Volontà estrema

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Dopo più di vent’anni di “astinenza” tornerò oggi a scrivere di arrampicata estrema e di ciò che rappresenta (in maniera più o meno consapevole) per i suoi pochissimi praticanti.

Lo spunto (occasionale) me lo ha offerto tornare a vedere il film-documentario Free Solo, le cui straordinarie ma anche terribili immagini riprendono Alex Honnold che scala in solitaria e senza corda i 950 metri di granito strapiombante di El Capitan (sulla via Frerider di 7c°), nella Yosemite Valley. La valle californiana è una delle più belle di tutto il pianeta, ed è sorvegliata da due sentinelle monumentali naturali impareggiabili: l’Half Dome e El Capitan… due blocchi di granito compatto che, dal 1950, hanno catalizzato i sogni di tutti i più forti scalatori del mondo.

Dopo pochi minuti dall’inizio del filmato credo che qualunque spettatore con una seppur vaga consapevolezza delle difficoltà che Alex sta affrontando, difficilmente possa evitare di sentire il proprio cuore arrivargli in gola e il proprio plesso solare stringersi quasi in una morsa… inevitabile, dopo pochi secondi, la sentenza senza appello:

– Quel ragazzo è del tutto pazzo! Ma che gli dice la testa?

Giudizio che sarebbe ancor più giustificato se lo spettatore sapesse che da quando l’arrampicata libera esplose nella Yosemite Valley più di quaranta, quarantacinque giovani (uomini e donne) sono morti precipitando da 300 o 500 metri di altezza mentre tentavano un qualche Free Solo su una delle tante pareti strapiombanti dei giganti di granito della valle.

Sì! Quelli sono del tutto pazzi!

Bene… prima di procedere nel mio articolo sarà il caso che io confessi di aver praticato alpinismo per trent’anni circa, di avere nel curriculum più di centoventi vie di TD e ED effettuate su tutto l’arco alpino e di aver realizzato due Free Solo. Uno di 120 mt. di D+ (4° superiore) su una via del Monte Morra (nei pressi di Tivoli) quando ancora ero un principiante, e uno di 250 mt. di ED- (6° inferiore) su una via del Gran Sasso, in Abruzzo, dopo 28 anni di arrampicata. In pratica due bazzecole, se paragonate alle 1200 vie di estrema difficoltà superate da Alex in Free Solo.

Tanto per fare un paragone, se immaginassimo lui o i tanti altri scalatori estremi come universitari che hanno appena superato con 110 e lode una laurea in Matematica Pura, io, a loro confronto, potrei considerarmi uno studente poco dotato, arrivato sì e no al terzo liceo scientifico…

Occorre tuttavia ricordare una cosa: quando si sono superati i primi venti o i trenta metri dal suolo, poco importa il grado o la bravura dell’atleta… se cade, muore!

Oltre a ciò, si tenga presente che sono uno psicologo-psicoterapeuta, antroposofo da oltre cinquant’anni, che nel 1999 venne pubblicata la mia tesi finale di un master in Ipnosi intitolata appunto: “Attività estreme e stati alterati di coscienza” e che nel 2002, insieme ad alcuni arrampicatori di punta romani realizzai il film-documentario: “Danzare in verticale” (oggi purtroppo andato perduto) che, per analizzare queste attività, che folli in realtà non sono, partiva da considerazioni scientifico spirituali.

Detto ciò, mi sento persona legittimata ad analizzare esperienze come quelle realizzate da Alex Honnold svelandone i retroscena spirituali, siano o meno consapevoli alla coscienza del loro protagonista.

Per iniziare, mi si permetta però di sintetizzare quanto già espresso nel testo pubblicato nel 1999, iniziando dai risultati da me riportati di alcune batterie di test ai quali (negli anni ’90) furono sottoposti 293 protagonisti di attività estreme dal professore di psicologia Bruce Ogilvie. Ebbene, risultò che una altissima percentuale dei soggetti presentava un atteggiamento estroverso e positivo nei confronti della vita, una abilità astratta e una intelligenza di molto superiore alla media, capacità cognitive plastiche e creative e una considerevole stabilità emotiva.

Su questa base fu in seguito tracciato dai ricercatori un profilo di personalità diviso in due sottotipi: T + e T-

Il primo (al quale gruppo apparterrebbero i più grandi esploratori, artisti e scienziati di tutte le epoche) è caratterizzato da individualità che tendono a vivere il rischio in maniera positiva, controllata, salutare e positiva.

Il secondo, invece, caratterizzato da individui che tendono a vivere il rischio in maniera negativa, attraverso delinquenza, violenza gratuita, sperimentazione di droghe e autodistruzione.

Nel corso di questi ultimi decenni altri studi sono stati realizzati e, anche se con termini diversi, confermano i risultati di quelle prime ricerche. Per cui… mi sentirei di affermare che… no! Mi dispiace… ma né Alex, né alcun altro dei tanti protagonisti di attività estreme può essere considerato pazzo solo sulla base di una risposta inconsulta ed emotiva della coscienza collettiva.

Naturalmente esistono eccezioni, gente disturbata da protagonismo o sopravvalutazione delle proprie potenzialità… ma sono pochissimi e rientrano nel campo dell’umano.

Seconda importantissima considerazione delle mie ricerche fu quella sul Fattore Rischio… che si concluse affermando come questo fosse decisamente relativo. In altre parole, quello che arrivai a documentare è il fatto che la Vita è sempre ad altissimo rischio. Questo perché siamo tutti creature fragili e mortali la cui esistenza nella dimensione terrena è un vero e proprio continuo miracolo. Fin dal primo momento in cui l’ovulo viene fecondato, infatti, e in seguito per tutti i nove mesi di gestazione, il feto può ammalare o abortire per un insieme talmente grande di variabili che sarebbe vano enumerarle. Ma una volta nato, ogni nuovo arrivato dovrà poi fare i conti con la qualità dei fattori psicologici che lo accoglieranno (atteggiamento della madre, del padre e dei parenti più vicini) e la varietà delle risorse ambientali proprie di quella famiglia. Ci saranno in seguito i pericoli (gravissimi) tipici di tutte le adolescenze (emarginazione, bullismo, abusi sessuali, droghe, criminalità di ripiego) e in seguito tutti i rischi della vita adulta (malattie endogene o da contagio… fallimenti lavorativi… abbandoni sentimentali… incidenti di varia natura… e chi più ne ha più ne metta).

Insomma: la vita è un rischio! Sempre!

E non esistono zone sicure, strategie protettive o margini ancorché minimi di sicurezza. In ogni momento ognuno di noi può incontrare un incidente, una malattia o la morte.

Qual è allora la differenza tra i rischi che corriamo sempre e comunque e quelli che affrontano Alex e compagni? La risposta è semplice e sconcertante: la consapevolezza assoluta del rischio che si sta vivendo in quel momento.

In parole più semplici: attraversiamo la strada e un’auto condotta da un ubriaco ci investe. Siamo in casa con alcuni amici e un terremoto distrugge l’abitazione. Usciamo dal bagno, scivoliamo… e sbattiamo la testa sulla vasca. Stiamo dormendo, al caldo, nel nostro letto… ma senza darci nessun preavviso un cancro si sta sviluppando nel nostro corpo, oppure un infarto… all’improvviso, farà fermare il nostro cuore.

Alex in parete, ma così pure un paracadutista ad apertura ritardata, un sub in apnea a 150 mt. di profondità, un canoista impegnato su una cascata di 6° o un surfista che sfreccia nel “tubo” di un’onda oceanica… sanno con precisione cosa stanno facendo. Si sono preparati per anni, a volte per decenni, conoscono fin nei minimi dettagli le reazioni del proprio organismo e tutto ciò che c’è da sapere sull’ambiente in cui si muovono… e sono perciò in contatto diretto e cosciente con la linea sottilissima che separa la vita dalla morte.

Tutti viviamo e ci muoviamo nel rischio continuo della vita ordinaria, ma non ne sappiamo nulla!

I protagonisti dell’estremo, al contrario, vivono momenti di consapevolezza assoluta anche se, per poterla sperimentare, devono ogni volta mettere a repentaglio la propria sopravvivenza.

Ma non basta… la straordinarietà dell’esperienza, in casi ancora più estremi o comunque eccezionali permette l’apertura su dimensioni Altre del mistero dell’Uomo e sulla natura spirituale che in realtà gli è propria.

Nel mio libro, infatti, riportai i risultati delle più recenti e attendibili ricerche sulla natura della coscienza ordinaria dell’essere umano, enumerai quali fossero i fattori che la determinano, quali i casi in cui tale ordinarietà può essere varcata e, infine, accennai a dove può portare il suo superamento.

Per far ciò ripresi gli studi di Charles T. Tart (ritenuto all’epoca il massimo esperto sull’argomento coscienza) il quale, adottando un linguaggio mutuato in parte dalla fisica quantistica e in parte dall’informatica, anziché azzardare una definizione unitaria della coscienza ordinaria dell’uomo, sviluppò e perfezionò un approccio per sistemi il cui equilibrio dinamico la determinerebbe.

Tart partì dalla constatazione dell’esistenza di un centro di “energia di attenzione-consapevolezza” nonché di tutta una serie di strutture/funzioni/sottosistemi relativamente permanenti della mente-cervello che agiscono sull’informazione trasformandola in vari modi.

Si può intendere allora lo stato di coscienza di un singolo individuo in un dato tempo come il risultato dell’interazione tra l’energia di attenzione/consapevolezza e i dieci sottosistemi individuati dall’autore.

All’epoca, dovendo presentare la mia trattazione ad una commissione medico accademica, non ritenni opportuno correggere il termine “attenzione/consapevolezza” di Tart con la visione scientifico spirituale di Rudolf Steiner, secondo il quale la coscienza ordinaria che abbiamo della realtà è determinata dall’incontro della percezione sensoria con la corrente del pensare cosmico che, per oggettivarsi e prendere coscienza di sé, muore alla vita sovrasensibile che gli è propria.

Ma è anche vero che non avevo bisogno di correggerlo, perché l’idea che un forte squilibrio dei vari sottosistemi organici potesse portare in una condizione di “stato alterato della coscienza” (e quindi in una dimensione sovrasensibile) era comunque valida e di facile comprensione per tutti.

Rinviando al mio piccolo saggio il lettore interessato a spiegazioni più dettagliate sull’equilibrio statico eppur dinamico della coscienza ordinaria, credo sia facile intuire che allorché tale equilibrio per una qualche misura supera i sistemi di auto-stabilizzazione, d’improvviso si entra in stati alterati i quali, se non ottundono la presenza cosciente dell’Io, lo immettono in una dimensione sovrasensibile. Tart paragona questo momento ad un salto quantico oltre il quale le dieci strutture ordinarie possono cominciare a funzionare a livelli di intensità superiori, oppure possono cessare del tutto di farlo mentre ne entrano in funzione altre, in precedenza latenti.

Fu lo psicologo ungherese Mihaly Csikszentmihalyi che nel 1975 coniò il termine di Flow per descrivere, da un altro punto di vista, l’essenza di questa esperienza: uno stato di coscienza in cui la persona è completamente immersa, concentrata e coinvolta in un’attività così che la mente e il corpo sono in perfetta simbiosi. In questo stato è come se la coscienza fosse del tutto concentrata in un solo punto, quasi come una luce laser, e tutto scorre (appunto flow, flusso, o anche Stato di Grazia) creando una condizione di assoluta armonia e controllo del proprio compito, con massima gratificazione e positività.

Per affrontare tali imprese, ci suggerisce sempre M. Csikszentmihahalyi occorre una forte motivazione che è sempre correlata a due elementi essenziali: primo, la passione (fai qualcosa che ami e trai piacere e ricompensa nel farlo) e secondo, il significato che dai alle cose, il tuo scopo superiore o, in altre parole, quelli che sono i tuoi perché.

Perciò lo stato di Flow non sarebbe tipico solo dei grandi atleti, ma anche dei grandi scienziati, dei grandi esploratori, dei musicisti e degli artisti in genere… solo che, nelle attività estreme, il prezzo da pagare può essere la morte. La qual cosa, come vedremo tra breve, inserisce nell’esperienza un elemento essenziale in più.

Alex, nelle svariate conferenze rilasciate in tanti anni di Free Solo, si è sempre dimostrato ben consapevole del rischio che corre e, tra le tante sue affermazioni, due possono essere considerate fondamentali:

1) Tutti possiamo morire in un qualsiasi momento della nostra vita. Il Free Solo mi rende però molto più consapevole di questa umana realtà.

2) In fondo, mentre arrampico, mi sento un po’ come un guerriero concentrato solo sul proprio compito, quale che sia il prezzo da pagare.

Potrei continuare a lungo a parlare delle dinamiche psicologiche implicite o esplicite in queste singolari esperienze umane… ma credo sia giunto il momento, piuttosto, di aggiungere delle considerazioni scientifiche spirituali che, almeno mi auguro, possano gettare su di esse una tutt’altra luce… una luce spirituale.

Iniziamo pertanto a chiederci: cosa accade durante una così estrema attività all’istinto di autoconservazione? Un istinto che, come sappiamo, è il più potente in assoluto nella sfera biologica del nostro organismo. Un istinto che, nonostante la “inerzia amigdalica” (parziale atrofia dell’amigdala) o la “Ipofrontalità transitoria” (disattivazione parziale della corteccia prefrontale) riscontrate in molti di questi atleti, è pur sempre presente e non impedisce loro di essere del tutto consapevoli del rischio che stanno correndo.

Csikszentmihalyi cerca di cavarsela asserendo come in certe situazioni il loro proprio corpo scompare, la loro identità sparisce dalla coscienza perché non avrebbero abbastanza attenzione per fare qualcosa con così tanta concentrazione e allo stesso tempo sentire di esistere. Secondo il mio collega la loro esistenza sarebbe temporaneamente sospesa.

Mi permetto di asserire che Csikszentmihalyi commette il solito errore di capovolgere la relazione causa-effetto… e di non comprendere quale sia allora il Soggetto che realizza la performance estrema. Io credo, infatti, che non sia l’inerzia amigdalica o l’ipofrontalità transitoria a far sparire in Alex il senso di identità, bensì il presentificarsi del suo proprio Io spirituale, che scardina l’identità egoica ordinaria, altera il funzionamento amigdalico e si impone sull’istinto di autoconservazione che è proprio e solo di questa.

In alpinismo questa mia affermazione è dimostrata dal particolare rapporto dell’atleta con il vuoto. Perché il Grande Vuoto che si apre sulle verticali pareti di tutte le montagne non è “vuoto”, bensì è “pieno” di forze attraenti e devastanti dalle quali l’identità egoica si difende in tutti i modi possibili: dal senso di ripulsa, alle vertigini, allo svenimento. Perché sotto la rappresentazione cosciente ma limitata del “vuoto” il dato percettivo racchiude pure l’annullamento dello spazio. O, in altre parole, la dissoluzione della forma, il dissolvimento dell’incarnazione terrena, l’espansione senza più limiti nella dimensione dello spirito. È questo che spaventa, è questo che terrorizza. La tentazione-seduzione di infrangere i limiti spazio-temporali della propria esistenza.

In queste situazioni di esposizione al vuoto (o in altre simili di pericolo) nella persona non disciplinata ed equilibrata si può osservare come il corpo astrale tenda a ritrarsi su condizioni reattive di primitività animalesca. È quello che accade, ad esempio, nelle tipologie isteriche, nelle quali la percezione di pericolo scatena con immediatezza l’impulso istintivo di autotutela senza alcuna mediazione riflessiva… e che appunto perciò molto spesso è sbagliato. Nell’individuo più che maturo, al contrario, è possibile osservare come l’Io superiore tenda ad imporsi sulla tempesta emotiva, sullo scoordinamento motorio e sulla inefficace risposta istintiva, imponendo invece la propria legge superiore.

Chi arrampica compie gesti misurati, plastici, ieratici… quasi fossero una liturgia.

Il risultato, a fine esperienza, è quel senso di soddisfazione profonda e di pieno appagamento che Jon Krakauer, nel suo libro “Il silenzio del vento, paragona a quello sperimentabile nel sesso, solo molto più profondo e molto più durevole.

In effetti, questo è proprio quello che io credo che accada (anche per averlo sperimentato in prima persona): quando l’esperienza che si sta affrontando si avvicina al limite delle proprie capacità tutte le componenti astrali inferiori del nostro essere vorrebbero ritirarsi dal gioco… ma è in quel momento che si può fare l’esperienza (più o meno cosciente) dell’inserirsi dell’Io superiore nel tessuto inferiore astrale e affermare il proprio dominio. Tacitandolo! Placandolo! E agendo secondo la propria superiore volontà.

Ed è proprio questo agire conforme alla propria volontà per tutta la durata della performance che determina quello stato di profonda e prolungata beatitudine di cui parlava Krakauer.

All’atleta in azione può capitare ogni tanto di contemplare il vuoto… e di percepire allora con chiarezza la propria capacità di dominio su quell’elemento. Una capacità di dominio che non è pertinente alla sua egoità inferiore, bensì al proprio Io superiore che egli, con volontà estrema, ha chiamato in azione.

Dopo i primi anni di esperienza e riflessione sulla mia attività alpinistica, infatti, alla fine mi resi ben conto che si trattava di una severa educazione della volontà.

E questo a prescindere dalle mille esperienze sovrasensibili che, chi più o chi meno, molti protagonisti di attività estreme hanno sperimentato. Non è questo il fine. Allo stato attuale della nostra condizione terrena, in un momento drammatico come quello che stiamo attraversando e che è caratterizzato da uno spegnimento progressivo della luce della coscienza dell’Io a causa della dipendenza sempre più accentuata dall’uso di droghe (cannabis, cocaina, alcool, psicofarmaci), o dalla fiducia nel Racconto Dominante spacciato dalla stampa mainstream, e infine dall’uso indiscriminato del Web (su cellulari e personal computer), la scomoda verità è che il “Volere” dell’uomo moderno contemporaneo è fiaccato, indebolito, condizionato e vanificato nel suo potenziale.

Ma se anche è vero che il cammino spirituale adeguato all’uomo di questa epoca deve necessariamente iniziare dal pensare (come resurrezione del pensare dialettico-astratto-cerebrale a un pensare vivente liberatosi dalla riflessità nel sistema neuro-sensoriale) è pur vero che tale impresa necessita un pur minimo accesso alla volontà.

Nella pratica interiore, la concentrazione e la meditazione esigono oggi più che mai un volere estremo che sostenga il pensare nel superamento dei propri limiti. In tal senso non penso minimamente che le performance di Alex, o chi per lui, possano rappresentare una vera e propria necessità. Piuttosto esse corrispondono al destino (o karma) di alcuni uomini e donne straordinari, che non sono folli solo perché mettono a repentaglio la propria vita in attività estreme che la coscienza collettiva non concepisce. Né, al contrario, possono essere considerati modelli da emulare… o almeno non necessariamente.

Anche se Alex, a dire la verità sembra proprio essere adombrato da un archetipo: la genuina purezza e semplicità della sua coscienza, la modestia che lo contraddistingue, l’amicizia che lo lega i propri compagni e lo struggente amore “impersonale” della sua giovane donna sembrano infatti evocare la figura del Parsifal (il Puro Folle).

Come che sia…quello che invece va afferrato è il significato profondo del loro operato: la tensione estrema della loro volontà, il valore delle loro motivazioni più profonde e la capacità di donare tutto di sé stessi pur di raggiungere lo scopo.

Di questo abbiamo bisogno. Di questa volontà temprata al limite dell’impossibile, affinché un giorno questa forza possa aprire le porte dell’anima alla penetrazione dell’Io Spirituale sullo scenario del mondo terreno.

Chissà?… forse Alex e la manciata di giovani uomini e donne che praticano attività estreme sono fra i tanti altri guerrieri dei quali in un’epoca futura, più o meno lontana, questa umanità stremata dalla perdita di tutti i Valori Spirituali avrà bisogno per realizzare la propria superiore natura.

Piero Priorini

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