di Piero Cammerinesi

Novembre 1987 – Vogue

C’è chi non ha mai tempo e chi non sa come «ammazzare» il tempo.
L’uno cerca disperatamente di fermare l’attimo, l’altro di farlo trascorrere più rapidamente.
V’è chi

«… Sta delizia sia tormento,

Qualunque cosa rimanda a domani,

Sempre è in attesa del futuro

E mai gli riesce di concludere»

come dice Mefistofele a Faust alludendo a chi, desto nei sensi esteriori, ma assopito interiormente, non sa far uso del tempo.

E v’è chi come Faust stesso — pochi versi innanzi — pronuncia la frase:

«Oh attimo fermati, dunque, sei così bello»

nell’estremo tentativo di dare eternità a quanto — necessariamente — è destinato a perire.

Così, in questa altalena di posizioni estreme, si svolge la nostra difficile convivenza con il tempo.
Che la nostra esistenza sia saldamente ancorata al tempo e da esso dipenda è noto a ciascuno:, forse però non tutti riflettono a sufficienza su quanto la percezione del tempo si differenzi da persona a persona e da epoca a epoca.
In realtà su pochi temi come sul problema del tempo l’umanità si è scervellata per intenderne il senso ultimo e le implicazioni che esso ha sull’esistenza.

Il tempo che oggi noi conosciamo è, in fondo, il tempo misurabile. Il tempo perduto.

Perduto perché ogni istante è istante trascorso. È l’attimo fuggente, che nessuno potrà mai fermare senza che esso cessi di essere quello che è: un segno del tempo, del tempo che non c’è. Del tempo perduto, e perciò misurabile.

I filosofi hanno affermato che il tempo «è ciò che non essendo è ed essendo non è», sintetizzando così la sua inafferrabilità.

Ma, allora, il tempo… non passa! Ché il tempo vero non passa, ma è… il passare stesso.

Infatti passa solo ciò che si è percepito, che si è afferrato, che si ha. Passa l’automobile, percepita prima in fondo alla strada ed ora sfrecciante davanti a noi, passa l’amico, salutato sulle scale dell’ufficio, passa il turgore della rosa che s’è ammirata al mattino, passa, insomma, quanto — determinabile — si è percepito. Ma chi di voi ha mai afferrato l’attimo — ricordate il carpe diem di oraziana memoria? — e ne saprebbe descrivere il sapore, il senso?

Perciò nessun attimo — checché ne dicano i poeti — è mai stato fuggente, per la semplice ragione che non è mai stato veramente percepito. Cos’è, invece, che noi percepiamo nel suo muoversi nel tempo ed attraverso il tempo?

Il pensiero.

Pensiero che pensa il tempo, rende presente il passato e le immagini dell’avvenire, del tutto indipendentemente dalle determinazioni obiettive del tempo. E nel pensiero non abbiamo necessità di segni sensibili per quantificare il tempo che passa. Perché il tempo interiore non è tempo che passa, non è tempo perduto.

Così nessun attimo profondo, illuminante, fecondo è perduto, in quanto si è sottratto — per sempre — alla successione impietosa di istanti, ore, giorni, mesi, anni che si sedimentano nel tempo misurabile, nel tempo che non c’è mai.

Allora, sfuggito al tempo misurabile — che non c’è — quell’attimo è entrato a far parte del tempo non misurabile, l’unico veramente esistente, quello che scandisce le ore dell’orologio della nostra anima.

 

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