di Piero Cammerinesi
Non so per quale motivo – certamente qualcosa di innato nella mia natura – mi ha portato, sin da ragazzo, ad una estrema sensibilità – una sorta di carne viva animica – nei confronti della unilateralità che, unita alla pigrizia mentale, conduce invariabilmente al pregiudizio.
Purtroppo, la comfort zone di chi si trova bene con le proprie convinzioni è una tentazione sovente irresistibile e vedersela minacciare produce, di regola, una reazione negativa quando non decisamente aggressiva e livorosa.
Tutto iniziò per me con il periodo dell’impegno politico – eh sì, perché nel ’68 e dintorni i giovani facevano ancora politica – che mi aveva portato a condividere attivamente la ribellione giovanile nei confronti delle ingiustizie sociali, della guerra del Vietnam e della scuola autoritaria dell’epoca.
Avevo iniziato a frequentare quei famosi – e fumosi, in ogni senso – collettivi giovanili in cui tra discussioni interminabili – bestemmioni compresi – con l’attribuzione dell’inevitabile appellativo compagno/a a tutti i presenti, si macinavano ovvietà e idee campate in aria.
D’altra parte, uno dei cantautori in voga all’epoca, Francesco Guccini, aveva ben stigmatizzato, in una delle sue canzoni, Eskimo, quella situazione con le parole:
Perché a vent’anni è tutto ancora intero,
perché a vent’anni è tutto chi lo sa,
A vent’anni si è stupidi davvero
Quante balle si ha in testa a quell’età…
Lo studio di Marx ed Engels, di Marcuse e di Mao Zedong mi convinceva ben poco e percepivo distintamente in quegli interminabili simposi logorroici solo una nuova forma di costrizione spacciata per liberazione.
Senza contare che la maggior parte dei compagni conosceva ben poco dei testi sacri del comunismo e si voltava dall’altra parte quando si trattava di prendere atto di quanto quella nefasta Weltanschauung stava provocando nei Paesi del blocco sovietico.
Così decisi ben presto che quel mondo non faceva per me anche perché – grazie alla mia singolare peculiarità caratteriale – continuavo a mantenere rapporti di amicizia con giovani di idee politiche opposte che mi sembravano parimenti degne quantomeno di approfondimento e considerazione.
In qualche modo i miei coetanei mi sembravano tutti nella stessa situazione, vale a dire alla disperata ricerca di una soluzione agli enigmi, alle ingiustizie ed alle menzogne che il mondo di allora presentava a chi volesse andare più a fondo del semplice frequentare la scuola, studiare, essere promossi e far casino con gli amici.
L’unica corrente di pensiero che sentivo affine era l’anarchismo, naturalmente non quello bombarolo, ma quello che partiva dal principio della libertà individuale come base della vita sociale.
Max Stirner, Herbert Spencer, Pierre-Joseph Proudhon e Henry David Thoreau erano gli araldi di una visione libertaria che sentivo come una boccata d’aria fresca rispetto alla fumosità oppressiva delle ideologie totalitarie di destra e di sinistra.
Grande sarebbe stata successivamente la sorpresa di sapere che anche il giovane Rudolf Steiner era stato molto vicino ai movimenti libertari, essendo, peraltro, amico di John Henry Mackay, l’anarchico individualista scozzese.
Alla lettera aperta che Mackay scrisse il 15 settembre 1898 a Steiner, che allora dirigeva il Magazin für Literatur, egli rispose con queste parole:
L’“anarchico individualista” vuole che nessun ostacolo impedisca all’uomo di poter portare a sviluppo le capacità e le forze che porta in sé. Gli individui devono potersi manifestare nella libera competizione. Lo Stato attuale non ha comprensione per questa concorrenza. Esso ostacola dappertutto lo sviluppo delle capacità dell’individuo, lo odia. Dice: “Ho bisogno di gente che si comporti in tal e tal modo. Se uno è diverso, lo costringo a diventare come voglio io”. Ora lo Stato crede che gli uomini possano andare d’accordo solo se si dice loro: “Dovete essere cosí. E se non lo siete, dovete comunque essere cosí”. L’anarchico individualista pensa, invece, che le circostanze migliori risulteranno se si lascia libero corso agli uomini. Egli ha fiducia che essi riescano ad orientarsi da soli. Non crede, naturalmente, che il giorno dopo l’abolizione dello Stato non ci siano piú ladri. Ma sa che non si possono educare gli esseri umani alla libertà con autorità e costrizione. Una cosa sa: si libera la strada all’uomo massimamente indipendente proprio abolendo ogni autorità e costrizione. Gli Stati attuali, tuttavia, sono basati sulla costrizione e sull’autorità.
Un evergreen, in particolare dopo gli ultimi tre anni, non trovate?
Comunque mi accorsi che anche l’anarchismo aveva parecchie ombre, così ben presto la mia anima si orientò verso le vie spirituali, in particolare dopo aver incontrato il pensiero di Paramahansa Yogananda ed aver seguito per qualche anno le conferenze che Jiddu Krishnamurti teneva a Roma di tanto in tanto al Pasquino ed in altre sale della Capitale.
Krishnamurti mi era piaciuto all’inizio ma poi, quando gli posi un paio di domande cui non seppe replicare, iniziai ad avere delle perplessità sulla sua figura, perplessità che più tardi Massimo Scaligero mi confermò pienamente.
In quegli anni, tra i miei quindici e diciassette, ero affascinato anche dal movimento hippy e dall’“aspra ed estatica gioia del puro esistere” teorizzata dall’On the road di Jack Kerouac.
Pur girando tutta l’Europa e il Medio Oriente in solitaria con l’autostop, tuttavia – contrariamente ad altri miei compagni di avventure – continuavo a non disdegnare la compagnia e finanche l’amicizia ed il confronto con compagni e camerati, con capelli lunghi o rasati.
Era il DNA del giornalista – prima ancora di diventarlo professionalmente – caratteristico di chi incontra una ideologia ed un gruppo, lo attraversa senza fermarsi, ne contempla le luci e le ombre ma non vi si identifica mai, passa sempre oltre.
A diciassette anni, poi, la svolta decisiva, con l’incontro con Massimo Scaligero, che avrebbe cambiato per sempre la mia vita collegandomi con la Scienza dello Spirito di Rudolf Steiner.
Anche allora, però, – pur avendo ri-conosciuto il Maestro e la Via – la mia persistente allergia alla unilateralità mi faceva mantenere posizioni rigidamente individuali, senza collegarmi a gruppi o congreghe di vario genere.
E in questo Massimo era il faro perfetto grazie alla sua totale libertà interiore ed esteriore.
Nei quasi nove anni in cui ebbi lo straordinario privilegio di avere con lui un appuntamento settimanale personale, ebbi modo di imparare a pensare liberamente.
Molti vengono definiti, spesso a sproposito, Maître à penser ma Scaligero lo era nel senso letterale dell’espressione.
Nel corso di quegli incontri appresi, con grande disappunto, che nei suoi confronti, soprattutto nell’ambito dei circoli antroposofici, circolava una serie incredibile di pregiudizi.
Dallo Scaligero razzista, a quello che non cita Steiner nei suoi libri, a quello troppo vicino allo Yoga, o a quello che ipnotizza i fattorini del tram per non pagare il biglietto (sì, anche questo, tra i tanti, era un capo d’accusa nei suoi confronti, nato da una sua battuta ad un antroposofo incontrato sul tram, visto che Massimo aveva una irresistibile inclinazione all’ironia ed allo scherzo).
Nella maggior parte dei casi chi lo calunniava non aveva letto neppure un suo libro ma ripeteva a pappagallo queste scemenze nelle assemblee antroposofiche.
Comunque l’ostracismo cui era stato condannato faceva sì – come mi resi conto, andando a Dornach per la prima volta nel 1972 – che nella libreria del Goetheanum non c’era neppure un suo libro.
Per comprendere meglio la questione – la famosa “altra campana” – volli incontrare a Milano Iberto Bavastro e a Sacrofano Claudio Gregorat, due esponenti di primo piano della Società Antroposofica Italiana dell’epoca, ma mi resi conto ben presto che il pregiudizio immotivato è davvero più resistente dell’atomo, come ben espresso da Einstein.
È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio
Albert Einstein
Massimo soffriva molto di queste maldicenze e ciò, naturalmente, mi addolorava, conoscendo personalmente la loro inconsistenza ed infondatezza senza purtroppo poter fare assolutamente nulla e dovendo, mio malgrado, prendere atto di questa pessima inclinazione dell’animo umano, cui ero, come ho già detto, estremamente sensibile.
Va aggiunto, ad onor del vero, che i pregiudizi nei suoi confronti sono incredibilmente ancora presenti in molti antroposofi; me ne sono reso tragicamente conto presentando il mio film Oltre – Un Tributo a Massimo Scaligero, in diverse città italiane, dove mi sono sentito ripetere le stesse maldicenze e falsità che ho tentato di controbattere con il mio articolo Mezze Verità, Menzogne intere.
Quell’esperienza mi fece comprendere come il pregiudizio rappresenti una sorta di cancro interiore, un proliferare caotico di menzogne nell’anima, assimilabile a quello delle cellule neoplastiche nell’organismo fisico.
Ho ritrovato molti anni dopo la stessa affezione animica, questa volta nei confronti di Judith von Halle che volli incontrare – dopo aver letto critiche e diffamazioni nei suoi confronti – a Berlino, per rendermi conto personalmente della situazione.
A seguito di quell’incontro e della franca e profonda conversazione che ebbi con lei nacque il mio articolo Preconcetto e Libero Pensiero, in cui anticipai, due anni prima di quanto sarebbe poi stato finalmente decretato, l’8 Dicembre del 2012, dal Vorstand di Dornach nei suoi confronti, vale a dire la sua ‘assoluzione’ dalle immaginarie accuse di impostura quando non di tradimento dello spirito dell’antroposofia.
Naturalmente, anche nel suo caso, ci trovavamo esattamente nelle stesse condizioni; una condanna preventiva ripetuta all’infinito che diventa verità.
Poi fu il turno di Brian Weiss, che volli conoscere ed incontrare a Los Angeles, lui stesso vittima, da parte degli antroposofi, dei pregiudizi per la sua ipnosi regressiva. Anche di lui – il cui straordinario merito è stato quello di aver portato a milioni di persone l’idea della reincarnazione – parlo nell’articolo Preconcetto e Libero Pensiero in cui affronto il “Caso von Halle”.
Sempre la stessa solfa, non si vuole mettere a rischio la propria comfort zone, legati a dogmatismi di varia provenienza che non si riesce a riconoscere come tali.
Ho approfittato sinora della pazienza del lettore raccontando anche episodi personali della mia vita solo per giungere all’oggi ed al motivo di queste righe, che tratta di un altro pregiudizio, questa volta di provenienza inversa.
Un pregiudizio radicato nei cosiddetti circoli scaligeriani, espressione peraltro discutibile, come se questo termine rappresentasse una setta o una corrente eretica dell’antroposofia.
Mi riferisco all’ostilità nei confronti di Pietro Archiati.
Devo dire che sino a poco tempo fa non avevo avuto modo di approfondire gli scritti di Archiati, non per pregiudizio ma semplicemente per mancanza di tempo. Solo ultimamente, lavorando su Filosofia della Libertà di Rudolf Steiner mi sono imbattuto nelle trascrizioni delle sue conferenze su tale opera, che ho trovato di grande interesse e profondità.
Ciò mi ha spinto a indagare sui motivi dell’avversione di molti discepoli di Massimo nei suoi confronti.
Ora, tutto nacque da una paginetta del suo libro Le nuove Frontiere della Libertà del 1988, in cui egli fece un’affermazione su un libro di Scaligero, che fu poco apprezzata dagli scaligeriani.
Leggiamo insieme questa paginetta che – ad onor del vero – a causa delle critiche ricevute, Archiati stesso eliminò nelle successive edizioni del libro:
Sette anni fa trovai, in una libreria di Lodi, un libro dal titolo: “L’uomo interiore”. L’autore, a me sconosciuto, si chiamava Massimo Scaligero. Il titolo m’incuriosì. Lessi qualche paragrafo preso a caso, e la mia curiosità aumentò. Lo comprai senza esitare e nei giorni successivi non riuscii a leggere altro. Ripetevo a me stesso: qui ci sono cose che tu hai cercato per anni; qui gli orizzonti si dilatano e lo sguardo si fa più vasto e profondo ad un tempo… Ma c’era una cosa che non riuscivo a spiegarmi. Ad ogni passo della lettura avevo l’impressione di trovarmi di fronte non a qualcosa di genuino e del tutto trasparente, ma come a un vetro appannato. Distinguevo chiaramente tra la materia trattata e la veste esteriore in cui mi veniva presentata. Giunsi in poco tempo a una chiara convinzione: questa farina non viene dal sacco dell’autore. Egli la prende da qualcun altro, e la mette in un sacco suo che non le si addice troppo. Voglio dire che il contenuto del libro mi affascinava per la profondità del suo realismo; la forma mi era antipatica per la sua tendenza a intellettualizzare e a perdersi in teorie. Dicevo a me stesso: devo a tutti i costi trovare la sorgente a cui l’autore attinge? Ma qual è? Nel libro di cui sto parlando, viene spesso fatto riferimento a ciò che l’autore chiama, con lettera maiuscola, il Maestro dei tempi nuovi. Questa è la sorgente, dicevo a me stesso; ma chi è questo bravo maestro? C’era anche una citazione (se ben ricordo, la sola in tutto il libro) con alla fine, tra parentesi, il nome di Rudolf Steiner. Nessun’altra indicazione. Ma per me non c’eran dubbi: il Maestro dei tempi nuovi e Rudolf Steiner sono la stessa cosa (voglio dire, la stessa persona), ed è questo il mulino da cui l’autore trae la sua farina. Mi restava dunque una sola domanda: chi è Rudolf Steiner? Due mesi dopo l’acquisto fatto a Lodi, mi trovavo a Milano per tenere una serie di conferenze. Non avendo perso l’abitudine di visitare più librerie che chiese, entrai in una che si trova proprio di fronte al Duomo, sul lato opposto della grande piazza. Ogni volta che ripenso al momento in cui, sette anni fa, io aprii quella porta, mi vedo di fronte a ciò che di più sacro e misterioso c’è nella vita di un uomo: il suo destino. Chissà che un giorno non ci sia più nei nostri vocabolari (e sulle nostre labbra) la parola “caso”… Entrai, e la prima cosa che vidi davanti a me furono due scaffali pieni di libri di Rudolf Steiner. “Eccolo qui!”, esclamai, credo solo interiormente.
Bene, cosa possiamo dire di queste considerazioni?
Sicuramente affermazioni improvvisate e superficiali, dovute alla scarsa familiarità con lo stile e i contenuti della ricerca spirituale di Massimo (di cui aveva letto, peraltro, un solo libro); sicuramente mancanti della doverosa gratitudine che avrebbe dovuto provare nei confronti di chi, di fatto, lo aveva messo in contatto con la scienza dello spirito di Rudolf Steiner, ma francamente, non mi sembrano crimini tali da condannare alla damnatio memoriae uno studioso di questo calibro che, da quel momento in avanti, avrebbe dedicato la sua intera esistenza alla scienza dello spirito.
E questo non solo tramite i suoi scritti e le sue conferenze, ma anche con le sue edizioni critiche dei cicli di Rudolf Steiner e la pubblicazione delle traduzioni degli stessi in italiano a costi ragionevoli.
La questione dei pregiudizi nei suoi confronti mi intrigava e, allora, sempre seguendo il mio personale imperativo categorico di verificare i fatti ho voluto approfondire la faccenda, contattando alcune persone che lo hanno conosciuto a fondo negli anni e frequentato.
Ebbene, l’idea che mi sono fatto di lui – e che mi è stata confermata da questi resoconti – era quella di un carattere spigoloso e collerico ma, al tempo stesso, di una personalità brillante – conosceva sette o otto lingue, aveva una dialettica serrata ed una capacità di fascinazione straordinaria ed una cultura monumentale – dotata di volontà d’acciaio ma probabilmente molto più incline all’aspetto conoscitivo-noetico della scienza dello spirito che a quello esoterico-esperienziale.
Pertanto quando ho collegato le mie impressioni interiori, sorte dalla lettura dei suoi testi, con le descrizioni che mi sono state fornite da suoi amici di vecchia data mi è immediatamente balzato all’occhio il reale motivo per cui forse, in quel momento, egli non seppe cogliere l’assoluta unicità ed autenticità del libro di Scaligero che aveva tra le mani, definendone il contenuto come “farina non del suo sacco”.
E il motivo potrebbe essere proprio questo: mentre Scaligero – da autentico esoterista – parlava per esperienza personale dei risultati della sua indagine interiore partendo, sì, dalla via indicata dal Maestro dei nuovi Tempi ma proseguita e sperimentata in sé stesso, Archiati, non riconoscendone la scaturigine – quantomeno in quel momento del suo percorso – considerò il contenuto de “L’Uomo interiore” solo una sorta di copia-incolla.
Posso certamente sbagliarmi ma credo che in questa visione della questione ci sia del vero e non se ne abbiano a male coloro che la pensano diversamente o che non vogliono uscire dalla prigione del pregiudizio.
E, in ogni caso, ripeto ancora una volta, non c’erano e non ci sono motivi per proseguire la caccia agli eretici e le guerre di religione.
Da qualunque parte vengano dichiarate.
Nella foto di copertina, da sinistra: Massimo Scaligero in una mia foto degli anni ’70, Judith von Halle, Brian Weiss e Pietro Archiati