini e bivacchi e al tramonto arriva una turba di sadhu salmodianti provenienti dal Nepal, guidati da Paramityananda, che era uno dei più noti asceti indiani. Tucci si reca in visita al loro campo, dove essi stavano intonando un lungo canto a Shiva. Il 26 e 27 luglio la spedizione prosegue costeggiando la Sutlej, deviando dai sentieri più battuti per passare dai monasteri di Dulciu e Tirthapuri [13]. Dulciu, raggiunto il 27, era un gompà modesto che si trovava in una pianura vicino al fiume, era alle dipendenze del monastero di Toling ed apparteneva come quello alla setta Gialla. Vi erano tre monaci a guardia del convento, che conteneva due cappelle ed era stato ricostruito in epoca recente.
In due giorni di marcia viene raggiunto anche Tirthapuri, dopo un sentiero reso difficile dal dover guadare dei fiumi in piena; il gompà era visitato da pellegrini tibetani e indiani, ed era un agglomerato di templi e cappelle. Esso apparteneva alla setta Drugpa, sotto l’incarnato di Rupsciu, così come il convento di Langpona sul Manasarovar. Nei tempietti in alto non vi era nulla di notevole, essendo state ricostruite le cappelle in tempi recenti; vi era però qualche bella statua, come un Padmapani di origine nepalese. Tutto il resto era in stato di abbandono, anche se Tucci riesce comunque a trovare in un mucchio di libri liturgici una vecchia guida del monastero, che conteneva leggende e preziose indicazioni storiche. Il monastero era affidato ad un custode che fa da guida allo studioso, mostrandogli le cappelle, le rocce erose in forme fantastiche e le sorgenti sulfuree. Vicino alla rupe a precipizio sul fiume vi era il tempietto di Dorge pamò, nei pressi di una caverna che era rifugio di asceti da secoli; sulle pareti restavano tracce di pitture murali fra le quali erano ancora visibili una Tara verde e la serie dei maestri più noti della scuola Caghiurpa. Sempre sulle rive della Sutlej era stato edificato un altro tempietto su una seconda caverna, che la tradizione ricorda come eremo di meditazione dell’asceta Cozampà: il tempietto era noto con il nome di Cozampà pùg, cioè la “grotta di Cozampà”; non vi era nulla di notevole, però in una grotta vicina viveva da anni, in completo isolamento, un monaco Drugpa che viveva murato in meditazione con solo una piccola feritoia come contatto con il mondo esterno. La carovana prosegue poi per Palkye il 30 luglio, dove la valle della Sutlej si allarga in una pianura paludosa. Qui vi erano i primi grandi resti dell’impero di Guge: lunghe file di cenotafi in rovina, celle di anacoreti scavate nelle rocce a picco, resti di bastioni e torri sulle cime rocciose. Il campo viene piantato a circa 4200 metri su un terreno acquitrinoso, lungo una gola scavata a nord fra rocce a picco, che congiunge la valle della Sutlej con la pianura di Missar fino a Gartok, la capitale del Tibet occidentale; vicino al campo sorgevano le rovine di un tempio dell’XI secolo.
Qui Tucci incontra nuovamente il Gran Lama Gigmèdorgè, da lui conosciuto nella spedizione del 1933 sul Passo di Shipki e del quale era diventato amico: egli era un tempo un Bonpo, poi convertito al Buddhismo, ma nell’ambito di una setta che conservava molti elementi dottrinali e cerimonie liturgiche Bonpo. Gigmèdorgè aveva deciso di ritirarsi in questo luogo con un gruppo di discepoli installandosi nelle grotte degli antichi asceti per meditare e predicare. Tucci visita i vari ciortèn che, a file di 108, traversavano la valle, quasi tutti in rovina ma spesso contenenti ts’a ts’a. Il monastero di Palkye era stato fondato da Rin c’en bzan po e apparteneva alla setta dei Gelugpa, pur essendo stato costruito dai Saskyapa. Sulla montagna che sbarra la valle verso Tirthapuri e Misera e domina la strada di Milam che porta, attraversando l’Himalaya, in India, sorgevano rovine di antichi castelli, che vengono esplorati dal Ghersi, senza trovare tuttavia nulla di notevole, eccettuate alcune costruzioni in rovina. Il 31 luglio Tucci fa visita all’amico Gigmèladorgè nella sua cella, sulle rupi che dominano la valle di Palkye; la caverna doveva essere un’abitazione di asceti anche nell’antichità, poiché conservava tracce di pitture di qualità del XIV – XV secolo, cancellate purtroppo quasi tutte dal tempo. Tucci riesce ad acquistare alcune preziosi manoscritti Bonpo che contribuiranno allo studio di questa religione ancora poco conosciuta in Occidente ai tempi della spedizione.
La strada prosegue lungo la Sutlej in gole profonde tagliate nelle rocce a picco, e la carovana si accampa alla sera dell’1 agosto a Chiunglung (4410 metri), luogo quasi irreale costellato da grotte di anacoreti e rovine di monasteri crollati. Tucci e Ghersi fotografano e documentano ruderi immensi e centinaia di affreschi, in un luogo un tempo importantissimo per Buddhisti e Bonpo, dove risiedevano asceti e studiosi, ora ridotto in rovina; solo un paio di famiglie continuavano a vivere lì, non vicino al monastero bensì sull’altra riva del fiume, vicino al ponte, dove transitavano le carovane e le greggi dirette alle fiere di Gyanima. In basso vi erano lunghe file di ciortèn dipinti di rosso, non molto antichi ma forse contemporanei degli ultimi re di Guge: all’interno numerosi ts’a ts’a le cui raffigurazioni dimostrano che quando gli stupa vennero eretti, Chiunglung doveva già appartenere alla setta Gialla. Il monastero, eretto sulla cima di una gigantesca rupe, era in rovina: c’erano due cappelle con affreschi forse del XVI secolo, molte statue e moltissime thanka della scuola di Guge appese alle pareti, o arrotolate e ammucchiate negli angoli. Del castello in cima alla rupe non restavano che i muri maestri spaccati e pericolanti e, nelle sale del piano terra, alcuni pilastri di legno e capitelli scolpiti. E’ molto probabile che Scen rap, colui che organizzò e diede forma alle dottrine Bonpo, fosse nato proprio qui, o almeno vi risiedette a lungo, altrimenti non si potrebbe spiegare il fatto che quando Tucci visitò Chiunglung, questa veniva ancora considerata una città santa e venerabile. Attorno a Chiunlung Tucci visitò altre rovine: strane costruzioni circolari, forse i resti dell’antico santuario Bonpo che ha reso questo luogo così sacro nelle tradizioni di questa setta. Molti i ciortèn esplorati, che danno luogo a ritrovamenti di ts’a ts’a buddhisti, alcuni molto antichi, con iscrizioni in sanscrito e caratteri dell’XI secolo. E’ probabile che quando i re di Guge cercarono di diffondere il più possibile la religione buddista, dovettero svolgere la loro missione principalmente nei centri più importanti della religione Bonpo, e questo fatto spiega dunque la presenza di ciortèn così antichi: tutte le cappelle e le rovine esplorate qui da Tucci risalivano agli inizi del periodo della diffusione del Buddismo nel Tibet occidentale. Tucci va poi a visitare imponenti rovine di castelli e altri grandi edifici, ad un paio di chilometri da Chiunglung, che, anziché essere costruiti con i soliti mattoni di terra, erano stati eretti con grandi macigni sovrapposti: costruzioni megalitiche che documentavano l’antichità di quei luoghi e non comparivano in altre zone del Tibet occidentale.
Il 4 di Agosto la spedizione prosegue per il passo Scinlabtza, perdendosi però tra gole, pianori e steppe, raggiungendo infine un accampamento di mercanti indiani: le carte geografiche pubblicate dalla Sovrintendenza geografica dell’India erano diventate quasi inservibili in questa zona. Il 6 agosto la carovana incontra un gruppo di sedici sadhu provenienti dall’India meridionale, shivaiti e vishnuiti insieme, arrivati fino a qui dalla strada di Badrinath. Alcuni erano in pessime condizioni fisiche, e Ghersi cerca di curarli, nonostante essi sopportino stoicamente il dolore e le privazioni. Nel tardo pomeriggio del 7 la carovana arriva al monastero di Dongbo, dove non c’erano monaci, ma erano presenti cappelle e ciortèn, senza un particolare ordine architettonico, il tutto in stato di abbandono. Mentre la carovana scende la difficile pista verso il fiume e cerca un luogo in piano dove accamparsi, Tucci riesce a persuadere il vecchio custode del gompà a farglielo visitare. Esso, non molto antico ma costruito su di un altro ben più vecchio, apparteneva alla setta Gelugpa ed era sotto la sorveglianza dell’abate di Toling: l’orientalista potè ammirare una ricchissima collezione di thanka della scuola di Guge. Intorno vi erano tracce di campi e abitazioni; a sud, sopra una rupe, rovine di castelli. L’8 agosto, dopo il guado di un fiume impetuoso e una breve marcia, la carovana arriva su di un vasto pianoro dove sorge Gyungo, niente più che una tenda e una casa, ma intorno i resti di un imponente castello, con all’interno due cappelle, rovine di fortificazioni, templi e ciortèn pericolanti; a giudicare dai ts’a ts’a raccolti Tucci data il periodo di fioritura del paese intorno al XIII secolo.
Dopo una breve marcia la spedizione arriva a Nabra, dove erano montate un centinaio di tende di mercanti. A Nabra, sede di mercati, Tucci conosce il prefetto e l’amministratore. L’11 agosto, dopo una lunga marcia, viene raggiunta Davazong, capitale di una delle quattro prefetture in cui si divide il Tibet occidentale; dato che il prefetto si trovava a Nabra, vivevano nel modesto villaggio solo un paio di famiglie con servitori. La devastazione e lo spopolamento avevano ridotto Davazong ad un cumulo di rovine, mura sbrecciate e grotte sulle montagne circostanti. Restavano solo file di immensi ciortèn e i monasteri, appartenenti alla setta Gialla e sotto il controllo di Toling: essi si trovavano sia sopra al villaggio che sulla rupe che sovrastava la casa del prefetto; accedervi non era impresa facile. Il più grande dei monasteri si chiamava Davatrascilumpo e comprendeva tre costruzioni principali: il Ducàn, o tempio delle adunanze, il Giamcan, o tempio di Maitreya e il Lamacàn, o cappella dei maestri. Nel primo di questi templi le pareti conservavano tracce di affreschi non anteriori al XVII secolo ma, molto più importante era il secondo sacrario coperto di pitture della migliore scuola di Guge, anche se in cattivo stato di conservazione, tanto da non renderne possibile la documentazione fotografica da parte di Ghersi; il tempio prendeva il suo nome da una colossale statua di Maitreya che era nella parete centrale. Nell’ultimo tempio abbondavano statue e libri, ma il tutto era abbandonato e maltenuto. Sulla rupe che sovrastava il palazzo del prefetto vi era in realtà solo una cappella di piccole dimensioni: il santuario del castello reale che sorgeva su quel colle; era forse il tempio più antico: sulle pareti affreschi meravigliosi, anch’essi della scuola di Guge, che rappresentavano gli otto dei della medicina; nella cella erano presenti grandi statue di bronzo rappresentanti Vairocana, P’yag n ardo rje, aJams dpal e Spyan ras gzigs; sull’ altare una grossa collezione di statue molto antiche e di immenso valore storico e artistico, poiché sicuramente portate a Davazong dagli apostolo buddhisti indiani intorno al X secolo. Vi erano poi immagini dipinte che raffiguravano principi o re della dinastia di Guge e immagini della vita di Buddha; infine ancora più notevoli erano i pannelli istoriati ai lati della porta, che descrivevano la fondazione del tempio, con figure di principi, monaci, laici, feste, danze, giocolieri e carovanieri, il tutto riprodotto con grande movimento e colore. A Davazong Eugenio Ghersi procede inoltre ad esplorare un centinaio di caverne sulla rupe sotto cui era stato installato l’accampamento: vi erano moltissime tracce abitative e, sul vertice della rupe, rovine di case, castelli e di una cappella dipinta di rosso.
Il 12 agosto si riparte per Cangsare, in una larga valle alimentata da due fiumi che scorrono verso la Sutlej, una casetta in mezzo ai campi, lunghe file di ciortèn e rovine di templi e di abitazioni. Per tutto il pomeriggio Tucci studia con cura le rovine e gli stupa, alcuni dei quali di grandi dimensioni, e ha modo di ingrandire così la sua raccolta di ts’ ts’a .
Il 13 agosto la spedizione sosta a Milam, luogo abbandonato non segnato sulle carte e sul quale doveva sorgere uno dei più grandi monasteri della regione, ormai ridotto in macerie. Tutta la giornata viene impiegata allo scopo di esplorare i ciortèn e le rovine: Tucci trova alcuni ts’a ts’a con su scritte formule in caratteri indiani del X e XI secolo. Qui, come nel resto del Tibet occidentale, deve essere subentrata una fase di spopolamento dopo il periodo di massimo splendore dell’ epoca dei re di Guge, dal XV – XVI secolo: il Tibet occidentale fu infatti popolato e ricco fino a quando fu governato da questa gloriosa stirpe di regnanti, che favoriva le relazioni commerciali con i paesi vicini, sfruttava le miniere e favoriva gli scambi culturali; dopo la caduta del regno sotto il Ladakh e poi sotto Lhasa, questi territori passarono in mano a governatori irresponsabili e persero il loro benessere, spopolandosi fino ad essere quasi abbandonati.
La spedizione prosegue verso le rive del Mangnang, passando sotto le rovine del forte di Senge Dsong: un cumulo di macerie, pochi ciortèn contenenti frammenti di libri e qualche ts’a ts’a; questo forte doveva essere una delle roccaforti più potenti del tempo di Guge. Sull’altra riva del fiume vi era il possente monastero di Mangnang, e sopra le montagne rovine di immensi castelli, gompà con i muri dipinti di rosso , centinaia di antiche abitazioni scavate nella roccia delle rupi; questo luogo si chiamava forse Carzòn, oppure Usucàr, ovvero “il castello sulla cima del monte”. Il capitano Ghersi visita i resti delle cappelle e poi esplora le abitazioni trogloditiche: uno dei templi semidistrutti conservava frammenti di affreschi superbi sulle pareti, databili al periodo maturo delle scuole pittoriche di Guge; ogni pannello era accompagnato da iscrizioni che ne indicavano il soggetto : divinità terrifiche messe a protezione del luogo. Sulla parete centrale vi era una bella immagine di Ts’ong k’a par mirabilmente colorata, uno dei massimi esempi della pittura di Guge. Il tetto era già crollato in più punti, ma permanevano alcuni pezzi sostenuti da pilastri su cui poggiavano larghi capitelli scolpiti con figurine di Buddha meditanti e ricoperti di oro puro. Un altro tempietto era già crollato: nel cumulo delle rovine era sopravvissuto una colossale statua di Buddha in stucco. Dopo aver esplorato accuratamente questi templi e fotografato le pitture ancora visibili, Ghersi comincia la visita delle caverne e dei cunicoli che si insinuano nelle caverne della montagna, intersecandosi in enormi labirinti di cunicoli talvolta bassi e strettissimi. In diversi luoghi all’interno di quegli antri, alla luce di una torcia, Ghersi scopre pitture e statue di ogni tipo, raffiguranti in genere divinità. Inoltre vengono scoperti cumuli di manoscritti gettati alla rinfusa, in numero di migliaia: una colossale biblioteca di manoscritti semplici e miniati, di ogni genere di scrittura tibetana, glossati, commentati e annotati; molti di essi, i più meritevoli, vengono portati via per essere salvati e studiati da Tucci.
All’alba del 17 la carovana riesce non senza un certo rischio a guadare il fiume ed ad accamparsi presso il grande tempio di Mangnang [14], che era costituito da tre differenti gompà: il più grande ricostruito in tempi recenti, di antico rimaneva solo la porta; la pianta dell’edificio dimostrava però che anche qui ci si trovava di fronte ad un esempio di architettura del regno di Guge; le pitture del tempio erano state rifatte in tempi recenti, probabilmente per opera di maestranze locali. La seconda cappella era sconsacrata, senza più statue ne altare, ma ricca di pitture sorprendenti di scuola indiana, riproducenti mandala di divinità facilmente identificabili, con intorno deità secondarie, accoliti, asceti e monaci in preghiera, riprodotti in maniera superba: tutto questo splendore è fotografato da Ghersi, con tutte le difficoltà dovute all’oscurità onnipresente di questi ambienti. La terza cappella, ancora più piccola della prima e piuttosto pericolante, aveva sulle pareti grandi cerchi di stucco, che indicavano la presenza delle antiche statue distrutte o portate via; le pitture erano alquanto compromesse e quelle che rimanevano mostravano minore finezza esecutiva rispetto al secondo sacrario ed erano probabilmente più recenti.
La spedizione il 18 agosto riparte e arriva a Toling, dopo aver attraversato un paesaggio lunare di immense montagne argillose scavate ed erose dall’acqua. L’accampamento è montato nella stessa valle dove si fermò la spedizione del 1933. Toling era stata una delle più celebri università dell’Asia centrale: essa ospitava, durante il XVII secolo, circa duemila monaci. Nel 1935 non si arrivava a più di quindici monaci, assistiti da servitori laici. Toling era un antico monastero dei re del Tibet occidentale e aveva mantenuto gran parte degli antichi privilegi e dei suoi possedimenti, sotto la diretta vigilanza di Lhasa. Ogni sei anni veniva qui mandato un abate scelto tra i monaci più colti e preparati di Lhasa e un Cianzòd, ovvero un amministratore. L’abate era preposto alla direzione spirituale, mentre il Cianzòd amministrava le ricchezze del convento. Essi convivevano nello stesso luogo in perenne antagonismo e sospetto. Tucci aveva stretto amicizia con l’abate nel 1933, e il Campò gli fa visita nella sua tenda, offrendogli una sciarpa di seta prima della partenza. Durante i giorni passati a Toling il professor Tucci cerca di approfondire le conoscenze delle visite precedenti, riprendendo fotografie, visitando le grotte di Toling alto e facendo una nuova visita a Tsaparang, che trova in peggiore stato di abbandono rispetto a due anni prima. Ghersi visita le grotte di Toling alto: scopre qualche frammento di manoscritto interessante ed esegue anche un rilievo sommario delle rovine dei conventi e castelli che sorgevano sulle montagne argillose che dominavano a sud il grande monastero.
Comincia ora la via del ritorno per la spedizione: il 23 agosto la carovana ripassa per il ponte sospeso di Toling ma, anziché ripercorrere la stessa strada del 1933 per Pedumbu ed il Botola, Tucci vuole arrivare a Gartok attraverso Piang Dunkar ed il Saze La, passando quindi più a nord. La pista costeggiava per due miglia la riva destra della Sutlej, poi entrava in una gola arida ricca di tracce di antichi insediamenti. Vengono attraversati Dibsa, dove c’erano ciortèn, grotte e rovine di cappelle, Monhil, con tracce di grandi campi a terrazze mezzo sepolti sotto cumuli di pietre e Shangsi [15], luogo abbandonato con le rovine di un castello, un piccolo gompà circondato da cortèn dell’ XI e XII secolo. Degli yak della carovana non ne restava più neanche la metà, essendo stati di volta in volta abbandonati sulla strada sfiniti e moribondi durante il percorso.
A Piang Dunkar [16] la carovana si accampa dal 25 agosto, in una larga valle dominata da rupi alte e scoscese. Verso nord, sopra un contrafforte roccioso, vi erano cumuli di rovine abbandonate e, sulla cima, tre piccoli gompà dipinti di rosso. Il monastero di Dunkar apparteneva alla setta Gialla e dipendeva da Toling, affidato in custodia ad un prete mongolo che non esita a mostrare il luogo a Tucci, in virtù della lettera di presentazione dell’abate di Toling. Vi erano tre cappelle, la prima, detta Ducan, era coperta da affreschi del XVI secolo rappresentanti gli otto dei della medicina circondati dagli accoliti; il secondo tempietto, il Giamcan, aveva perso le pitture decorative; il terzo tempietto, quello di Tsongk’a pa, con varie pitture di divinità tantriche , gli otto Buddha della medicina e la suprema pentade.
Piang distava un paio di chilometri da Dunkar, su una rupe che chiudeva la valle, ed era forse, assieme a Tsaparang, il luogo più abitato del regno di Guge. Sulle pareti scoscese si aprivano le solite cavità scavate nella roccia a scopo abitativo e come celle per gli anacoreti e, sulla cima, le solite rovine di castelli e templi, piene tuttavia di resti di grande importanza, come pitture, stucchi, manoscritti, statue di ogni genere ed epoca ammucchiate alla rinfusa nelle cappelle e abbandonate al degrado. Piang era della setta Saskyapa, ma non ci vivevano monaci, e le chiavi erano affidate ad un laico, la persona più autorevole del villaggio che era composto da un paio di case a valle del monastero in mezzo a campi irrigati. Per arrivare alle tre cappelle si costeggiavano file di ciortèn giganteschi, oltrepassando cumuli di macerie: la più bassa era la sala delle adunanze, decorata con molte pitture dei consueti dei della medicina; più in alto si trovava il Goncàn [17] e ancora sopra una cappella con figure di Buddha della medicina dipinti sulle pareti; in questi tre templi i reperti più interessanti erano costituiti dalle statue di divinità del pantheon mahayanico, scolpite in legno, in bronzo dorato e in stucco e accatastate disordinatamente sugli altari: esse possono essere datate prevalentemente al primo periodo di Guge, ma ve ne erano alcune di sicura origine indiana, in particolare di scuola Pala; quasi tutte queste statue non erano posteriori al XII o XIII secolo ed erano state eseguite da maestranze del Bengala, dell’India e del Nepal; molte portavano iscrizioni in sanscrito. Nell’ultimo tempio, una piccola cella sulla cima del monte, chiamata Zecàn, cioè “il tempio sulla punta della montagna”; anche qui vi erano abbondanti statue antiche indiane e tibetane e sulle pareti magnifiche pitture da considerarsi tra le più fini del Tibet occidentale, seppur non antichissime, tra cui una figura del Buddha con intorno i sedici Arhat [18]; vicino alle porte erano rappresentati i custodi tantrici come Hevajra (lo spirito tutelare della setta dei Saskyapa) e altri affreschi con maestri e asceti., in un trionfo di colori e luce. Vengono poi esplorate le grotte intorno a Dunkar, dove vi erano cappelle di anacoreti e luoghi di meditazione, istoriate in ogni loro parte con superbe e raffinatissime pitture, veri e proprio capolavori della maturità artistica del regno di Guge, probabilmente del XV secolo. Più in basso, nella grotta maggiore, vengono trovate statue di stucco degli otto dei della medicina. I pochi abitanti del villaggio non andavano mai lassù, anche solo salire su quelle rupi era piuttosto pericoloso perché franavano in continuazione e anche le grotte cominciavano a sgretolarsi per via delle infiltrazioni d’acqua.
La spedizione riparte poi per Gartok, attraversando la catena del Ladakh per il passo di Saze La. Gartok era già stata visitata e descritta da Tucci nella relazione della missione scientifica del 1933. Questa volta, all’arrivo della carovana, il paese (due case soltanto, quelle dei due governatori, e accampamenti di servi, mercanti e nomadi) è in festa per celebrare l’arrivo del nuovo governatore da Lhasa, che arriva vestito da cerimonia, preceduto da suonatori di tamburi e seguito dalla famiglia e da uno stuolo di servitori e ancelle. Tucci è da lui invitato a prendere il tè e gli viene chiesto di raccontare dei suoi viaggi e del suo paese. A Gartok viene riorganizzata la carovana, e il vecchio governatore di Gartok, in procinto di tornare a Lhasa, mette a disposizione di Tucci alcuni pony, dato che gli yak superstiti erano ormai inutilizzabili.
Da Gartok a Tashigang la carovana attraversa steppe sconfinate in cui scorre il Gartang, sulla via del ritorno verso il Ladakh e il Kashmir. I centri abitati si fanno sempre più rari e così le vestigia antiche, le ultime delle quali visitate a Namru, un villaggetto con le macerie di un gruppo di ciortèn e le tracce di un tempio; sui dirupi della montagna che sovrasta il paese, sulla sinistra del fiume, sorgevano le mura merlate di un castello in rovina, forse l’antica dimora dei principi di Namr, oppure un posto di guardia. La carovana passa poi per Gargunsa, capitale invernale del Tibet occidentale e duplicato perfetto di Gartok: due case, una per ciascuno dei governatori e una cappella di recente costruzione. Successivamente si sosta a Tashigang, ultimo gompà sotto il governo di Toling, dove il castello degli antichi re era stato trasformato in un convento. Tucci ricorda qui in particolare tre cappelle: una tutta istoriata rozzamente da figure di dei ella medicina, il Tongyud con un enorme cilindro per le preghiere e la sala delle adunanze, costruita appena tre o quattro anni addietro da un artista del Ladakh. Delle antiche costruzioni non restavano che alcune torri e cumuli di rovine; vi era però un discreto numero di monaci, più numerosi rispetto agli altri conventi visitati; Tucci prese qui parte ad alcune dispute teologiche, dimostrando con la sua grande erudizione di poter rivaleggiare con i lama più preparati. Poi lunghi giorni di marce lunghe e monotone lungo l’Indo, raggiungendo anche Demcio, ultimo villaggio tibetano di poche case, al confine tra il territorio di Lhasa e il Ladakh: povero e squallido, privo di templi. Tra il Tibet e il Ladakh non c’era nemmeno un posto di guardia e il confine era segnato da un modesto torrente. A Nima mud, sulla sponda destra dell’Indo, la spedizione incontra i primi centri Ladakhi: castelli e templi, alcuni in rovina altri in ricostruzione; l’incarnato che comandava in questo monastero proveniva da Lhasa, ed era anche un mercante: con i soldi raccolti restaurava i monasteri e i templi, come il Tubten targhie lin e il Gnienne Lacang; nel primo stavano restaurando gli altari, e sulle pareti restavano alcuni affreschi del XVII secolo di buona qualità; l’altro lo stavano rifacendo completamente. Poi vengono attraversati Puga e il passo del Polokonca scendendo sul lago Car, dove già Tucci si era accampato nel 1931, e da qui si cominciano ad incontrare carovane di mercanti di Sultanpur, Lahul e Spiti, che tornavano dai mercati del Ladakh. Il 9 ottobre viene valicato il Taglungla e, dopo una sosta a Gya, Tucci ritorna per la quarta volta a Leh, bazar di mercanti dell’Asia centrale, del Tibet e del Kashmir; vi erano anche missionari europei e alcuni inglesi. Un ufficio postale e il telegrafo. Il 15 novembre infine, all’arrivo dell’inverno, venivano attraversate le Zojila, dove si concludeva la spedizione del 1935 nel Paese delle Nevi.
Cenni sulle spedizioni del 1937 e del 1939
Rispetto alle spedizioni di Tucci del 1933, del 1935 e del 1948, descritte dal professore nei suoi diari delle missioni scientifiche, i viaggi del 1937 e del 1939 non furono da lui relazionati in maniera sistematica, e una ricostruzione completa e dettagliata di queste spedizioni esula necessariamente dal contesto di una tesi universitaria; darò quindi solo brevi informazioni riguardo ad esse, non perché siano meno importanti a livello di luoghi visitati e documentazione raccolta, ma perché una ricostruzione adeguata richiederebbe anni di lavoro su documenti spesso di difficile reperibilità. Per quanto riguarda la spedizione del 1937 esiste sì lo splendido libro di Fosco Maraini [19] “Segreto Tibet”, che si basa proprio sulle impressioni di quel viaggio in cui accompagnò Tucci, e su quello successivo del 1948, sempre in compagnia dell’orientalista; tuttavia nelle sue descrizioni i due itinerari non sono distinti e il libro è da considerarsi più un’opera di ricordi e descrizioni che un diario di spedizione; inoltre gli itinerari delle spedizioni del 1937 e del 1948 in parte coincidono, ed è dunque difficile capire a quale delle due Maraini si riferisca quando descrive luoghi, incontri ed impressioni; il libro è inoltre praticamente privo di qualsiasi cronologia. La sua opera resta comunque fondamentale nell’ambito degli studi su Giuseppe Tucci, ed il suo apporto personale e culturale ai viaggi del più noto orientalista italiano è indiscutibile.
Giuseppe Tucci, durante la spedizione del 1937, partì da Gangtok, capitale del Sikkim, per visitare i monasteri più antichi ed importanti, come Iwang e Samara, lungo la via commerciale che univa Kalimpong a Lhasa; questa strada era stata costruita dagli Inglesi dopo l’intervento militare in Tibet del 1904. Tucci arrivò a Gyantse e poi ritornò indietro per la stessa strada. Gyantse venne descritta in un articolo, pubblicato originariamente sulla rivista “Le vie del Mondo”[20]e poi ristampato di recente nel volume “Il paese delle donne dai molti mariti”; [21] Ai suoi templi, da Tucci studiati in maniera approfondita, furono dedicati i tre tomi del quarto ed ultimo volume di Indo-Tibetica. Fosco Maraini, ingaggiato come fotografo, arricchì grandemente i risultati della missione con i suoi scatti diventati giustamente famosi [22]. La spedizione del 1939 aveva invece lo scopo di studiare i monumenti del Tibet Centrale, al fine di verificare se in queste zone esistessero templi e cappelle edificate agli albori della diffusione del buddhismo e se ci fossero opere d’arte che potessero completare le ricerche delle missioni precedenti sullo sviluppo artistico del Paese delle Nevi, stabilendo una connessione tra l’arte antica del Tibet e quella di altri paesi limitrofi.
Questa spedizione ebbe luogo da giugno a ottobre del 1939: Tucci partì da Gangtok in direzione nord fino a Kampadzong, da dove proseguì per raggiungere il centro monastico di Sakya, dove la carovana si fermò a lungo. Poi proseguì per Lhatse, sulle rive dello Tsangpo [23], seguendo il corso del fiume sino a Shigatse. Da qui fu presa una strada meno battuta che rese possibile allo studioso la visita di Zhalu, Ngor, Narthang e Pokhang. Raggiunse poi Gyantse da dove rientrò poi nel Sikkim seguendo la via già percorsa nel 1937. Fotografo e cartografo della spedizione fu l’alpinista ed ufficiale dell’esercito italiano Felice Boffa Ballaran [24]. Il primo luogo visitato fu Sakya, antica capitale del Tibet durante la dinastia mongola, durante la quale, sotto Qubilai (1215-1249), gli abati di Sakya ricevettero l’investitura sul Tibet. Sakya fu un importante centro politico, culturale ed artistico, nonché luogo di confluenza di influenze indiane e cinesi; ciò nonostante la sua importanza fu spesso ignorata da viaggiatori dell’ottocento e primi del novecento, come Sarat Chandra Das [25], che vi passò nel 1879 e ne accennò solo brevemente nell’opera Journey to Lhasa and Central Tibet, oppure Theos Casimir Bernard [26] in Penthouse of the gods, che quasi la ignorò pur avendoci sostato per qualche giorno nel 1937. La strada più veloce che arrivava a Sakya partiva da Gangtok nel Sikkim, seguiva la valle del Lachen e passava oltre la catena himalayana transitando per il passo Kangra La; questa era una strada carovaniera molto meno battuta di quella che aveva come itinerario Gangtok, Natu-La, Chumbi, Gyantse, che era la più battuta e ricca di traffico. La strada del Kangra La era meno percorsa perché non transitava per nessun centro commerciale così importante come Phari o Gyantse, che erano diventati importanti empori per gli scambi commerciali tra India e Tibet. La strada di Sakya passava per Kampadsong (4500 metri), sede di una prefettura: essa era come Lhatse una delle sedi che dipendevano direttamente da Tashilumpo; il luogo era molto freddo poiché spazzato dai gelidi venti himalayani.
La via continuava poi per Doptra (4450 metri), vicino alle rive del lago Tsomotretung, valicava il Keyi La e scendeva nella fertile valle di Chiblung, con molti villaggi circondati da campi d’orzo, prodotto principale di queste zone insieme ad un tipo di carte fatta con le radici di una pianta locale. Sakya [27] nel 1939 era costituita principalmente da grandi monasteri ed un piccolo villaggio. Vi era un piccolo mercato, ed erano presenti monaci della setta Sakyapa, con a capo un gran Lama dotato di autorità religiosa e politica, sotto il controllo di Lhasa. I monasteri vengono visitati da Tucci: essi contenevano pregevoli raccolte di opere d’arte e ricche biblioteche, anche se avevano subito saccheggi durante le guerre tra Sakya e le sette rivali. Da Sakya la spedizione riparte verso Ovest seguendo a valle il corso del Krumchu [28] fino ad arrivare Gyan, piccolo monastero con un grande stupa costruito forse nel XIII secolo e contenente tracce di pregevolissimi affreschi; vicino a questi monumenti sorgeva un grosso monastero appartenente alla setta Gialla. Gyan si trovava in una piccola gola con davanti un’immensa valle fertile e ben coltivata a campi di orzo fino a Lhatse, sulle spnde del Brahmaputra. Lhatse era una prefettura dipendente da Tashilumpo: vi era un modesto mercato, un monastero della setta Gialla, nonché un forte costruito su una rupe a strapiombo sul fiume, molto antico ma rifatto in tempi recenti.
Da Lhatse la carovana prosegue per Tashilumpo passando per Phuntsoling, su un grande sperone sopra il Brahmaputra. Phuntsoling, era anch’esso monastero della setta gialla, ma fondato da una setta poco diffusa nel Tibet, chiamata Jonang[29]: l’antico convento era quasi completamente distrutto, ma restava un grande stupa con pitture molto antiche e di grande valore artistico e alcune cappelle meno antiche, o comunque restaurate in tempi recenti. Dopo Phuntsoling si lascia alle spalle il Brahmaputra per percorrere la carovaniera diretta a Tashilumpo, attraversando Bodong, molto rovinato dalla guerra tra Nepal e Tibet, Tru, con le rovine di un grande stupa nascosto in una gola sulla sinistra della strada e poi Kangchen, gran monastero della setta Gialla. Successivamente viene valicato il passo di Tra e si scende nella ampia valle desolata del Narthang-chu. Qui viene superato il monastero di Chumig e si arriva a Narthang, dove si trovava la più antica stamperia del Tibet centrale. Qui si stampava il bsTan-gyur in 225 voumi e il bKa’-‘gyur in 100 voumi, ovvero le più grandi raccolte di testi buddhisti, contenenti la traduzione delle opere più importanti dal sanscrito al tibetano. Questo era uno dei monasteri più antichi della zona, e nelle sue stanze immense erano conservate in apposite scaffalature le tavole di legno sulle quali erano incise le migliaia di pagine delle scritture sacre: le tavolette facevano da matrice per la stampa.
Da Narthang si prosegue con una breve marcia fino a Tashilumpo e Shigatsè: le due città sono vicinissime, a meno di un miglio l’una dall’altra. Tashilumpo era la città sacra, una città-monastero: nel suo perimetro vi era un grande tempio costruito da dGe-‘dun-grub che ne era stato il fondatore, le tombe dei cinque Panchen Lama che si erano succeduti fino al 1937, le università, le scuole teologiche e le abitazioni dei monaci tibetani, cinesi e mongoli. La stamperia era meno importante di quella di Narthang, ma conteneva le matrici delle opere di tutti i Panchem Lama, in tutto 35 volumi. Shigatzè era dopo Lhasa la città più grande del Tibet: grande bazar e centro di commerci col Nepal; Shigatsè era insieme punto di confluenza delle carovaniere che scendevano da Shang e dalla pianura a nord del Brahmaputra. Nel mercato si potevano incontrare anche numerosi musulmani di origine kashmira, e si potevano trovare, oltre che che vari tipi di cose da mangiare, stoffe cinesi, oggetti in ceramica e alluminio, di provenienza giapponese, cappelli di feltro e panno importati attraverso l’India dall’Italia, terraglie e ornamenti femminili di produzione nepalese.
Da Shigatsè si poteva piegare verso su e arrivare in quattro giorni a Gyantse attraverso la valle del Nyang-chu. Tucci invece preferisce tornare a Narthang e da lì penetrare nella catena montuosa che fiancheggia la valle del Narthang-chu. Viene visitato il monastero di Ngor, che conteneva una preziosa raccolta di manoscritti sanscriti, e vengono valicati due passi di montagna non altissimi ma piuttosto impegnativi poiché privi di sentiero. Poi la carovana scende a Shalu, uno dei più antichi e celebrati gampò del Tibet, nel quale erano conservati bellissimi affreschi di influsso cinese del XIII secolo e altri dello stesso periodo, eseguiti però da artisti mongoli. Shalu apparteneva invece ad una setta particolare chiamata Shalupa dal nome del posto: qui viene raggiunta la strada carovaniera principale che univa Shigatsè a Gyantse. Da qui la spedizione prosegue attraversa Patsab, di fronte a Gadong, sulla riva destra del fiume, e Chogro, ridotto ad una sola abitazione, fino ad arrivare a Nesar, dove sorgeva uno dei più antichi templi tibetani, secondo la tradizione; le poche pitture conservate erano antichissime. Sulla riva destra del fiume si trovava il convento di Piokhang, che Tucci visita per studiarne i manoscritti e le pitture. A settembre si arriva a Gyantse dove la spedizione raggiunge la strada che univa il Sikkim a Lhasa, dove viene accolta festosamente dagli amici tibetani incontrati nei precedenti viaggi. Dopo aver lasciato Gyantse, dove aveva sOstato per qualche giorno, Tucci rientra in India alla fine di ottobre ponendo così fine alla spedizione tibetana del 1939.
Le ricerche dello studioso avevano avuto scopo specialmente di studi storici e archeologici; la documentazione fotografica e la raccolta di reperti erano stati tali da permettere uno studio completo e definitivo sulla storia politica, artistica e religiosa di gran parte del Tibet. Inoltre le centinaia di manoscritti in sanscrito recuperati e fotografati nelle biblioteche dei monasteri contribuirono grandemente allo studio della civiltà indiana. Furono eseguiti rilievi dei luoghi, strade, itinerari e mercati, alfine di correggere le carte geografiche ancora molto imprecise, pubblicate in India dalla Survey.
Note:
[1] Il conte Parassitele Piccini, ricco benefattore milanese amico di Tucci, dal 1937 al 1943 fu membro della Commissione di vigilanza e di consulenza di quella che era la Biblioteca Civica della Città di Milano, ora Biblioteca comunale a Palazzo Sormani.
[2] Purang era il nome dato al distretto, che designava anche la capitale. Era la prima delle quattro prefetture in cui era suddiviso il Tibet occidentale. Il paese è conosciuto anche con il nome di Taklakot.
[3] Questa è una delle Triadi divine più celebri del buddhismo Mahayanico e del lamaismo. I pellegrini indiani riconoscono invece in queste figure Rama, il fratello Lakshmana e la moglie Sita.
[4] Una delle più celebri incarnazioni del Buddha : la leggenda di Nor bzan è una delle più note e diffuse del Tibet
[5] Zorawar Singh Kahluria (Kahlur 1786 – Taklakot 1841), celebre generale Dogra che, dopo aver conquistato il Ladakh , tentò di saccheggiare il Tibet e depredare Lhasa, ma venne sconfitto e ucciso . In Tibet era ricordato col nome di Singpa, il leone, e nonostante egli fosse loro nemico, i Tibetani ne cantavano ancora le gesta come se fosse un eroe nazionale.
[6] Per gli indù questa montagna è sacra perché la loro tradizione afferma che sulle sue cime si ritirò il re Mandata per meditare; i tibetani credono invece che nei suoi ghiacci sorga il palazzo di Guhyasamàja, divinità dell’esotersimo buddhista .
[7] Le frequenti raffigurazioni delle divinità nell’amplesso non hanno nessun significato osceno, ma sono simboliche rappresentazioni della pienezza della beatitudine dell’essere supremo, che è sintesi di conoscenza e atto rispecchiati dalla Dea e dal Dio.
[8] Il nome Trugò significa letteralmente “la porta del bagno”, intendendo con ciò il luogo dove dovevano compiersi le prime abluzioni nell’acqua sacra del lago; ci sono infatti due modi per rendere omaggio al lago di Brahma: tuffandosi nelle sue acque e girandogli intorno a destra.
[9] Nei monasteri del Tibet spesso si trovavano stamperie, che su richiesta producevano copie di testi sacri, cronache, biografie di lama e santi e guide per pellegrini; chi desiderava una copia di un testo portava con sé la carta necessaria alla tipografia del convento.
[10] Cozampa fu uno dei più grandi asceti indiani e impartì l’iniziazione a discepoli tibetani, fra cui il famoso Marpa, traduttore di opere mistiche e maestro di Milarepa. La tradizione afferma che fu Marpa ad introdurre l’Hatayoga in Tibet.
[11] Gli indù e i buddhisti girano intorno alla montagna sacra tenendo la destra, i Bonpo invece la tengono a sinistra, venendo incontro quindi agli altri pellegrini, tra cui la carovana di Tucci. Tucci era molto interessato alla religione Bonpo, poiché di essa si conosceva in Occidente ben poco. Nel corso di questa spedizione lo studioso riuscì a raccogliere una buona collezione di manoscritti di questa religione.
[12] Il nome stesso della caverna significa “il miracolo” e con questo nome vuole ricordare uno degli episodi più importanti della vita di Milarepa, svoltosi in questi luoghi secondo la tradizione. La leggenda racconta che il Kailasa era ai tempi venerato più dai Bonpo che dai Buddisti, e il personaggio più autorevole della comunità Bonpo era un celebre stregone chiamato Naro Bon ciung; Milarepa, capitato nelle sue peregrinazioni da quelle parti, volle trascorrere una primavera in meditazione nella grotta di Zuprul ma il maestro Bonpo si oppose e ne scaturì un duello magico tra i due. Le fonti lamaistiche affermano che vinse Milarepa, quelle Bonpo non concordano.
[13] Tirthapuri significa “città sacra”, ma il suo vero nome era Pretapuri, ovvero “città dei trapassati”, cioè luogo di spettri. Essendo presenti in quel luogo sorgenti sulfuree, la fantasia dei pellegrini lo aveva descritto come una bocca dell’inferno
[14] Nella biografia di Rin c’en bzan po è scritto che qui a Mangnang nacque e visse uno dei più celebri discepoli del grande maestro, ovvero il lotsava (traduttore) di Mangnang.
[15] Questo luogo era noto come Shangsi nella carta della Survey, ma era noto ai locali come Dagktenpa, probabilmente prendendo il nome dalle rupi che circondavano la valle. Questa strada era poco battuta ed era percorsa solo dai rari mercanti che andavano da Tsaparang a Toling passando per Piang Dunkar.
[16] In realtà Piang e Dunkar erano due paesi molto vicini. Con il termine “paese”, in questa zona del Tibet, praticamente si intende sempre dire “monastero”.
[17] Questo tempio era chiamato così (mgon k’an) perché conteneva l’immagine di stucco del Gon po’, cioè lo spirito tutelare del villaggio.
[18] Arhat è il santo che è giunto a meritare il nirvana. Figura ideale del buddhismo più antico, rimasto come ideale delle varie scuole del buddismo hinayana. Il buddhismo mahayana ha invece dato maggiore preminenza alla figura del bodhisattva, cioè di colui che si è meritato il nirvana ma vi rinuncia per restare nel mondo e aiutare gli esseri meno fortunati sul cammino verso la salvezza. La tradizione e l’iconografia considerano in modo particolare gruppi di 16 o 18 arhat, rappresentati in compagnia del Buddha. Esistono anche gruppi di 500 arhat. Trattandosi di uomini comuni che sono riusciti a mertitarsi il nirvana, gli arhat sono sempre rappresentati con caratteristiche particolari: le loro immagini sono spesso ritratti di popolani, artigiani, contadini, eremiti, come gli artisti potevano averne conosciuti nella vita. In Tibet c’erano parecchi gruppi scolpiti di arhat, in genere con cospicui influssi cinesi. Il gruppo degli arhat era spesso anche rappresentato nelle pitture murali e sui thanka.
[19] Fosco Maraini nasce a Firenze il 15 novembre 1912 da Antonio Maraini, noto scultore di antica famiglia ticinese, e da Yoi Crosse, scrittrice di padre inglese e madre polacca. Maraini trascorre l’infanzia e l’adolescenza a Firenze compiendo coi genitori frequenti viaggi in Italia, Inghilterra, Svizzera, Francia e Germania. I legami familiari della madre con il Sud Africa, l’India e diversi altri paesi del mondo, nonché una spiccatissima e precoce curiosità per l’Oriente fanno si che a ventidue anni s’imbarca come insegnante d’inglese dei cadetti dell’Accademia Navale di Livorno, in crociera con la nave scuola “Amerigo Vespucci”, verso le coste del Medio Oriente. Ha modo così di visitare l’Egitto, il Libano, la Siria e la Turchia. Nel 1935, sposa Topazia Alliata, discendente di un’antica casata siciliana, dal matrimonio con la quale nasceranno le tre figlie Dacia (1936), Yuki (1939) e Toni (1941). Nel 1937 parte al seguito di Giuseppe Tucci per una lunga spedizione in Tibet. Questa esperienza convince definitivamente Fosco Maraini a dedicarsi alla ricerca etnologica e allo studio delle culture orientali. Tornato in Italia, conclude i suoi studi, laureandosi nello stesso anno in Scienze Naturali all’Università di Firenze. L’occasione di dedicarsi pienamente alla ricerca etnologica gli è offerta da una borsa di studio per ricercatori stranieri messa a disposizione della Kokusai Gakuyu Kai, un’agenzia del Governo giapponese. Nel 1939 si trasferisce con la famiglia a Sapporo, nell’isola di Hokkaido, dove effettua una serie di ricerche e di studi, incentrata sui caratteri dell’arte, della religione tradizionale e dell’ideologia degli Ainu, il “popolo bianco” del Giappone. I risultati di tali indagini sul campo verranno pubblicati a Tokyo nel 1942 in un importante lavoro monografico intitolato Gli Iku-bashui degli Ainu. Nello stesso anno pubblica, in lingua giapponese, un rèportage fotografico sui popoli del Tibet (Chibetto). Tra il 1942 e il 1943, lasciata Sapporo, ricopre l’incarico di lettore di lingua italiana all’Università di Kyoto. Dopo l’8 settembre, rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, Maraini, insieme alla sua famiglia e a un’altra trentina di residenti italiani in Giappone, viene internato in un campo di concentramento a Nagoya,; vi rimarrà sino al 15 agosto 1945. Dopo la fine della guerra rimane a Tokyo, lavorando per un anno come interprete dell’VIII Armata Americana. Nel 1948, subito dopo il ritorno in Italia, Maraini parte per un secondo viaggio in Tibet con Giuseppe Tucci. Da questa esperienza nascerà, dopo qualche anno di gestazione, Segreto Tibet, volume che verrà tradotto in dodici lingue e che porterà il lavoro etnologico e lo stile narrativo di Maraini all’attenzione del pubblico internazionale. Nel 1953, Maraini ritorna in Giappone dove gira una serie di documentari etnografici. Fra i documentari, oggi purtroppo in gran parte perduti, ricordiamo: Gli ultimi Ainu, incentrato sulla cerimonia dello iyomande; Ai piedi del sacro Fuji , sulla vita rurale giapponese, sull’architettura tradizionale e sul ritualismo scintoista; L’isola delle Pescatrici, girato – in parte con riprese subacquee – fra le Ama delle piccole isole di Hékura e Mikurìa, nell’arcipelago delle Nanatsu-to, la cui peculiarità etnologica Maraini propose per la prima volta all’attenzione del mondo occidentale. In quegli stessi anni, contestualmente alla ricerca visiva, Maraini raccoglie numeroso materiale che adopererà per la pubblicazione di tre volumi: Ore giapponesi del 1956 (tradotto in cinque lingue), L’isola delle Pescatrici del 1969 (tradotto in sei lingue) e, infine, Japan.Patterns of Continuity (1971), monografia illustrata sul Giappone, che, a tuttoggi, ha conosciuto dodici ristampe ed è stata tradotta in diverse lingue. Nel 1958, Maraini – da tempo appassionato alpinista – viene invitato dal Club Alpino Italiano alla spedizione nazionale al Gasherbrum IV ( 7980 m. ) nel Karakorum. L’anno successivo è capo della spedizione italiana al Picco Saraghrar nell’Hindu-Kush. Il resoconto alpinistico ed etnografico di queste spedizioni costituisce l’argomento dei due volumi G4- Karakorum, del 1959, e Paropàmiso, del 1960, che vengono ambedue tradotti in più lingue.
Fra il 1959 e il 1964, su invito del professor Richard Storry, lavora come ricercatore associato (fellow) presso il St. Antony’ s College (Dipartimento di Civiltà dell’Estremo Oriente) di Oxford. In quegli stessi anni, per conto dell’editore italiano De Donato , compie un lungo viaggio attraverso l’Asia, toccando l’India, il Nepal, la Thailandia, la Cambogia, il Giappone e la Corea. Nel 1966 torna in Giappone, dove lavora per una grande casa editrice ed effettua studi sulla civiltà e la cultura di quel paese. Fra il 1968 e il 1969, trascorre parecchi mesi a Gerusalemme dove raccoglie materiale per la pubblicazione di uno dei più bei volumi apparsi su quella città: Jerusalem, Rock of Ages, pubblicato dalla Harcourt Brace di New York. Nel 1970, il Ministero degli Affari Esteri lo nomina direttore delle pubbliche relazioni al Padiglione Italia dell’Esposizione Universale di Osaka. Lo stesso anno sposa in seconde nozze Mieko Namiki. Nel 1972 Maraini ritorna a Firenze dove gli viene affidato l’incarico di Lingua e Letteratura Giapponese presso la Facoltà di Magistero dell’Università degli Studi, incarico che lascia nel 1983 per raggiunti limiti d’età. Sempre nel 1972, fonda l’Associazione italiana per gli Studi Giapponesi ( AISTUGIA ) di cui è stato presidente fino alla morte. Fra i volumi pubblicati negli anni settanta ricordiamo: Incontro con l’Asia (1973), Tokyo, pubblicato in cinque lingue nella collana “Great Cities of the World” e Giappone e Corea, pubblicato nel 1978 sia nell’edizione italiana sia in quella francese. Nel 1980 pubblica con Giuseppe Giarrizzo un volume sulla civiltà contadina in Italia, in cui appare per la prima volta il materiale fotografico raccolto nel Meridione e in Sicilia negli anni immediatamente successivi alla guerra. Negli anni Novanta, Maraini ha continuato a rivedere ed ad approfondire i suoi studi giapponesi ( L’àgape celeste, 1995; Gli ultimi pagani, 1997) e ha pubblicato alcuni volumi di squisito contenuto letterario scritti, a partire dalla fine degli anni cinquanta, come puro divertissement, in un chimerico linguaggio “metasemantico”: Gnosi delle Fànfole (1994) e Il Nuvolario (1995). Su espresso desiderio di Maraini e grazie all’intervento dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, la sua biblioteca orientale e la fototeca delle immagini da lui riprese nel corso della sua vita sono state acquisite dal Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux, costituendo la base sulla quale è nato il Programma da Maraini stesso battezzato “Vieusseux-Asia”. Nelle intenzioni di Maraini i materiali da lui raccolti dovrebbero infatti garantire a Firenze e alla Toscana la disponibilità di strumenti per la conoscenza dell’Asia Orientale tali da garantire la ripresa di quell’interesse che era stato fino agli anni Trenta del Novecento così vitale. Nel 1999 il Gabinetto Vieusseux ha promosso una grande mostra antologica delle sue fotografie, Il Miramondo, esposta al Museo Marino Marini a Firenze, poi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma e all’Istituto Giapponese di cultura e quindi a Tokyo, al Museo Metropolitano di Fotografia. Nel 2001 il Gabinetto Vieusseux ha promosso e pubblicato il cospicuo volume Firenze, il Giappone e l’Asia Orientale. Nel 2003 sempre al Gabinetto Vieusseux si è tenuto il convegno internazionale dedicato a Relazioni tra scienza e letteratura in Oriente e in Occidente
La sua biografia in forma romanzata è stata pubblicata da Mondadori con il titolo Case, amori, universi. Negli ultimi tempi, profondamente colpito dalla strage delle Torri Gemelle, si era dedicato con appassionato impegno allo studio dei rapporti tra Islam e Occidente, riconsiderando le sue esperienze dirette di incontro con la cultura islamica. Fosco Maraini è morto a Firenze martedì 8 giugno 2004.
[20] «La capitale del Tibet centrale: Ghianzé e il suo tempio terrificante», Le Vie del Mondo, VI, 1938, pp. 741-758
[21] «Un tempio terrificante», in Tucci G., Il paese delle donne dai molti mariti, 2005, Neri Pozza Editore, pp.257-266.
[22] Le fotografie scattate da Maraini nel corso delle spedizioni con Tucci sono state pubblicate principalmente in: Dren-Giong. Appunti di un viaggio nell’Imalaia, fotografie dell’autore, Firenze, Vallecchi, 1939; Chibetto, Fosuko Maraini cho = Lontano Tibet, foto di Fosco Maraini, Tokyo, Shunchokai, Showa 17 [=1942] (testo parallelo in giapponese ed italiano); Segreto Tibet, presentazione di Bernardo Berenson, Bari, Leonardo da Vinci, 1951.
[23] Brahmaputra.
[24] Felice BOFFA-BALLARAN (Tavigliano (BI), 11 maggio 1897 – ivi, 17 gennaio 1994). Partecipa con il grado di Sottotenente degli Alpini alla I Guerra Mondiale, in forza al battaglione “Monte Cervino”. Nel dopoguerra entra all’Istituto Geografico Militare come topografo triangolatore, e in seguito fa parte della commissione Italo-Austriaca per la definizione dei confini. Fu poi tra gli ufficiali che fondarono la Scuola Centrale Militare di Alpinismo, inaugurata ad Aosta il 9 gennaio 1934. Nel 1939 il Ministero della Guerra lo indica a Giuseppe Tucci come la persona adatta ad accompagnarlo in veste di fotografo e cartografo nel Tibet centrale. Durante il secondo conflitto mondiale comandò prima il Battaglione Monte Rosa sul fonte albanese, ed in seguito il Battaglione di Allievi Ufficiali presso la Scuola di Alpinismo di Aosta. Dopo lo 8 settembre 1943 entra nelle formazioni partigiane delle «Fiamme verdi». Nel 1946 si dimette dall’esercito dopo aver rifiutato di giurare alla Repubblica. Entra allora nel Club Alpino Italiano come segretario Generale, carica che coprirà per un decennio. In virtù di questa posizione, nel 1953 fa parte della prima commissione del CAI che studiò la fattibilità del progetto di spedizione al K2 presentato da Ardito Desio. Dirige poi per 10 anni il Rifugio Livrio e la Scuola estiva di sci dello Stelvio.
[25] Sarat Chandra Das (1849-1917) fu uno studioso indiano della lingua e della cultura tibetana, conosciuto soprattutto per i suoi due viaggi in Tibet nel 1879 e nel 1881-1882.
[26] Theos Casimir Bernard (1908 – data di morte sconosciuta, probabilmente settembre 1947) fu un praticante di yoga Americano, seguace del buddhismo tibetano, studioso di religioni ed esploratore.
Theos Bernard fu uno dei primi studiosi di indologia e tibetologia alla Columbia University. Fu il terzo Americano a poter entrare a Lhasa e il primo Americano ad essere iniziato ai rituali del buddhismo tibetano. Egli pubblicò diversi studi sulla teoria e la pratica delle religioni dell’India e del Tibet, laureandosi con una tesi sull’Hatha Yoga. Fu inoltre il fondatore del primo centro di ricerca sul buddhismo tibetano negli Stati Uniti, e compilò una grammatica tibetana ponendo le basi per le traduzioni della letteratura indiana e tibetana in inglese.
[27] Sakya significa “terra pallida”, per il colore delle rocce della montagna sovrastanti.
[28] Piccolo fiume che attraversa Sakya passando per Ciustèn, dove si trovavano sorgenti di acqua calda sulfurea molto frequentate da malati e pellegrini.
[29] Questo nome deriva dal paese di Jonang in una gola a poche miglia a sud di Phuntsoling.
* * *
Giuseppe Tucci e la spedizione del 1948
La spedizione guidata da Giuseppe Tucci nel 1948 fu, per l’orientalista, l’ultima in Tibet, e venne dedicata principalmente all’esplorazione della provincia di Ü (dBus). Dopo aver ottenuto il permesso di visitare Lhasa, Tucci si diresse verso est lungo Tsangpo visitando Samye, monastero fondato da Padmasambhava nell’VIII secolo e raggiunse Zingji. Nell’itinerario del ritorno attraversò la valle di Yarlung, dove documentò per primo le tombe degli antichi re del Tibet, sotto la cui dinastia il buddismo si diffuse nel Paese delle Nevi, tra il VII e il IX secolo. Membri principali della spedizione furono, oltre a Tucci, Pietro Francesco Mele [1], Regolo Moise [2] e Fosco Maraini.
Tucci iniziò a preparare la spedizione sin dal 1946, inoltrando le richieste di autorizzazione al viaggio al Foreign Office inglese, tramite il Ministero degli Esteri; il Foreign Office costituiva il tramite tra il Tibet e l’estero, perché non era stata ancora proclamata l’indipendenza dell’India. Tramite della richiesta fu il conte Carandini, allora ambasciatore a Londra; il Governo inglese tuttavia consigliò a Tucci di rivolgersi direttamente a Lhasa. L’orientalista venne aiutato dall’amico sir Basil Gould, Political Officer nel Sikkim e capo di una missione a Lhasa; Tucci chiese al Governo Tibetano l’autorizzazione a visitare Lhasa, Samye, Yarlung e gli altri luoghi celebri del Tibet centrale e sud orientale che lo interessavano. Nel giugno 1947 il Ministero degli Esteri gli comunicava, tramite Londra, che la domanda era stata accolta; lo studioso prese così accordi con la Società Geografica Italiana e con la Marina Militare, che aggregò alla spedizione il tenente colonnello medico Regolo Moise e fece in modo che le due direzioni generali di Sanità e di Commissariato provvedessero all’equipaggiamento sanitario e al vettovagliamento necessario. Come fotografo venne scelto Pietro Mele e, in un secondo tempo, anche Fosco Maraini come addetto alla ripresa cinematografica. L’onorevole Giulio Andreotti fu d’aiuto nel finanziamento della spedizione, poiché vi furono sovvenzioni dai ministri del Tesoro e della Pubblica Istruzione; un altro aiuto economico fu fornito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche. Mele fornì il materiale fotografico e cinematografico e ci furono altre agevolazioni da parte del Loyd Triestino (viaggio di andata), della Moretti (due tende da campo nuove), della Ducati (una microcamera e una radio), della Confindustria (binocoli) e della Confederazione olearia. Parte della spedizione fu poi, come al solito, finanziato da Tucci stesso.
Nel corso di questo viaggio fu raccolto materiale scientifico estremamente importante e vennero copiate iscrizioni, raccolte cronache, libri liturgici e teologici, studiati i templi e i luoghi di interesse storico; furono inoltre pubblicati il diario della spedizione e il lbro fotografico Tibet di Pietro Mele [3]; assieme a quella del 1937, questa spedizione ispirò a Fosco Maraini il suo libro Segreto Tibet. Mentre venivano portati a termine i preparativi della spedizione, avvenne a Roma quel famoso avvenimento durante il quale Tucci smascherò un “impostore” grazie alle sue conoscenze sul buddismo. [4]
A Darjeeling, grande bazar di confine tra India e Tibet, popolato da mercanti di ogni razza, il professore cominciò a organizzare la carovana. La città era piuttosto vivace e attiva, costruita su colli circondati dalla giungla, e con davanti il maestoso Kanchejunga [5]. In breve tempo vengono aggiunti al gruppo un cuoco e il capo carovaniere Tenzin: entrambi avevano partecipato a molte scalate nell’Himalaya con i più noti alpinisti del tempo. Successivamente viene anche aggregato un lama mongolo di Urga, molto colto e preparato, chiamato L. Sangpo, dottore in teologia del monastero di Depùng, uno dei maggiori conventi della setta Gialla vicino a Lhasa. Con due piccole automobili Tucci, Moise, Mele e il lama partono per Gangtok, lungo la stretta strada della valle del Tista. A Gielle Khola viene raccolto Maraini, stanco e accaldato dopo il viaggio con i bagagli, e il 4 aprile raggiungono Gangtok (1667 metri), capitale del Sikkim [6], cittadina deliziosa con strade larghe e pulite, con il tempio e il palazzo reale. A Gangotk si affittano i cavalli per Yatung, il primo villaggio in territorio tibetano. Per procedere più velocemente e non suscitare diffidenza nelle autorità tibetane, il bagaglio viene ridotto al minimo, lasciando il materiale superfluo in custodia ad un mercante indiano; alla carovana vengono aggregati quarantuno cavalli.
Da Gangtok partivano due strade per il Tibet: una ad occidente per Lachen e il Donkhyala che portava a Kampadzong; l’altra, più orientale, valicava il Natula (4358 metri) e si ricongiungeva con la strada che partiva da Kalimpong ed entrava in Tibet attraverso il Jelapla (4387 metri). Tucci opta per il Natula, da lui già attraversato altre volte. A Changu, prima tappa dopo Gangotok, Tucci è portato in jeep per le prime dieci miglia, fino ad un ponte franato, poi a cavallo e a piedi gli altri diciassette chilometri fino al rifugio di Changu, un bungalow costruito in una conca nevosa con un lago. Mele e Maraini praticano un po’ di sci data la quantità di neve, che sul passo è piuttosto fonda. Sul Natula viene raccolta una pietra e depositata su di una roccia abitata dallo spirito che presidia la montagna; su bastoni sottili erano legate banderuole con su scritte preghiere e nastri multicolori offerti dai carovanieri di passaggio. Varcata la frontiera la spedizione arriva in un giorno a Yatung, piccolo villaggio lungo e stretto, posto tra due barriere di montagne boscose sulle rive del fiume Chumbi le case erano tutte di legno con il tetto in pietra ma, ad un paio di chilometri di distanza cominciavano le prime case tibetane, a Chema e a Pipitang, piuttosto imponenti, con ampie finestre incorniciate con legno decorato. Tucci è ricevuto dall’agente commerciale tibetano che lo invita per un tè tibetano [7], e incontra anche il capo del villaggio, chiamato ghenpo, che significa vecchio: egli aveva il compito di fornire provviste, legna da ardere e cavalli a chi possedesse il passaporto regolare. Non era possibile proseguire oltre Yatung senza il lasciapassare rilasciato da Lhasa. Il 13 aprile Tucci aveva mandato un telegramma alle autorità tibetane in cui le informava del suo arrivo e chiedeva un permesso per sé e per i compagni: tuttavia il permesso veniva concesso al solo Tucci, che si era dichiarato buddista. Questo telegramma di risposta lasciava poche speranze, tuttavia Tucci tentava con ogni mezzo di persuadere il governo tibetano affinché almeno il medico potesse seguirlo nel viaggio; la sosta a Yatung durava quindi più del previsto. Tucci prega un lama della setta rossa di compiere una cerimonia esorcistica chiamata barcè selvà, ovvero “eliminazione degli ostacoli”; questo rituale dura due giorni, dei quali il primo posto sotto il presidio di Padmasambhava, il secondo sotto Giampeiang, dio della sapienza. [8]; la cerimonia avviene nella cappella privata di un vecchio amico di Tucci, con una liturgia solenne e complicata di offerte, inni e gesti. Dopo l’esorcismo si passa al Ta, (vaticinio o sperona che lo compie), dove una donna sulla cinquantina legge il futuro sullo specchio; dopodichè il lama riprende le invocazioni e viene posseduto dal dio; egli getta poi alcuni grani di riso sullo specchio e comanda alla donna di parlare: ella dice di vedere tre uomini che camminano verso Lhasa. Il messaggio che arriva il giorno dopo non conferma però la divinazione: il permesso di recarsi nella capitale è concesso soltanto a Tucci; il Tibet stava attraversano un periodo di forte chiusura al mondo esterno. Il lasciapassare inviato a Tucci gli garantiva, oltre al permesso di recarsi a Lhasa, la fornitura di cavalcature [9] e animali da soma e, dietro pagamento del prezzo corrente nel paese, alloggio, combustibile, barche per il passaggio di fiumi e cibo.
Il 24 maggio l’orientalista prende commiato dai suoi amici e parte da Yatung con venti cavalli e provviste in abbondanza, preceduto dal lama e accompagnato dal cuoco e dal capocarovaniere. La strada è poco più di un sentiero che congiunge l’India con il Tibet attraverso il Sikkim; insieme ai mercanti si incontrano anche monaci e pellegrini, tra cui abati di grandi monasteri, come l’incarnato di Dunkar, ora quattordicenne, incontrato da Tucci nell’”incarnazione” precedente, quando questo abate e teologo era molto vecchio. Tucci aveva l’abitudine di portare dall’Italia parecchie provviste, per non dover sopravvivere solo di cucina tibetana (tsampa [10] e carne di montone o yak), e aveva con sé carne in scatola, verdura, pasta e conserve di frutta. Viene quindi ripercorsa dall’orientalista per la quarta volta la strada della lana fino a Gyantse, normalmente percorribile in nove tappe e posta sotto il controllo di un agente del Governo indiano; i centri principali erano soltanto due, posti alle estremità: Yatung e Gyantse; in entrambi era posto un distaccamento di truppe indiane per la sicurezza dell’agente commerciale e della carovaniera. La carovana raggiunge Pharidzong, primo ingresso nel paesaggio tibetano e importante prefettura; i prefetti erano due, orientale e occidentale, uno laico e l’altro ecclesiastico. Pharidzong era il bazar dove convergevano le carovaniere della lana e in cui si stabiliva il cambio corrente tra la rupia e la moneta tibetana; da qui partivano i sentieri per un altro paese all’epoca proibito: il Bhutan. Lasciato Pharidzong, la strada proseguiva sul passo di Tangla, a 4600 metri; poi scendeva a Tuna e passando per Docen arrivava a Kala, in mezzo a laghi e montagne ghiacciate; era raro incontrare persone su queste strade: qualche pellegrini, qualche lama itinerante, qualche mercante o carovaniere; i villaggi erano scarsi, poveri e di poche case, anche i campi erano inariditi. Lungo la strada erano costruiti alcuni bungalow dove si poteva sostare e, in alcuni, anche telefonare a Phari o Gyantse, se le linee non erano guaste. Non vi erano molti monumenti da visitare o opere d’arte lungo questo percorso: quasi tutti i templi erano statti distrutti durante la guerra del 1904 e i pochi salvati erano stati completamente rifatti. In tutta la strada si trovavano solo tre templi di notevole interesse: Samara, Iwang e Nenying, descritti dettagliatamente da Tucci nel terzo volume di Indo-Tibetica [11].
Iwang, il più antico dei tre, era nascosto in una valletta a sinistra della carovaniera a metà strada tra Samara e Kangmar. Nella piccola cella vi erano immagini di Bodhisattva intorno a Buddha; vi erano poi pitture eseguite sul modello dell’arte khotanese introdotta nel Tibet da monaci che le guerre e la penetrazione musulmana a poco a poco facevano andare via dall’Asia Centrale. A Samara gli affreschi più importanti restavano nell’atrio, ma erano stati ritoccati; erano anche presenti statue di bronzo dell’XI secolo, con tanto di firma dell’autore incisa sul basamento, insieme con quella del monaco committente. Nenying era anch’esso uno dei monasteri più antichi della regione, circondato da un’imponente muro di cinta, con all’interno celle e templi, danneggiati però dalla guerra del 1904. Avvicinandosi a Gyantse la valle si allargava e diventava più verdeggiante. La città di Gyantse era la terza, in ordine di importanza, del Tibet. La sua popolazione, ai tempi della spedizione del 1948, oscillava tra le cinquemila e le settemila persone. L’autorità principale era il Chenciun, un dignitario ecclesiastico con funzioni di agente commerciale del Governo tibetano.
Tucci voleva sostare a Gyantse soltanto un paio di giorni ma, essendo arrivato in un giorno di festa, la sosta divenne più lunga. Vi era una compagnia di attori provenienti da Kyomolung. vicino Lhasa, e tutti gli abitanti erano corsi fuori città a vedere lo spettacolo: tutti i negozi erano chiusi e la città sembrava disabitata. Anche Tucci assiste allo spettacolo degli attori girovaghi: una rappresentazione con scene improvvisate e parodistiche di profeti, pellegrini, musulmani e cinesi, con sberleffi e allusioni sarcastiche. Rispetto a quando era passato qui nel 1939, l’orientalista nota una maggiore ricchezza, case nuove e prezzi delle mercanzie aumentati: in dieci anni il prezzo della vita nel Tibet era triplicato. Gyantse era sempre stata una città molto importante: nel XIV e XV secolo fu la capitale di un vasto principato che arrivava fino a Phari e Kampadzong ed ebbe una parte notevole in quel periodo travagliato della storia tibetana; poi la sua importanza lentamente declinò. Nella città era presente un cumbum, cioè un grosso ciortèn, chiamato Tondol, e una serie di cappelle affrescate. A Gyantse terminavano i bungalow: di qui in poi si doveva dormire in tenda o chiedendo ospitalità alle famiglie tibetane. A nord-est della città si trovava il campo dove venivano esposti i cadaveri, in maniera che avvoltoi, lupi e cani se ne nutrissero.
La strada per Lhasa passava ad oriente di Gyantse: lungo la valle del Nyeruchu costeggiava i campi di Tra ring, un feudo della famiglia omonima, con piccoli villaggi di case bianche, rovine di monasteri e casolari. In questa valle i Tibetani fecero resistenza alle truppe inglesi che, durante la guerra del 1904, dopo aver espugnato Gyantse, marciavano su Lhasa. Le testimonianze archeologiche si fanno ora più presenti, con parecchie rovine di villaggi e monasteri. Si passa sotto a Ribeche e ai due piccoli monasteri di Ringan, poi si incontrano le rovine di un gigantesco ciortèn [12], intorno a cui le carovane girano sulla destra. Più avanti, sulla sinistra del fiume, erano presenti file di 108 ciortèn che costeggiavano le rovine di un grande monastero e di un villaggio distrutto chiamato Piling; si passava per Gyaridong e Gyatrak, piccoli conventi e villaggi ridenti. Gobshi è la prima tappa: un luogo importante come nodo stradale, costituito da poche case e rovine di un forte; il nome stesso voleva dire “quattro porte”, cioè le porte delle quattro strade: quella a est, che andava a Ralung, chiamata anche strada della Legge perché giungeva a Lhasa, quella a sud chiamata strada di Gninro o del legno, perché dal sud (Bhutan) proveniva il legname; quella di Gyatrak o dell’orzo a ovest, perché sui campi fino a Gyantse cresceva abbondante l’orzo e, infine, a nord, quella di Dociag, o starda del ferro.
Fino a qualche decennio prima dell’arrivo di Tucci, Gobshi era una prefettura, poi, essendosi sempre più ridotta la popolazione, il paese perdette importanza e fu abbandonato. A circa un giorno di marcia, in una gola a sud-est, si trovava una cappella chiamata Gninrodemogon, considerata come uno dei monumenti più antichi di questa regione, ma nel 1948 completamente abbandonata: restavano pochissime pitture, risalenti al XIV secolo. Tucci si ferma poi a visitare il monastero di Kamodong, appartenente alla setta rossa, precisamente ai Gningmapa: era uno di quei monasteri detti “Serchim”, cioè di monaci sposati; era dedicato a Gurociovan di Lhobrag e posto sotto la sorveglianza di un monaco imparentato con questo celebre maestro del XIII secolo. Nel tempio non si trovava nulla di interessante, a parte una reliquia molto venerata: una pietra con orme di piedi attribuite a Padmasambhava. A Ralung si risale a 4500 metri e, dopo una sosta per la notte, Tucci visita il monastero omonimo a sei chilometri di distanza, a quasi 4900 metri, alle falde della catena del Norgincangzan. Più che un convento poteva essere definito una città conventuale, in cui monaci e monache avevano anche figli tra di loro; il monastero era uno dei più celebri della regione: fu sempre considerato come una delle roccaforti dei Caghiupà e residenza preferita di Ghiarepà di Tsang., Qui soggiornò e scrisse una guida del luogo uno dei maggiori maestri della setta, Pemacarpo, poligrafo e teorico dell’esoterismo tibetano. Il gompà era disposto intorno al tempio centrale, il Zuglacan, di enormi dimensioni; vi si accedeva attraverso un grande atrio, con pilastri altissimi che la tradizione diceva venuti dal Buthan miracolosamente volando nel cielo; sulla parete erano rappresentate le figure dei quattro protettori dei punti cardinali e la vita dei maestri. Le cappelle all’interno erano imponenti e maestose; in quelle a sinistra, giusto all’entrata, troneggiava una figura di Zepamè, dio della vita infinita, e vicino a lui Dugparinpocè, il maestro fondatore della setta Dugpa. A destra Sakyamuni tra i due discepoli Sariputra e Maudgalyana e gli dei guaritori. In una cappella minore c’erano di nuovo gli otto “guaritori”; in fondo, al centro, si apriva la cella principale dedicata a Maitreya, il Buddha futuro.
Successivamente Tucci, sotto consiglio delle sue guide, visita i templi di Drolma [13] e di Dorgeciàng [14]. Uno degli oggetti più preziosi conservati a Dorgeciàng era una lampada indiana del XII secolo, di bronzo dorato, foggiata a fiore di loto, con ciascun petalo lavorato a rilievo. Nel piano superiore erano venerate le immagini dei lama Dugpa: una galleria di statue rappresati la serie dei santi, il “lameghiù”, le persone fisiche nelle quali si incorpora il supremo maestro. Sopra, nel Uzè, ovvero nell’ultimo piano, si trovava Dorgeciàng circondato dal “lameghiù”. Il Goncàn [15] era il tempio più antico di Ralung: nel centro, in un grande ciortèn, erano racchiusi delle reliquie; sulle pareti vi erano affreschi molto importanti, ma in gran parte rovinati, che rappresentavano la vita di alcuni maestri della scuola.
Un altro tempio di notevoli dimensioni era quello dedicato a Dorgesempà, con pitture rappresentati la serie dei maestri e ai lati della porta i protettori dei punti cardinali, i quattro Ghialcèn, tutte risalenti al XVIII secolo. Circa cinquecento metri oltre la città conventuale sorgeva isolato un grande Cumbun, di poco più piccolo rispetto a quello di Gyantse, ma come quello contenente all’interno molte cappelle affrescate. Si conosce la data di esecuzione di queste pitture perché in una delle cappelle, dedicata ad Avalokitesvara, si vedeva l’immagine di Sonamtobghiè, reggente del Tibet dopo la morte del sesto Dalai Lama. [16]. Scendendo dal piano superiore si passava successivamente per le cappelle di Samara, Hevajra, Guhysamaja e Kalacakra, gli Ydam più venerati dalla setta Gialla. La guida conduce poi Tucci nelle altre cappelle tra cui quella di Zepamè, un altro Goncàn con figure nere e gialle, attribuite dalla tradizione a Pemacarpò.
Dopo aver concluso la visita al Cumbun Tucci visita il Potrai, palazzo dell’abate, dove erano raccolte le immagini di Zepamè, di Pemacarpò e degli altri maestri della setta. Dopo Ralung la strada proseguiva sul Karolà (5124 metri), in mezzo ai ghiacciai; a Nangkartse la carovana si accampa due giorni, per cambiare i cavalli e visitare il monastero di Samding. Questo gompà, costruito da Potopa Cioglè Namghiàl, era un convento famoso per l’incarnazione della dea Dorgepamò, dalla testa di cinghiale, che si reincarnava periodicamente: al tempo della visita di Tucci era una bambina di tredici anni. Vi erano pellegrini che stavano arrivando per una festa che si sarebbe svolta di lì a pochi giorni. Nel tempio maggiore l’immagine centrale rappresentava Sakyamuni circondato da otto Bodhisattva in piedi, sullo stile di quelli di Iwang, ma più recenti. Alcune pitture, di cui rimanevano poche tracce, risalivano al XVI secolo. Il Goncàn era ricolmo di spade, lance e corazze appese: secondo la tradizione erano tutte state prese agli Zingari che, durante la loro invasione del Tibet, tentarono invano di depredare il tempio.
Il monastero era costituito da di versi templi grandi e piccoli, con intorno le tende nere dei Drog pa, pastori nomadi che vagavano con le loro mandrie. Erano presenti enormi reliquiari d’argento con incastonate pietre semipreziose con i resti delle varie incarnazioni della dea. A Nangkartse Tucci incontra una sua vecchia conoscenza del viaggio del 1935: il figlio del prefetto di Davadzong, che lo riconosce subito, essendo molto rara la visita di europei in quelle zone. Il tempio era molto rovinato, si erano salvate però alcune statue di bronzo dorato della migliore epoca dell’arte tibetana, fra cui alcune di origine indiana. Nel Concàng erano conservate alcune thanka antiche del XV o XVI secolo. Una delle camere delle forte era indicata dalla guida come quella in cui era vissuto il quinto Dalai Lama. Vi era poi da visitare il tempio Lundùp, costruito sul fianco della montagna e appartenente ai Caghiupa; nel tempio principale erano venerati i Buddha dei tre tempi Dipankara, Sakyamuni e Maitreya; in questo tempio e nel Ducàng si potevano vedere molte immagini di bronzo di epoca antica, alcune sicuramente nepalesi.
Dopo Nangkartse la strada costeggiava il lago Yamdrog. Fra Nangkartse e Pede partiva la strada per Tashilumpo, che passava per l’imprtante feudo di Rinpùng. A Pede le rovine del forte si specchiavano nel lago placido, e da lì si diramavano le due carovaniere per Lhasa: una attraversava il Kampala e veniva chiusa il 15 giugno, quando il fiume ingrossava e rendeva il traghetto pericoloso; l’altra passava per il Nyapso la. Dato che era in tempo Tucci decise di passare per il Kampala, dove si imbatte in diverse carovane armate per paura dei banditi., nonché in un variopinto corteo nuziale. Appena valicato il Kampala, il paesaggio cambia e compare il Brahmaputra, chamato Tsangpo dai Tibetani, che esce da una stretta gola sormontata dai picchi rocciosi ghiacciati del Karag. A Chaksam si attraversava il Brahmaputra con una grossa zattera ma, anticamente, vi era un ponte sospeso con due grosse catene su cui poggiavano le traversine, agganciate a due pilastri: le assi di legno erano scomparse ma c’erano ancora le catene. Qui Tucci visita anche un monastero, dedicato all’asceta Tanton Ghiepò, celebre maestro del Quattrocento che progettò il ponte e divenne un santo. Il monastero era costruito sul fiume, con il corpo centrale costituito dal Ducang, la sala delle adunanze, dove non vi era nulla di notevole a parte i Buddha dei Tre tempi sulla parete di fondo, seppur rifatti e ridipinti da poco tempo; vi erano poi immagini di Zepamè e Cenrezig e una splendida statua di un Bodhisattva, con caratteristiche che ricordano l’arte cinese. Tucci non nota nient’altro di significativo dal punto di vista artistico in questo tempio. Attraversato il fiume, la strada correva verso Chushul, in mezzo a pietraie inframezzate da zone più verdi, scendendo a 3400 metri; il paese contava poche decine di case piuttosto ricche, boschetti, campi e in alto, sulla cresta di un dosso inaccessibile, le rovine di un forte. La città era deserta poiché si stava svolgendo una festa religiosa e tutti si erano recati in un monastero vicino per la celebrazione, che si concluderà tuttavia con una rissa di ubriachi.
Tucci prosegue poi per Natang [17], sempre costeggiando il Kychu, lungo una pista di trentacinque chilometri, tra rari villaggi e scarse coltivazioni. A Netang rimanevano tre templi, ormai ridotti in rovina dalle guerre. Il primo si chiamava Dolma lacàn: nella prima cappella, in un ciortèn di bronzo dorato, era conservata la veste di Atisa, in un altro ciortèn la tradizione raccontava fossero deposte le reliquie di Marpa, maestro di Milaraspa. Seguiva una cappella dedicata a ventuno manifestazioni di Tara, in bronzo dorato, tutte sedute nella posizione prescritta dalle regole iconografiche, coperte da un paludamento di seta. In una cappella che si poteva far risalire ai tempi del fondatore, vi erano immagini della dea protettrice, una statua di Maitreya in piedi, del tardo periodo Pala e dietro, una grande statua di Buddha, che la tradizione diceva essere venuta dall’India, con tracce di pitture nepalesi nell’alone di legno. Seguiva poi una terza cappella, dedicata ai Buddha dei tre tempi, ciascuno con ai lati i proprio accoliti: quattro da ciascun lato, essi vigilavano le statue degli otto Bodhisattva in piedi, simili a quelle del tempio di Iwang, anche se più recenti.
Circa un chilometro prima di arrivare nel paese sorgeva il Cumbum lacang, edificio di proporzioni modeste, tutto intonacato di giallo, costruito per proteggere due grossi ciortèn: il primo, con una cupola sommatale, era quello meglio conservato e aveva intorno grossi festoni dipinti di colore scuro, il cui disegno era marcato con spesse linee nere come quello del Cumbum di Gyan, studiato da Tucci nella spedizione del 1939; l’altro ciortèn a sinistra era più irregolare. La tradizione affermava che all’interno di questi monumenti fossero conservati ts’a ts’a e forse anche i resti del grande maestro. Nella parte centrale vi era una cappella nella quale erano venerate immagini di Atisa circondato dai suoi discepoli più celebri: Dronton e Nagtso lottavano. Sulle pareti all’interno erano disposte molteplici figure di Drolma, di colore verde con i capelli neri, disegnate con marcate linee rosse. Il terzo tempio sorgeva vicino al villaggio ed era dedicato ai sedici arhat: al centro si vedeva Sakyamuni con ai lati due statue di Bodhisattva di bronzo, di fine artigianato indiano; molto più recenti erano invece le immagini di stucco dei sedici arhat dispiegati intornio, con aggiunte anche, come spesso avveniva, le figure del Hvasan, un monaco cinese, e di Dharmatala. Nel Goncan era presente una rappresentazione di Scengen, personaggio connesso dalla tradizione con Dharmatala. I custodi del tempio erano due anziani molto devoti.
La strada da Netang a Lhasa seguiva per la costa rocciosa che precipita sul Kyichu e continuava poi per una pianura satura d’acqua e cosparsa da banchi di sabbia, fino ad arrivare ad un tumulo di sassi, da cui era possibile scorgere Lhasa per la prima volta. Dopo essere passato dal convento di Taktà, il cui incarnato era un reggente del Tibet, e da Depung con le sue cappelle e monasteri, Tucci giunge infine sotto al Potala. [18]. A Tucci viene affidata come guida il giovane Namghial Traring, di famiglia nobile: egli viene descritto all’orientalista come un funzionario che parlava un ottimo inglese e aveva modi distinti. Al professore viene poi assegnata una casa di due stanze, con cucina, servi e custode; dalla finestra si vedeva il Bompori, che domina Lhasa, e subito fuori era possibile anche ammirare la massiccia mole del Potala. A Lhasa era giorno di festa: il quindicesimo giorno del quinto mese la gente si riversava fuori dalle case in riva al fiume per fare il bagno, giocare a dadi, bere il ciang, cantare e danzare. Tucci rimane confinato una settimana nella casa assegnatoli, perché i doni che aveva portato per il Reggente erano rimasti indietro per strada, e non sarebbe stato cortese girare per la città senza aver prima incontrato e omaggiato la suprema autorità spirituale del paese e il capo temporale. Ogni visita richiedeva infatti l’offerta di una sciarpa e di doni vari a seconda della dignità e del rango del funzionario. Le sciarpe erano di tre tipi principali diversi: nanzò, asci e zosciè; la prima era di seta molto pregiata, la seconda sempre di seta, ma di minore qualità e la terza era di una stoffa più ordinaria. Questi doni erano venivano posti da parte su un vassoio di legno, e mai direttamente consegnati nelle mani dell’ospite. Gli altri doni erano principalmente oggetti che potevano essere apprezzati dai tibetani di rango, come pistole, orologi di buona fattura, macchine fotografiche, radio, binocoli e penne stilografiche, nonché smalto per le unghie e rossetto da labbra per le signore. Le missioni cinesi e inglesi avevano motori per alimentari le stazioni radio telegrafiche, ed era in costruzione una centrale elettrica a circa sei miglia a est di Lhasa, per dare luce all’intera città.
Tucci, consultandosi con Traring, durante la settimana di pausa forzata stabilisce che, dopo essere ricevuto dal Dalai Lama e dal Reggente, andrà dai due tutori del Dalai Lama, poi dal ciambellano, dal tesoriere del Reggente, quindi dagli Sciape, i tre membri del Gabinetto; seguiranno i due ministri degli esteri, uno monaco e l’altro laico. [19]. L’orientalista viene anche visitato da Kukula, figlia del Maharaja del Sikkim, dal maggiore Kaisher Bahadur, ministro plenipotenziario del Nepal incontrato dal professore a Kathmandu nel 1935 e infine anche dal Kipug, l’interprete ufficiale che accompagnerà Tucci e Namghial Traring nelle visite alle autorità. L’unico strappo alla clausura volontaria di quella settimana viene fatto per la cerimonia di apertura della festa, a cui erano presenti dei ciochiong, ovvero degli indovini che divenivano veicolo di un dio che si esprimeva attraverso di loro, dando consigli o annunciando presagi; a questo seguivano danze di vario tipo. Al termine della settimana di “reclusione” Tucci si reca dunque a porgere omaggio al Dalai Lama, ancora fanciullo di quattordici in età scolare; la visita a Sua Santità era una faccenda piuttosto complicata e il cerimoniale prescritto molto elaborato, con prostrazioni, offerte e benedizioni. Egli era considerato un’incarnazione divina, epifania terrestre di Cenrezig; il giovane proveniva da Jekundo nel distretto di Amdo, in territorio cinese.
Il Reggente, capo effettivo dello stato fino a quando il Dalai Lama non fosse diventato maggiorenne, era scelto di solito fra gli abati dei quattro grandi monasteri della setta Gialla nella zona di Lhasa: Muru, Kundeling, Tsomoling e Tsecholing; nel caso di cui parliamo invece il governatore del Tibet era l’abate di Traktà, un convento piuttosto moderno a pochi chilometri dalla capitale. Egli era un incarnato, e abitava vicino al Dalai Lama, al di sopra della grande cappella del Norbulinga, piena di statue dorate. La cerimonia della visita è in questo caso molto più semplice, e il governatore vuole conoscere da Tucci varie notizie sul mondo occidentale e sull’opinione che gli occidentali hanno del Buddhismo. La giornata continua con la visita ai due yonzin, i tutori del Dalai Lama: uno è un bodhisattva, capo del monastero di Ganden e profondo conoscitore di logica e teologia, l’altro è il grande incarnato di Depung, principale precettore del giovane Dalai Lama. La giornata finisce con recandosi dal Cianzòd, amministratore del Reggente.
Il giorno successivo Tucci va ad incontrare gli sciapè, alti funzionari del Tibet, due ecclesiastici (di cui uno assente poiché inviato come Governatore nel Tibet orientale) e due laici. L’amministrazione delle finanze era affidata a quattro Zipon, e vi erano anche quattro Zeciag (tre monaci e un laico) che amministravano il tesoro del Dalai Lama e quattro Laciags che provvedevano ai beni ecclesiastici. Veniva poi il ministero degli esteri chighialekung composto da due Zasa, il Surkhang padre dello Sciapè assistiti da un monaco, un laico e tre ufficiali di rango inferiore. Tucci fa visita agli Sciapè a casa, non negli uffici, per dare alla conversazione un tono più amichevole e confidenziale. Dopo tutte queste visite, che a Tucci paiono quasi un esame, egli comincia a sentirsi a suo agio e fra amici a Lhasa.
Il termine “Lhasa” vuol dire in tibetano “la terra degli dei”, epiteto giustificato dal fatto che essa si trova in un’ampia valle verdeggiante con campi e alberi; anche il clima era più mite rispetto al resto del Tibet. La popolazione era di circa trentamila persone, ma vi era un flusso continuo di carovane, pellegrini e mendicanti che transitavano nella città. Oltre a tibetani di ogni parte del paese vi erano anche vi erano nepalesi, cinesi, musulmani del Ladakh stabilitisi a Lhasa da molte generazioni con piena libertà di culto. Bazar e templi costituivano l’intelaiatura della città, intorno vi erano le case e sopra di esse brillavano le cupole dorate del Zuglacàn e del Ramoce. Il Zuglacàn, affollato da pellegrini, era la cattedrale di Lhasa, dove viene adorato il Giobò, immagine di Buddha che la tradizione ricorda come donata al primo re del Tibet, convertito al Buddhismo, da un imperatore cinese, ma in realtà più recente di qualche secolo. Intorno a quest’immagine si svolgeva su tre piani una fila interminabile di cappelle con rappresentazioni del pantheon buddista. Oltre all’immagine del Giobò della quale erano molto interessanti stilisticamente la cornice, i pilastri ed il trono, di notevole Tucci nota una statua di Maitreya, Buddha del futuro, che era venerata all’ultimo piano. Esaminando una per una le innumerevoli cappelle l’orientalista trovò alcune tracce di pitture antiche in mezzo alle tante figure più recenti, per lui attribuibili al XV-XVI secolo. Fra le varie reliquie mostrategli, Tucci menziona una ciotola che sarebbe appartenuta al gran re Songonzengampo, custodita in specie di brocca d’argento.
Il Ramocè è l’altro tempio principale di Lhasa: secondo la tradizione sarebbe stato fondato da una delle mogli di Songonzengampo. Qui Tucci scopre un’iscrizione incisa su una piastra di rame dorato, opera nepalese attribuibile al XV secolo, posta sulla facciata di un tempietto dedicato a Sedon; la piastra era lavorata a sbalzo ed era divisa in vari riquadri, con scene della vita di Buddha. Lo studio delle statue e delle cornici porta Tucci a ritenere che i due Giobo siano molto più recenti di quanto la tradizione vorrebbe e sia le sculture nepalesi che le statue non siano anteriori al XII secolo. Il Ramocè era costruito sul modello solito: dall’atrio, sul quale erano dipinti i quattro protettori dei punti cardinali, si entrava nella sala dell’offizio, le cui pareti erano coperte da affreschi non più antichi del XVIII secolo; in fondo alla cella troneggiava l’immagine del Giobo, simile a quella dello Zuglacàng; le si rendeva omaggio girandole a destra nel corridoio per il passaggio.
Nelle vicinanze vi era il tempio di Zepamè, con l’immagine del dio nella cella e sulla parete i mille Buddha del Bhadrakalpa, tutti con le stesse fattezze. Il tempio del Ghaibum Lacàng [20], conosciuto anche come lo Sci tro [21], era stato rifatto a nuovo; vi dominava l’immagine di Padmasambhava e, sulla parete, lo spaventoso corteo dei Naragtondu, divinità infernali accoliti del dio della morte. Vi era poi un altro tempio dedicato ai Ciochiòng, protettori della dottrina e oracoli che predicono il futuro e ai quali era affidata la tutela delle sorti del Tibet: nel tempio vi erano lama delle sette Gialla, Rossa e Saskyapa, unite insieme per il destino del paese. Nel tempio di Zambhala, al piano superiore, aveva una raffigurazione di Sakyamuni con cornice di stucco e sulle altre pareti gli otto Bodhisattva in piedi: erano opere rifatte in tempi piuttosto recenti, sul modello di statue antiche, secondo uno schema che si ripresentava inalterato in tutto il Tibet centrale. Infine viene visitato da Tucci il Chakgpori, sulla cima di un colle isolato tra il Norbulinga e il Potala: era consacrato agli dei della medicina ed era anche un collegio medico; vi si arrivava per un sentiero ripidissimo.
Il Potala era invece un po’ fuori città, e ogni gioRno frotte di pellegrini salivano le sue scale per adorare gli dei e pregare. Qui la religione era sentita come in nessun altro luogo della terra: dominava tutta la vita, regolava il calendario, ispirava l’arte, un po’ come da noi durante il Medioevo, ma forse ancora di più. Tucci ha l’opportunità di visitare il Potala il quarto giorno del sesto mese, durante il quale tutte le cappelle, solitamente chiuse, erano aperte al pubblico. Il Ducàng, sala delle adunanze, aveva proporzioni gigantesche, con enormi pilastri grossi come torri che circondavano uno squarcio quadrato nel soffitto, da cui entrava la luce nel vano vasto come una piazza: per terra lunghe file di cuscini usati dai monaci durante le cerimonie solenni. Tucci viene condotto dalla guida ad esplorare tutte le cappelle, specialmente soffermandosi in quelle dove si trovavano i resti dei Dalai Lama defunti; pochi erano gli oggetti antichi: il Potala era stato saccheggiato più volte. Nella cappella dove erano custoditi i resti del settimo Dalai Lama, in un piccolo ciortèn d’argento, si sarebbero conservate le reliquie di Cianciub Őd, il re che nell’XI secolo aveva invitato Atisa a venire in Tibet per predicare il Buddhismo. In un altro sacrario si potevano vedere le opere d’arte più preziose del Potala: tre immagini, trasportate a Lhasa dal tempio di Khirong, al confine tra Nepal e Tibet, per sottrarle al pericolo delle invasioni nepalesi: le statue erano però coperte interamente da bende e paludamenti, ed era quindi impossibile per Tucci studiarle. [22] Sulla punta estrema del Potala fu scavata la grotta dove la tradizione vuole che il Srongzengampò meditasse: a guardia vi era una statua di Maitreya. La cappella più ricca era quella del tredicesimo Dalai Lama, morto nel 1933, con lampade d’oro massiccio, vasi e offerte d’argento dorato con pietre incastonate. L’orientalista, contrariamente a quanto riferito da altri viaggiatori, trova il Potala pulito e ben tenuto, però dice anche di trovarlo deludente dal punto di vista dell’archeologo e dello storico dell’arte, a causa dei saccheggi, in particolare da parte dei mongoli. Il bazar circondava i templi da ogni parte, ed era pieno di negozi specialmente cinesi e nepalesi.
Oltre alla città laica a Lhasa erano due presenti due città monacali: Depung e Sera; ai tempi della spedizione del 1948 nella prima avrebbero abitato settemilasettecento monaci e nella seconda circa un migliaio in meno. Più lontano, sulla cima di una montagna a più di quattromila metri di altezza, sorgeva Ganden, che contava tremilatrecento monaci. Queste erano vere e proprie città monacali, in cui abati, frati e seminaristi vivevano da soli o in piccoli gruppi, in case vicine raggruppate intorno ai templi, dedicandosi alla preghiera e alle pratiche mistiche e ascetiche. Depung sorgeva a circa sette chilometri ad ovest di Lhasa, in una vallata cinta da montagne. Questo convento prendeva il nome dal celebre luogo dell’India meridionale dove, secondo la tradizione esoterica, sarebbe stato rivelato dal Buddha un celebre testo della gnosi buddhista del kalachakra, la “Ruota del tempo”. Tucci si reca ad incontrare i quattro abati, essendo il monastero diviso in quattro seminari differenti, ciascuno dei quali retto da un campò, quasi sempre un incarnato, i cui resti alla morte venivano poi raccolti in ciortèn giganteschi laminati d’oro e d’argento. Terminata la visita agli abati Tucci comincia la visita del monastero: vi era la sala delle adunanze, infondo alla quale troneggiava la statua di Maitreya, divinità tutelare di Depung molto venerata e due belle statue di Padmapani molto antiche. Il primo collegio, chiamato Ngagtatsan, era dedicato allo studio dei Tantra; nella sala delle adunanze si aprivano sulle pareti molte cappelle: al centro i Buddha dei tre tempi con otto Bodhisattva; in alto pitture del XVII secolo rappresentavano i sedici arhat. Nel Losal tatsan era mostrata ai visitatori una raffigurazione di Sonamtagpa, grande erudito della setta Gialla, nel Gomangtatsan erano dipinte le 108 opere di Buddha e l’ultimo collegio, il De yan, era dedicato agli dei della medicina.
Preso commiato dalle guide che lo hanno accompagnato, Tucci scende a Nechung sulla strada di Lhasa, nella quale dimorava l’Oracolo di stato: tutto era moderno, a parte i vecchi pilastri del cortile, e non vi erano iscrizioni. Il convento di Sera era costruito a nord di Lhasa ed era diviso in tre collegi o seminari: Sera ce, Sera mea e Ngag pa; poi Tucci parte per il monastero di Ganden, distante circa cinquanta chilometri da Lhasa, passando prima da Yerpa, uno dei luoghi più antichi del Buddhismo tibetano. Yerpa era una città monacale scavata nella roccia, a dodici chilometri da Lhasa; vi meditarono con Padmasambhava e Atisa i pù grandi apostoli del Buddhismo tibetano. La rupe era cosparsa da grotte, alcune di difficile accesso, e nelle maggiori erano state costruite tempiettie cappelle; Tucci trascorre qui la notte e all’alba del giorno successivo comincia la visita delle cappelle, tra cui quella dedicata ai tre protettori del Tibet Avalokitesvara, Vajrapani e Manjusri, la grotta di Atisa con una statua dell’apostolo, quella dei sedici arhat con le statue dei santi in terracotta e alcuni affreschi del XVIII secolo. In questo luogo Tucci ha l’oppurtinità di conoscere e parlare con asceti e d eremiti, alcuni dei quali vivevano in esilio volontario murati in grotte solitarie.
Nel Campa lacang vi era una statua di Maitreya con otto Bodhisattva, di stile cinese, ristuccate di recente ma probabilmente molto antiche. Oltre ai Bodhisattva si ammiravano simulacri del padre e della madre di Campa, Drolma e Namsè; vicino a Drolma era l’immagine di Mar ston, il maestro di Mar che fece costruire la grande statua a cui era dedicata la cappella; erano opere del XIII secolo manomesse durante le guerre e restaurate in tempi recenti. Nel Cioghialpug era venerata una grande statua di Ciagtongciaton, Avalokitesvara con mille braccia e mille mani: la statua non aveva alcun interesse artistico, e lo stesso può dirsi di alcune tracce di pitture, forse del XVI secolo. In alcune caverne che si aprivano sui fianchi della grotta principale si vedevano immagini di Srongzengampò con le due mogli. In un’altra cappella la guida indica a Tucci le statue di Begtse, di Pandenlamo, protettrice di Lhasa, e altre divinità terrifiche; in un angolo un frammento di un linga, simbolo maschile con cui l’esoterismo indiano rappresenta il potere creatore di Shiva, probabilmente portato qui da qualche maestro indiano delle scuole tantriche.; nella stessa grotta si conservava il cappello che Lha lun, uccisore del re apostata Langdarma, portava durante la danza nel corso della quale scagliò la freccia che lo uccise. Si passava quindi nell’angolo più segreto e antico: nel mezzo della grotta su un grande basamento a forma di trono stavano seduti quattro Buddha che Tucci identifica in Aksobhya, Amitabha, Amoghasiddhi e Ratnasmbhava; nel centro Vairocana con diadema a cinque facce, ciascuna delle quali racchiudeva un Buddha [23]; sulle pareti della grotta figure di Buddha e Bodhisattva: a sinistra Dipankara [24], a destra Maitreya e Lokesvara: tutte le immagini erano di grande finezza, probabilmente risalivano ai tempi di Atisa, eseguite da artisti indiani venuto forse in Tibet al seguito dell’apostolo. Nel Davapug, dove avrebbe meditato Padmasambhava, a Tucci viene offerto del ciang in una scatola cranica. Gli altri templi Treumaserpò, il Lamalacang, il Zogcang, con pitture del XVIII secolo, non offrivano elementi di particolare interesse; più in basso vi era la cella di Atisa e il Tsepamelacan, con le statue degli otto Bodhisattva e i due ciochiong Hayagriva e Acala, tutti restaurati in tempi recenti; su un pianoro, il trono di Atisa, dove secondo la tradizione il santo predicava ai suoi discepoli, all’aria aperta, con sopra la mole della montagna divina Lha ri.
Il 24 luglio Tucci scende a Dechen dzong e prosegue per Ganden, lungo una strada in salita decisamente ripida, essendo il convento posto su una montagna impervia che domina la valle del Kyichu. Al monastero Tucci si stabilisce in un ambiente di due stanze enormi laccate di rosso e d’oro. Il giorno dopo comincia la visita accurata dei templi rossi dai tetti dorati: nel sancta sanctorum di Ganden erano conservati i resti di Tsonkhapa e dei suoi due principali discepoli rinchiusi in due grandi reliquiari di bronzo dorato. Sulle pareti vi erano notevoli affreschi e nel Yangpacen Lacang vengono mostrati all’orientalista altri monumenti contenenti reliquie di alcuni dei più celebri Tri pa (lettori) del monastero di Ganden. In questo monastero Tucci riesce anche a vedere i nanten, ovvero gli oggetti particolarmente sacri che non venivano mostrati senza prima aver otteuto un permesso spaciale dalle autorità del convento: le cose più interessanti erano un mandala del tipo lolan costruito, secondo la tradizione, da Chetrubgè, il cappello di questo maestro e alcune statue di bronzo. Dal sacrario dei nanten il professore passa poi a visitare la cella dove Tsonkhapa morì nel 1420, con pareti affrescate dell’epoca e il trono su cui sedeva il santo, di fattura nepalese del XV secolo.
Nel Campa Lacang si potevano vedere due statue del Buddha futuro, mentre nell’appartamento di Tsonkhapa vi erano stanze buie, basse, con le pareti ricoperte di affreschi anneriti dal tempo e dal fumo: pitture di stile nepalese con motivi in rilievo di stucco dorato. I collegi di Ganden erano due: Sciarze e Ciangze, la “punta est” e la “punta nord”: erano presenti arabeschi, dorature, pilastri imponenti e centinaia di pitture su tela che pendevano dal soffitto tra le colonne e anche diverse thanka ricamate, che la tradizione attribuisce a Gyaza, la moglie cinese di Srongzengam, ma in realtà opere ben più recenti su modello cinese. Ai margini dei conventi erano stati costruiti ricoveri per i pellegrini e locande per i monaci di passaggio che venivano a studiare a Ganden.; le donne non potevano invece passare la notte nel monastero. Dopo alcuni giorni Tucci parte da Ganden e scende a Dechen, fotografando lungo la strada immagini di Buddha, santi e Bodhisattva incise sulle roccie. A Dechen sorgeva un forte potente oggi in rovina e vi era un solo tempio notevole, dedicato a Campa, con una gigantesca statua di stile nepalese. Poco oltre Dechen vengono lasciati i cavalli e viene noleggiata una barca, passando di fronte a Tshkungtang, capitale di un feudo che ebbe grande importanza nella storia del Tibet, e infine si ritorna a Lhasa. Tornato nella capitale Tucci spende i giorni ancora a sua disposizione per visite di addio ai vari amici e autorità locali, che gli fanno visita e gli regalano parecchi libri di argomento religioso, storico, le linguistico come doni di congedo. Inoltre Tucci adotta una coppia di cani di Lhasa che porterà con sé in Italia.
Il professore decide di raggiungere Samye in barca, seguendo prima il corso del Kyichu e poi quello dello Tsangpo, senza così dover dipendere dalla carovana: noleggia quindi tre barche di giunchi e pelli di yak e salpa dalla Città Santa poco dopo mezzogiorno, per approdare due ore dopo a Ramagan, dove sorgeva un piccolo villaggio costruito sulle rovine di un famoso tempio; restavano soltanto, ai quattro angoli del tempio, quattro enormi ciortèn, e sull’angolo di nord-est un pilastro con una lunga iscrizione ricordava la fondazione del tempio e la devozione del re; alla sera Tucci si accampa a Magda, una capanna solitaria sulle rive del fiume. Il giorno dopo si reca a visitare il monastero di Samphu, uno dei più celebri del Tibet; la strada passava vicino alla tomba del suo fondatore, un piccolo sacrario con tetto di tegole smaltate di colore azzurro: purtroppo il professore non riesce a rintracciare il custode e non gli è possibile visitarlo. Il convento di Samphu era appartenente sia alla setta Gialla che ai Sakyapa, e non presentava praticare interesse storico o artistico. Nel tempio principale si apriva, in fondo all’aula delle adunanze, una cella separata con una grande immagine di Sakyamuni di fattura nepalese; su un altare vi erano le statue di Atisa e del fondatore del convento Lodenscerab, una statuetta di bronzo dorato con le fattezze di Tara. Sulle pareti della sala delle adunanze e dell’atrio erano dipinte le divinità principali dell’esoterismo della setta Gialla: Gigced, Ducor, Demciog, Sangduba: pitture di buona fattura ma nn anteriori al XVIII secolo.
Il giorno seguente Tucci ridiscende a Magda e ricomincia la navigazione fino a Chushu, approdando prima a Ushang, in una valle ridente sul fiume Kyichu. A Ushang il re Ralpacen aveva costruito un tempio ricordato dalle cronache, esistente ancora al tempo della visita di Tucci ma, sebbene mantenesse la pianta antica, era stato completamente restaurato. Vi erano quattro ciortèn piuttosto moderni, statue dei Buddha dei tre tempi restaurate sul modello antico e sopra la collina tracce di mura, probabilmente rovine dei castelli reali. Il 5 agosto l’orientalista raggiunge Chushul dove lo stesso giorno, poche ore dopo, arrivano anche Moise e Mele, che avevano aspettato a lungo a Yatung aspettando lungamente il lasciapassare che, seppur in ritardo, alla fine viene loro spedito. Fosco Maraini, non avendo ottenuto il permesso, era tornato in India da Yatung. La spedizione è dunque, seppur parzialmente, ricostruita: Tucci può ora di nuovo contare sulla perizia fotografica del Mele (le foto prese a Lhasa e lungo la strada dal fotografo ingaggiato nel Sikkim erano di qualità mediocre) e sulla preziosa assistenza medica e non del Moise. A Chushul sono ospiti di Tsarong, personaggio molto noto in Tibet poiché consigliere del precedente Dalai Lama e fautore della sua fuga in India per evitare la prigionia cinese; nel 1948 egli era Ministro delle finanze e presiedeva alla zecca e ai lavori pubblici.
Dopo due giorni si riprende la navigazione, sostando a Kongkadzong pe noleggiare le barche fino a Dorjetra. Nel villaggio di Sinpori viene visitato un tempietto famoso, fondato secondo la tradizione da un maestro indiano chiamato Vibhūticandra: il tempio, decisamente antico, era dedicato a Demciog e apparteneva alla setta Sakyapa; vi era una statua di Paocig, divinità tutelare del tempio, di origine nepalese, una lampada di pietra dal piedistallo massiccio e un piccolo pilastro davanti al tempio. Ricomincia poi la navigazione: in media la spedizione percorre sul fiume circa trenta o trentacinque chilometri al giorno. La prima sosta è a Dorjetra, un famoso monastero della setta Gningmapa nel distretto di Tra; vi risiedeva un incarnato, decimo della serie: un bambino di circa otto anni. Le cappelle erano piene di statue e di reliquiari contenenti i resti dei santi; il Ducang era la parte più antica del tempio, con affreschi comunque anteriori al XVIII secolo e una statua di Buddha con gli otto Bodhisattva.
A causa di una tempesta sul fiume, la spedizione non raggiunge Samye in un giorno solo ma è costretta ad attraccare a Zungkar; il 10 agosto vengono lasciate le barche e si prosegue a cavallo sino a Samye, uno dei monasteri più sacri del Tibet. Samye fu fondato nell’VIII secolo da Padmasambhava col favore del re Tisrondezen: fu più volte distrutto e ricostruito e rappresenta un’esposizione delle divinità del pantheon buddhista divisa in centootto cappelle; monaci appartenenti alla setta sakyapa, Gialla e Rossa conviveano nel gompà. Il tempio era costruito da un muro perimetrale che correva intorno alle cappelle disposte ai quattro lati del tempio centrale, che si elevava per cinque piani; in ciascuno di questi piani i simboli delle statue rappresentavano una diversa sfera mistica: dalla prima, più rozza e materiale intuizione del divino, si saliva progressivamente alle forme più alte e sottili. Nel primo piano, al Giobo Sakyamuni nella forma giovanile e diademata facevano corona dieci Bodhisattva in piedi, di stile cinese; i due ciochiong Tamdin e Mighiova erano i guardiani delle porte. Nel secondo piano si ripeteva lo stesso ciclo con la sola differenza che i dieci Bodhisattva e i due ciochiong erano di stile tibetano. Nel terzo piano al centro vi era Nanparnangzè: quattro statue rivolte ciascuna verso un punto cardinale e perciò disposte spalla a spalla del tipo Vairocana del Kunrig. Nel quarto ed ultimo piano era presente una raffigurazione di Demciog circondato dai ringà. Questo tempio era costruito come un diagramma mistico, un mandala: i vari sacrai racchiusi nel recinto corrispondevano ai quattro continenti principali e ai continenti minori in cui la cosmologia buddhista spartisce l’universo; i quattro templi corrispondenti ai quattro continenti maggiori erano disposti ai quattro punti cardinali e gli otto minori rispettivamente uno a destra e uno a sinistra di quelli; ai quattro lati del tempio centrale si trovavano quattro grandi ciortèn. Ad oriente sorgevano due piccoli tempietti dedicati al sole e alla luna. Vi era una cappella dedicata al fondatore del tempio, Pe dkar, piuttosto moderna. Non era rimasto quasi più nulla di antico in questi monumenti a causa dei ripetuti passaggi della guerra: restavano solo un’iscrizione all’ingresso del tempio e una campana di bronzo, dell’epoca della fondazione del tempio. Le cappelle maggiori erano costruite secondo le piante antiche: atrio e cella con corridoio di circumambulazione intorno; alla immagine principale se ne affiancano altre in piedi o sedute, con l’unica eccezione della cappella a ovest, dedicata a Giampal, che aveva un’abside rotonda, unico esempio del genere da Tucci ritrovato in Tibet.
Dopo Samye Tucci sale sul colle di Haspori, ad un paio di chilometri, dove un giorno sorgeva il palazzo reale, e dove il professore trova invece un modesto tempietto completamente restaurato e privo di interesse; scendendo poi da Haspori nel ritorno a Samye si incontrava sulla strada un altro grande tempio, costruito sul modello di quello centrale: nel primo piano vi era un Giobo circondato da Bodhisattva in piedi, nel secondo il ciclo del Kunrig, con una statua nepalese antica; nei pressi sorgeva un tempietto di piccole dimensioni, con al centro una statua di Padmasambhava con intorno immagini in bronzo di Bodhisattva: forse le uniche statue antiche che restavano a Samye, sebbeno fossero opere nepalesi del XIV o XV secolo. A Samye i membri della spedizione assistono ad una danza sacra, accompagnata da un’orchestra di trombe, tamburi, timpani e clarini. Vicino a Samye sorgevano luoghi molto importanti per la storia religiosa del Tibet: Tragmar, Yamalung e Chimpu. A Tragmar sorgeva un piccolo villaggio, feudo dello Zong di Samye, ma intorno si scorgevano rovine e tumuli; il tempietto moderno sulla cima della collina era conosciuto come il palazzo di Tisrongdezen, e vi erano contenute modeste statue di Padmasambhava e di Namparnangzè come unico ornamento.; più in basso sorgeva ancora più piccola, costruita nel presunto luogo di nascita del re. A Yamalung, ai piedi di una montagna boscosa, Padmasambhava si era fermato a meditare; Tucci rimane deluso di questo monastero, poiché nonostante l’importanza storica del luogo, non nota niente di particolarmente interessante, tranne la grotta dove Padmasambhava si ritirava per invocare gli dei.
Essendo Tucci febbricitante, viene mandato Moise ad esplorare il luogo, ma non trova nulla di interessante. Il 15 agosto la spedizione riprende il cammino per Ngari Tratsang: esso era un monastero imponente, che dominava la valle simile ad una fortezza: nella in fondo alla sala delle adunanze vi era una bellissima statua di Ciampà; sulle pareti, quattro per parte, otto Bodhisattva, e ai due lati della porta Tamdin e Zambala, tutte statue di accurata esecuzione. Sulle pareti della sala dei raduni si potevano vedere affreschi del XVII secolo, grandi figure dei 31 Buddha e le “108 opere” del Buddha. Nel tempio superiore Tucci scopre un’immagine del Lotsava di Tanag, un ciortèn di bronzo contenente le reliquie del santo, opera nepalese del XV secolo, e un grande reliquiario a forma di campana di bronzo dorata, splendidamente decorata con viticci e figure di Bodhisattva, opera cinese del tempo dei T’ang, da Tucci definito come uno degli oggetti più notevoli visti durante questa spedizione. Il campo viene installato a Ngari Tratsang, e Tucci si dedica all’esplorazione della contrada di On, la valle che dal fiume sale a nord fino a Choding, in una vallata larga, fertile e cosparsa di villaggi e campi coltivati. L’orientalista oltrepassa un tempietto, dove Tsonkhapa si sarebbe ririrato per meditare, e prosegue fino a Choding, luogo celebre nella storia della setta Gialla, poiché quel maestro ebbe qui visioni e rivelazioni importanti. Anche il santo Ghiese soggiornò in questo luogo, e le sue reliquie si conservavano in un grande ciortèn di argento coperto da gemme e pietre semi-preziose. Nel tempio di Giobo vi era una statua nepalese con le sembianze di Giobo vie ara una statua che rappresentava Giobo stesso in mezzo a due Buddha, e vi era anche un thanka ricamato con figure di Bodhisattva, con il nome di ciascuno scritto in caratteri cinesi. Choding era costruito nella parte alta della valle di On, con di fronte, a ovest, il tempietto di Keru costruito anch’esso dal re Tisrongdezen: esso era stato riftto, anche se fedelmente al modelo antico. Vi era qualche capitello antico nell’atrio, nella cella in fondo al Ducan Sakyamuni circondato da otto Bodhisattva e due ciorchiong di stile cinese del secolo XVI, in stile cinese. Vicino sorgeva una cappella dedicata ad Atisa, con una statua moderna del maestro e un piccolo ciortèn bianco nello stile dei classici stupa dell’India.
A Ngari Tratsang bisogna poi lasciare le barche perché il fiume si restringe e la corrente diventa forte, cosicché viene ricomposta la carovana e si parte per Densatil, uno dei luoghi più celebri del Tibet, fondato da Pagmo tru, famoso asceta dell’XI secolo. L’eremo rimase per qualche tempo sotto il dominio di Digung e poi divenne il sacrario della famiglia dei Pagmotrù, che nel XIV secolo divennero padroni di quasi tutto il Tibet: qui si trovavano le loro tombe. Il monastero si trovava a 4200 metri di altezza, in cima alle cascate di un torrente: il giorno di arrivo della carovana il convento è in festa. Nell’atrio aperto del tempio centrale erano disposti giganteschi ciortèn, che racchiudevano i reti degli abati e dei principi di questo luogo, che si trasmisero di generazione in generazione il trono abbaziale e quello politico.: erano colossali monumenti di bronzo dorato eseguiti da atisti nepalesi, forse con l’aiuto di maestranze tibetane; ai lati, sulla base, erano raffigurati i quattro protettori dei punti cardinali che delimitavano l’area sacra e tenevano lontane le forze ostili. Al centro della parete stava, impassibile e sorridente, una immensa statua del Buddha tutta dorata, realizzata secondo i modelli dell’arte nepalese. Le statue ai lati del Buddha rappresentavano Campa e Cenrezig. Sugli altari erano custodite statue di ogni genere ed epoca, sia indiane che nepalesi; Tucci è poi condotto dalla guida in una capanna nell’interno del tempio, la stessa in cui meditò il Drongon Pagmotru e sulla quale si sviluppò in seguito questo tempio enorme; all’interno della capanna c’era una statua di Ripocè seduto in contemplazione. Tucci e Moise trascorrono la giornata con i monaci e con la Signora Pandezan, moglie di uno dei più ricchi mercanti del Tibet.
Il 20 agosto la spedizione arriva a Zangrikangmar, con il grande palazzo dei feudatari, il Sandub potang, il tempio dedicato a Maciglab, celebre asceta donna tibetana. Zangrikangmar era alle dipendenze del monastero di Ngari Tratsang, sotto la setta Gialla: era tutto restaurato, ma con ancora qualche statua antica nel nel tempio maggiore e qualche affresco. La strada si allontana poi dal fiume e la salita diventa una dura ascesa tra passi di montagna, oltre i 4000 metri di quota; la carovana passa per Oka, con rovine di un antico castello disabitato e poche case addossate alla roccia, in un luogo freddo e desolato. Tucci è qui invitato dal prefetto a cena e da lui accompagnato a cavallo nelle visite ai monasteri. A Oka restava solo un tempio nel quale si veneravano i Buddha dei tre tempi circondati da dieci Bodhisattva in piedi; tra le statue erano visibili tracce di antiche pitture. A Zinji, a circa 5 miglia a nord-est vi erano tre templi principali: il primo era dedicato a Maitreya, Buddha del futuro, con una statua di Campa gigantesca nella parte più segreta del tempio, scintillante d’oro, ritenuta una delle più antiche statue del Tibet; intorno alle pareti vi erano otto Bodhisattva, e alla sinistra e alla destra della porta Tamdin e Ciagdor, modellati nello stile cinese. In un grande ciortèn d’argento sarebbe stati racchiusi i resti di Taranatha, un celebre poligrafo tibetano, il cui convento tra Sakya e Tashilumpo era stato visitato da Tucci nel 1939. In una cappella minore erano raccolte molte statue antiche, tra cui alcune nepalesi; nella sala delle adunanze le pareti erano affrescate con dipinti non più antichi del XVII secolo; il prefetto si adopera per copiare un manoscritto che Tucci non era riuscito a farsi cedere dai monaci: una cronaca del monastero. Con un lungo giro l’orientalista ritorna da Zinji a Oka passando per Cholung: luogo celebre perché fu eremo di Tsonkhapa, costruito alle falde dell’Odegungchial, in un luogo ombroso, verde e ricco d’acqua: nell’eremo non vi era tuttavia niente di interessante dal punto di vista storico-artistico.
Partito da Oka Tucci torna a Ngari Tratsang dopo aver attraversato il fiume in traghetto, su un barcone pieno di pellegrini, preti, mercanti, cavalli e pecore. A poca distanza dalla confluenza del fiume di Yarlung con il tsangpo sorgeva Tsetang, fondata nel 1390 e divenuta un grande monastero governato dagli abati Pagmotru. Data la sua posizione vicino alla strada carovaniera, Tsetang era cresciuta d’importanza e di popolazione, e aveva un ricco bazar che riforniva le provincie a sud dello Tsangpo, conosciute con il nome generico di Lhokha (il sud). Vi erano anche, come a Lhasa e a Shigatse, mercanti kashmiri da lungo tempo insediatisi nel Tibet e di religione musulmana, dediti a lavori di sartoria e a piccoli commerci. La valle di Yarlung è uno dei luoghi più leggendari del Tibet, ricco di storia e leggenda: in questo territorio sacro erano presenti moltissimi templi e monasteri. A Tsetang vi erano un prefetto laico ed uno ecclesiastico, anche un cichiab, un supremo governatore con il compito di sorvegliare tutti i diciottoprefetti della zona a sud dello Tsangpo: egli era anche un lama, e accoglie Tucci premurosamente nella sua villa. La visita ai monasteri occupa l’orientalista per parecchi giorni Si comincia con il Ganden ciokorling, fondato da Sonantobghie: esso era un complesso immenso, popolato da parecchi centinaia di monaci governati da un abate., con cui Tucci fa conoscenza; il monastero era nuovo e non c’era quasi nulla di notevole. Un altro grande monastero della setta gialla era il Ngaciò nel quale, quando fu ricostruito, vennero raccolti reperti salvati dalle guerre, che giunse parecchie volte in questi luoghi. Nella sala delle adunanze di questo tempio si potevano vedere le statue di dodico Bodhisattva e del Ciochiong, insieme ca molte statue antiche tra le quali spiccavano due Buddha in piedi, quasi sicuramente di origine indiana, e un frammento di bronzo dorato con decorazioni, che risaliva al migliore periodo artistico nepalese. Da questi reperti e dai ricchi ciortèn nepalesi che si erano conservati nel tempio è possibile farsi un’idea dei tesori accumulati un tempo in questa culla della civiltà tibetana.
Nel vicino tempietto, detto Ciocang gningpa, ovvero “il tempio antico”, oltre che le solite statue di Buddha e Bodhisattva, vi erano anche statue antiche. Sopra una collina si ergeva il Samtanling, sede di un grande lama della setta Sakya di nome Sonamghienzèn, e di altri celebri asceti tibetani; non restava quasi più nulla. Scendendo per un sentiero tortuoso si passava vicino al tempio cinese dove troneggiava una grande statua del dio della guerra Kuan ti; il tempio risaliva alla fine del 1700, e la sua presenza era dovuta alla guarnigione di soldati cinesi che risiedevano un tempo a Tsetang. Prima di tornare al campo ci si ferma a Trebuling, un monastero Sakyapa nel quale si ammiravano alcune belle thanka che raffiguravano la serie dei maestri della setta. A circa otto chilometri a sud di Netong si incontrava il grande tempio di Tantrup, costruito, secondo la tradizione, da Srongzengampò, uno dei più antici templi del Tibet e simile a quello di Lhasa. Gli elementi più notevoli erano le statue dei Bodhisattva di bronzo che circondavano la statua di Namparnangzè in fondo alla cella; notevoli anche le statue dei custodi delle porte, di stile cinese, nella cappella dedicata al quinto Dalai Lama; nell’atrio era presente una grossa campana di bronzo con iscrizione, unico reperto antico rimanente del tempio originale. Nel piano superiore Tucci è condotto dalla guida ad una cappella dedicata agli ottantaquattro siddha, maestri delle scuole esoteriche dell’India a cavallo tra il Buddhismo e l’Induismo, rappresentati, secondo l’iconografia tradizionale, in terracotta; nel Goncang si venerava come protettore del luogo Tsangpacenpò, ovvero Brahma.
Proseguendo sempre a sud nella valle di Yarlung, dopo aver visitato il grande monastero di Riwocholing, si arriva Yumbulakang, il castello dove abitava il primo re del Tibet cui giunse, essendo piovuti dal cielo alcuni libri, la prima rivelazione buddhista: era una torre a forma di pagoda cinese che svettava su un basamento quadrato sulla cima di uno sperone sassoso. Tutto qui era stato rifatto, e l’unica cosa notevole nelle varie cappelle era una statuetta nepalese di Dolma. Si scende per un sentiero ripidissimo arrivando a Lharu menghiè, tempio della setta Gialla, descritto nella guida per i pellegrini posseduta da Tucci come uno dei luoghi più sacri della zona; il tempio era su due piani: nel piano superiore vi era una bella statua di scuola nepalese di Candromà , e una grande statua in bronzo del Buddha, di fattura insolita. Il tempio al primo piano era conosciuto come l’ Onlacang, che assomigliava ai Goncang, dove erano raffigurate le divinità più misteriose e terrifiche.
Pochi chilometri a sud sorgeva il Potrang, il palazzo dei re del Tibet: venne ricostruito a valle, sotto forma di una casa modesta con niente di antico, a parte un ciortèn nepalese, nel quale sarebbero conservate le reliquie di Tisrongdezen. In questa zona, culla della civiltà tibetana, Tucci non trovoò quasi nessuna rovina risalente al tempo dei re, eccettuati Tragmar, Pottang e Chongye, dove il professore riuscì a scoprire parecchi tontè [25]. Per andare a Chongye, limite estremo verso sud di questa spedizione, la carovana piega verso Trashichode, grande monastero Sakyapa ai piedi di una collina , in mezzo agli alberi. Nella sala delle adunanze le pareti erano coperte di affreschi murali che ricordano thanka, raffiguranti i sedici Arhat, i Buddha invocati durante la confessione dei peccati, Demciog, Kyedor (il patrono della setta), il Duchichorlo, tutte pitture del settecento; in fondo alla cella, stava una statua del Buddha con ai due lati i monaci Sariputra e Maudgalyayana. Nella cappella dedicata a Nantose, protettore della regione nord e dio della ricchezza, vie era la sua statua circondata dagli otto cavalieri della sua scorta, i tadag. In altre cappelle vi erano statue di bronzo o di stucco che rappresentavano il lameghiu, la serie dei maestri della setta Saskya. Uno degli elementi più notevoli era l’ingresso del tempio con le statue dei quattro Lokapala che, con il loro aspetto minaccioso, tenevano lontane le influenze ostili dal tempio. La carovana riprende poi la strada fino a Reciunpug; Reciung era stato il più grande scolaro ell’asceta e poeta Milarepa, di cui scrisse una biografia. Sulla grotta era stato costruito un convento che dominava tutta la valle, ricca di vegetazione e case. Il convento era dei Kaghiupa: nella sala delle adunaze erano affrescati episodi della vita di Buddha, nella cella le solite statue di Buddha, gli otto Bodhisattva e i due Ciochiong; in altre cappelle era raffigurata in statue di stucco la serie dei maestri della setta.
Lasciato il fiume Yarlung la carovana comincia a costeggiare il Ciongyeciu, fino ad arrivare a Ciongye, dove era nato il quinto Dalai Lama, una delle più nobili figure della storia tibetana; le rovine del castello dove era nato, costruito sulla montagna, sbarravano la valle con mura merlate torrioni. Nell’ultimo pano della torre in cima alla fortezza vi era una cappella pericolante dedicata ai sedici arhat, senza opere antiche: la tradizione voleva però che sotto si trovasse la tomba di uno dei primi re del Tibet. Scendendo lungo il costone della montagna si giungeva allo Zon, ricostruito ai tempi dell’ottavo Dalai Lama sul disegno dell’antico castello dove dimoravano i principi di Chongye: la parte più bella era la sala delle adunanze, con il soffitto aperto da cui entrava la luce che illuminava le colonne massicce. Il campo viene piantato in un parco alberato sulla sinistra del fiume, dove ai membri della spedizione vengono incontro il prefetto, la moglie e il cognato, monaco e teologo.
Tucci cercava qui le tombe degli antichi Re del Tibet, delle quali quasi nulla si sapeva prima di questa spedizione, e su cui l’orientalista pubblicò poi un’importante monografia dal titolo The tombs of the tibetan kings. Tucci riesce a carpire alcune informazioni dagli abitanti del villaggio, e ben presto gli viene indicata la tomba del fondatore della dinastia tibetana: sull’altra sponda del fiume, in un tumulo circondato da resti di mura. Sul tumulo sorgeva un tempio, e tutt’intorno, nella campagna, altri tumuli [26]. L’identificazione degli altri tumuli, di cui si erano perse le steli, aveva come sola testimonianza la tradizione letteraria dal professore raccolta in antichi documenti. Per i Tibetani queste tombe non dovevano essere violate e profanate con degli scavi anche se, nel X secolo, quando l’ antica dinastia era caduta e la religione primitiva aveva preso il sopravvento, alcune tombe erano state saccheggiate.
Intorno a Chongye sorgevano vari templi, tra cui quello di Ribodocen della setta Ghelupà, con cappelle, templi e case dei monaci; sulle che partivano da Chongye in opposte direzioni, vi erano due conventi celebri: quello di Zeringjong, visitato da Moise, luogo di nascita di uuno scopritore di libri nascosti da Padmasambhava, i cui resti erano custoditi in un ciorten, e il monastero Gningmapa, totalmente rifatto in tempi recenti. La carovana riprende ora la strada del ritorno per Tsetang, sostando a Sonagthang, grande monastero di antica origine ma privo di opere notevoli e a Chandenlhakang, che Tucci non riesce a visitare a causa dell’assenza del custode. Da qui partiva un sentiero che conduceva alla “rupe di cristallo di rocca”, dove Padmasambhava si era rifugiato per le sue evocazioni, e dove vi erano grotte e piccoli eremi. A Tsetang la carovana si ferma per riposare e riorganizzarsi: ci sono alcuni problemi nel recuperare cavalli dai contadini riluttanti [27], cosicché Tucci è costretto a partire in ritardo, con la metà dei cavalli necessari e lasciando il bagaglio a Tsetang in attesa che giunga il resto della carovana. Dopo aver lasciato Tsetang la carovana, costeggiando il fiume Tsangpo, passa sotto Sheltra fermandosi a Ciasa, antichissimo monastero della setta Sakyapa: sull’architrave della porta, risalente con ogni probabilità alla fondazione del tempio, erano state scolpite undici figure di animali, e ai due lati, erano raffigurati quattro guardiani minacciosi. Al centro della cella rappresentazioni di Opamè, e Mitrupà; in un’altra cappella statue dei Buddha dei tre tempi con gli stessi tratti stilistici di quelli di Iwang e di Nesar.
In tre giorni si andava sa Ciasa a Mindoling, lungo una strada tra il fiume e le montagne; Tucci segue un cammino tortuoso secondo i luoghi da visitare, seguendo ora in particolare un libro tibetano scritto nel Settecento che guidava i pellegrini ai luoghi più sacri: essi coincidevano solitamente con quelli più antichi, che maggiormente interessavano l’orientalista. Questa zona era una delle più ricche del Tibet perché prosperava l’agricoltura, pur essendo utilizzate tecniche primitive. All’inizio della valle di Mindoling, a Tsongdüspa, sorgeva un antico monastero Sakyapa, con una grande raccolta di statue, alcune di grande interesse artistico; nel tempio, intorno alla statua cetrale, i soliti otto Bodhisattva, vestiti però all’indiana con il turbante attorno alla testa. Il convento di Mindoling sorgeva in mezzo ad una cerchia di montagne, con un grande Cumbum e altri edifici, rifatti però di recente. Questo monastero era celebre in tutto il Tibet come uno dei luoghi più santi della setta Gningmapà; qui Tucci si intrattiene a lungo con i monaci.
Lasciando a ovest il villaggio di Tsongdüduspa si arriva, sempre costeggiando lo Tsangpo, a Dranang, dove si trovava un monastero Sakyapa non ancora restaurato e molto ben conservato, con statue di Bodhisattva coperte da tuniche di modello iranico con medaglioni istoriati con motivi di leoni e uccelli. Molti degli affreschi erano scomparsi, ma si vedevano scene dipinte in maniera raffinati con episodi della vita di Buddha, con uno stile che poteva ricordare le pitture bizantine [28]; il tutto era però pericolante e c’erano varie infiltrazioni d’acqua. Il Goncang era una galleria di bellissime statue, influenzate dallo stile cinese. A pochi chilometri da Dranang sorgeva il monastero di Champaling, costruito intonro ad uno dei più grandi Cumbum del Tibet, che conteneva al suo interno una cappella con una gigantesca statua di Maitreya. Sulle pareti di fianco erano riprodotte con estrema abilità figure di Bodhisattva; le cappelle si trovavano solo nella parte superiore, e sui diversi piani vi erano corridoi con qualche pittura di tipo cinese; nella cupola erano rappresentati cicli ispirati ai Nalgiorghiu, posteriori al XVIII secolo.
Proseguendo verso Kongkardzong Tucci si ferma a visitare il convento Sakya di Dambuciokor, completamente restaurato, della cui antichità restava il basamento di un pilastro con figure arabescate, e un’iscrizione cinese sull’ingresso di una cappella. Lasciata Citisho (luogo dove srgeva Dambuciokor), la spedizione sosta a Ravame, dove restava un tempietto Sakya con pitture del settecento e rare statue antiche, ed arriva poi Kongkaciodra, dove sorgeva un grande monastero Sakya fondato da Kunganamghial. A Kongkar Tucci è ricevuto da un giovane incarnato di Lhasa, ansioso di conoscere un occidentale e sapere notizie del mondo: i due stringeranno amicizia, e l’incarnato farà conoscere all’orientalista opere letterarie indiane, vergate sui manoscritti originali del IX o X secolo, prima di quel momento sconosciute in Occidente: un riassunto metrico della dottrina Buddhista e un poema su una delle vite anteriori del buddha. Con la guida del nuovo amico Tucci visita il monastero, che conteneva il solito gruppo statuario con i Buddha dei tre tempi e i Bodhisattva, alcuni affreschi di buona fattura che riproducevano scene della vita di Buddha. Sulle due pareti ai lati della cella erano dipinti i lama della setta Sakyapa e gli avvenimenti principali della loro esistenza, ritratti in scene vivaci e piene di movimento; nel Goncang era notevole una statua di Dorgecigè, dalla figura minacciosa ed espressiva. Da Kongkardzong la carovana si muove verso Gyantse percorrendo strade nuove: invece del Kampala viene traversato un altro passo più breve, anche se più faticoso, il Kabrolà, in mezzo a numerose tracce di rovine: nel XVII era stata combattuta una guerra che aveva portato devastazione in queste zone. Si scende sul lago Yamdrog fino a Gyantse.
Note:
[1] Pietro Francesco Mele fu aggregato come fotografo alla spedizione del 1948. A causa della mancata concessione del visto da parte delle autorità tibetane, dovette sostare a Yatung per circa due mesi. Ottenne il permesso molto tardi, e raggiunse Tucci il 5 di agosto, dopo che questi aveva già visitato Lhasa. Dal viaggio in Tibet con Tucci, Mele ha ricavato il libro fotografico Tibet, con introduzione di Giotto Dainelli, Napoli, Morano, 1956 (testo in inglese e italiano), che ha avuto varie edizioni. Le foto riportate dal Tibet sono state in seguito cedute al Museum für Völkerkunde dell’Università di Zurigo. Ha pubblicato inoltre reportage fotografici su Ceylon, India, Hong Kong, Afghanistan e Bhutan.
[2] Regolo Moise (Cherso (Croazia), 2 novembre 1901 – Roma, 1 novembre 1982). Si laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Roma nel 1925. Entra in Servizio Permanente Effettivo come Ufficiale medico della Marina Militare nel 1929. Dopo la specializzazione in Parassitologia alle Università di Amburgo e Roma (1931-1932), viene destinato all’Ospedale civile di Mogadiscio (fino al 1934). Nel 1935 è nominato Capo Servizio Sanitario della base di Assab (Eritrea). Tra il 1932 ed il 1936 conduce inoltre ricerche epidemiologiche ed entomologiche sulla malaria nella Migiurtinia. Resta in Africa orientale fino al 1941, quando viene fatto prigioniero dagli Inglesi. Partecipa alla spedizione Tucci in Tibet del 1948 ma, giunto a Yatung, riceve la comunicazione che le autorità tibetane gli hanno negato il visto. Attende a lungo il permesso a Yatung insieme a Mele e a Maraini e, ottenutolo, riesce a ricongiungersi con Tucci a Chusul, il 5 di agosto. Dal dicembre 1949 dirige il Centro Studi e Ricerche Malattie Tropicale della Marina Militare di Mogadiscio, nell’ambito dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia; direzione che poi lascerà a Concetto Guttuso nel 1953. Dal pensionamento, avvenuto nel 1962, sino al 1971 collabora con la Commissione medica per le pensioni di guerra.
[3] G. Tucci, A Lhasa e oltre. Diario della spedizione nel Tibet 1948, con un’appendice sulla medicina e l’igiene nel Tibet di R. Moise, Roma, La Libreria dello Stato, 1950; Id., «To Lhasa and Beyond», Arts and Letters, XXIV, 1950, pp. 35-41; P.F. Mele, Tibet, introduzione di Giotto Dainelli, Napoli, Morano, 1956.
[4] Il capo di una setta chiamata Bodha, che si autodefiniva “Buddha vivente”, “Grande abate del Bodha-mandala di Tashilumpo” (personaggio secondo Tucci mai esistito in questa città, da lui visitata due volte) e portavoce ufficiale del Tibet, attaccò verbalmente Tucci e lo minacciò di morte, nel caso si fosse recato in Tibet. Il professore lo sfidò pubblicamente parlandogli in Tibetano e rivolgendogli delle domande sui misteri buddhisti, alle quali l’individuo non fu in grado di rispondere, e fu costretto a lasciare l’Italia. Dalla Svizzera questo strano personaggio, che di nome faceva Cherenzi Lind, spedì ai giornali di Roma una lettera nella quale dava a Tucci un appuntamento a Darjeeling dove avrebbe risposto alle sue domande: a Darjeeling però l’orientalista non trovò traccia del suo “avversario”, che il Governo Tibetano rivelò in una dichiarazione non avere alcun rapporto con il Tibet.
[5] Il Kangchenjunga è la terza montagna più elevata della Terra. Situata al confine fra il Nepal e lo stato indiano del Sikkim, dal 1838 al 1849 è stata ritenuta la vetta più elevata del pianeta. Nel 1849 rilevamenti britannici appurarono che l’Everest e il K2 erano più elevati. Il Kangchenjunga è il più orientale degli “ottomila” dell’Himalaya. L’origine del termine Kangchenjunga è incerta e controversa ma una delle versioni più diffuse è quella che attribuisce alla parola la traduzione “cinque tesori della grande neve” con riferimento ai cinque picchi di cui è composto il massiccio. Fu scalato per la prima volta nel 1955 da Charles Evans, che guidava una spedizione inglese ma il primo tentativo di scalata risale al 1905, quando quattro membri della spedizione guidata dal noto poeta, occultista e scalatore britannico Aleister Crowley morirono a causa di una valanga. Valanghe e smottamenti sono molto frequenti per via delle abbondanti precipitazioni.
[6] Il Sikkim, chiamato drenjong dai Tibetani (Paese del riso), è un territorio posto tra Tibet, Bhutan, Nepal e Bengala.
[7] Il tè tibetano si ottiene facendo bollire a lungo il tè, lo si rovescia in un recipiente di legno a forma di tubo insieme con burro, sale e, avolte, un pizzico di soda, poi lo si agita ripetutamente. Dopo averlo riscaldato lo si serve in tazzine di rame, argento o giada, lasciandolo in una teiera in rame o in argento.
[8] Giampeiang veniva spesso rappresentato con il libro della gnosi nella mano sinistra e la spada, simboleggiante la conoscenza che squarcia l’ignoranza, nella destra.
[9] Tucci era comunque solito andare a piedi, tranne in caso cadesse malato, perché voleva condividere le fatiche e i pericoli dei carovanieri durante le lunghe marce nelle vastità del Tibet.
[10] Farina d’orzo mescolata con acqua di tè tibetano
[11] G. Tucci, Indo-Tibetica, voll. 1-3: «I templi di Gyantse», Roma, 1941.
[12] Era chiamato il ciortèn di Gya, forse in tributi ad un’asceta che portava questo nome.
[13] Drolma è la dea misericordiosa che aiuta chi la invoca nel momento del pericolo.
[14] Simbolo della verità che trascende le sue infinite, seppur effimere, manifestazioni.
[15]Il Goncàn era la parte più segreta di tutti i monasteri, dove si venerava lo yi dam della setta, ovvero l’aspetto terrifico della divinità protettrice della scuola, che assume quella forma per combattere le forze ostili che possono offendere la purezza del luogo.
[16] Egli fu un grande patrono della religione, a cui si deve la stampa delle scritture buddiste, il Kanghiur e il Tanghiur, più di trecento volumi, eseguita nel monastero di Narthang, vicino a Tashilumpo.
[17] Natang è un posto celebre nella storia tibetana, poiché vi morì, sulla via del ritorno in India, uno dei maggiori apostoli della diffusione del buddismo: Dipankara Atisa. Egli era nato da nobile famiglia nel Bengala occidentale a Vajrayogini, villaggio visitato da Tucci nel 1926. Divenne uno dei luminari della più celebre università buddistica, quella di Vikramasila, e da lì la sua fama giunse in Tibet. Un principe del Tibet occidentale lo invitò nel proprio regno perché predicasse e diffondesse il buddismo. Dopo qualche anno passato nel Tibet, Atisa giunse nel Tibet centrale e morì a Netang già vecchio nel 942.
[18] Il palazzo del Potala prende il nome dal Monte Potala, la dimora di Avalokitesvara; esso fu la residenza principale del Dalai Lama fino a che il 14° Dalai Lama fuggì a Dharamsala, India, in seguito all’invasione ed alla fallita rivolta del 1959. Attualmente il Palazzo del Potala è stato convertito in museo dal governo cinese. L’edificio misura 400 metri sul lato est-ovest e 350 metri su quello nord-sud, con pietre inclinate spesse 3 metri (5 metri alla base), con rame fuso attorno alle fondamenta per aiutare a proteggerlo dai terremoti. I tredici piani dell’edificio (contenente oltre 1000 stanze, 10.000 reliquiari e circa 200.000 statue) si alzano per 117 metri sulla cima del Marpo Ri, la “Collina Rossa”, con un’altezza totale di oltre 300 metri dal fondo della valle. Secondo la tradizione le tre principali cime di Lhasa rappresentano i “Tre Protettori del Tibet”. Chokpori, immediatamente a sud del Potala, è la “montagna dell’anima” (bla-ri) di Vajrapani, Pongwari è quella di Manjusri e Marpori, la cima su cui si trova il Potala, rappresenta Chenresig o Avalokitesvara. Il sito venne usato come luogo di meditazione da re Songtsen Gampo, che nel 637 costruì qui il primo palazzo al fine di onorare la moglie Wencheng, della dinastia Tang della Cina. Lozang Gyatso, il quinto Dalai Lama, iniziò la costruzione del palazzo del Potala nel 1645[5] dopo che uno dei suoi consiglieri spirituali, Konchog Chophel (morto nel 1646), fece notare che il luogo sarebbe stato ideale come sede del governo, situato tra i monasteri di Drepung e Sera e l’antica città di Lhasa. Il Dalai Lama ed il suo governo si spostarono a Potrang Karpo (‘Palazzo Bianco’) nel 1649. La costruzione proseguì fino al 1694, circa dodici anni dopo la sua morte. Il Potala venne poi usato come palazzo invernale dai Dalai Lama dell’epoca. Il Potrang Marpo (‘Palazzo Rosso’) venne aggiunto tra il 1690 ed il 1694. Il palazzo venne leggermente danneggiato durante la rivolta contro il governo cinese del 1959, nella quale i cinesi bombardarono le finestre del palazzo; si salvò anche durante la Grande rivoluzione culturale del 1966 grazie all’intervento in prima persona di Zhou Enlai, Primo ministro cinese di quel periodo che si oppose alla rivoluzione. Quasi tutti i 100.000 volumi di scritture, i documenti storici ed altre opere vennero rimossi, danneggiati o distrutti. Il Palazzo di Potala venne inserito dall’UNESCO tra i patrimoni dell’umanità nel 1994. Nel 2000 e nel 2001 vennero aggiunti al patrimonio il tempio di Jokhang e di Norbulingka. L’UNESCO evidenziò il problema dato dalla veloce urbanizzazione, che stava portando alla creazione di moderni edifici a ridosso del palazzo. Il governo cinese rispose emanando una legge che impediva la costruzione nei paraggi di edifici alti più di 21 metri. Dal 1º maggio 2003 il numero di turisti ammessi a palazzo è limitato a 1600 al giorno, con un orario ridotto a sei ore al giorno per evitare l’affollamento.
[19] In Tibet le cariche pubbliche erano generalmente abbinate: un monaco e un laico; persino il comandante in capo dell’esercito aveva come controparte un monaco, incontrato da Tucci alcuni anni prima a Gyantse come agente commerciale del Governo tibetano.
[20] Secondo la tradizione qui si combattè una grande battaglia tra Cinesi e Tibetani dove i Cinesi perdettero 100000 uomini.
[21] Questo termine significa che il tempio era dedicato alle divinità, nel loro aspetto placato o terrifico che compaiono davanti al principio cosciente del morto in uno stadio intermedio, come spiegato nel Bardö Thodol, il Libro Tibetano dei morti, che fu tra l’altro commentato da Tucci.
[22] In Tibet era consuetudine rivestire in questa maniera le immagini di maggior pregio e venerazione.
[23] Si trattava di un ciclo ben definito che si ritrovava in tutti i templi più antichi del Buddhismo tibetano coincidenti con l’epoca della seconda penetrazione della dottrina, coincidente con Atisa.
[24] Buddha anteriore a Sakyamuni.
[25] Tontè significa “pietra del fulmine”, ovvero oggetti di pietra o di bronzo che si trovavano scavando e lavorando nei campi: punte di freccia, statuette di divinità, fibbie, borchie e ornamenti di vestiti. Questi oggetti erano di difficile datazione poiché coprivano tutta la preistoria e la protostoria del Tibet. Alcuni di essi, ritrovati da Tucci, rappresentavano il Chiung, un uccello sacro della religione Bonpo; altri erano amuleti triangolari o circolari, prtati dagli abitanti del luogo come portafortuna.
[26] Veniva scavata nel tumulo una cella centrale, veniva calato il defunto in questa camera mortuaria, insieme con i servi e le armi, e veniva poi piantata una stele con iscrizioni. L’unica stele che rimaneva era quella di Tidesrongzen, della quale Tucci tenta con un lama di decifrarne l’iscrizione ormai pesantemente alterata dal tempo. Questa era in effetti un’enorme necropoli, e i pilastri che venivano piantati vicino alle tombe avevano un significato di axis mundi, tema ben presente nelle dottrine tradizionali orientali e non: il re tramite questi cippi piantati prendeva il possesso del suolo, traeva forza da esso e poneva sotto il suo comando le energie della terra e del sottosuolo, assicurando in questo modo anche la fertiilità dei campi. Lo spirito degli antichi re defunti vigilava così sul paese.
[27] Tucci aveva il permesso di Lhasa per requisire i cavalli, dunque ogni prefetto aveva l’obbligo a fornirgli i trasporti dal suo territorio di competenza a quello vicino, secondo le tariffe stabilite dal governo; tuttavia i contadini cercavano di sottrarsi a quest’obbligo perché avevano da badare ai campi, e gran parte del denaro riscosso andava nelle mani degli ufficiali senza che loro potessero essere rimborsati adeguatamente. Chi trasgrediva agli ordini veniva giudicato davanti al tribunale e punito in genere a colpi di bastone.
[28] In effetti quest’analogia può essere considerata neppure troppo azzardata, dal momento che la scuola ellenistico-romana si era spinta fino nel cuore dell’Asia, arrivando ai confini della Cina. Affreschi come quelli di Dranang possono essere ritenuti un’eco indiretta di queste tradizioni artistiche e sincretismi culturali.
Andrea Morandi