La scuola dell’apartheid

Racism concept image. White paper person agains black paper person

Sappiamo bene – quasi tutti lo abbiamo sperimentato in prima persona – come un gran numero di insegnanti, già i primissimi giorni di scuola, abbia ritenuto una priorità separare subito i buoni dai cattivi in base ai nuovi parametri etico-sociali, chiedendo agli scolari, o brutalmente per alzata di mano oppure in modo obliquo col ricorso a qualche miserabile espediente retorico, chi fosse vaccinato e chi no. Sapevano bene, costoro, di avere le spalle coperte, pur nella evidente illegittimità del proprio operato. La caccia all’untore, infatti, era stata autorizzata, se non addirittura sollecitata, da chiarissimi segnali di fumo che, emessi dai palazzi ministeriali a buon intenditor, dovevano fargli capire subito (all’intenditor) dove l’Autorità voleva andare a parare.

L’intento moralizzatore (di bassa lega) dei governanti trasudava fin dalla precoce direttiva sulle mascherine in aula, tanto significativa che il buon Patrizio si era sentito in dovere di glossare gioioso: «dove ci sono classi di completamente vaccinati si può tornare a sorridere insieme», che tradotto significava: cari i miei ragazzi, vi abbiamo inflitto il supplizio della mascherina a scopo rieducativo (vi avevamo spiegato anche quel dettaglio teleologico, se ricordate, noi agiamo sempre a fin di bene), ma ora vi elargiamo l’antidoto, omaggio della casa, e chi non lo accetta sarà ritenuto responsabile del perpetuarsi del supplizio altrui. Insomma, chi non si butta fiducioso nella sperimentazione di massa sarà iscritto nel registro delle persone poco raccomandabili, affette da scarso senso civico e spiccata propensione all’egoismo. A monito presente e a futura memoria.


Ora, di fronte a una tanto autorevole istigazione alla violazione della riservatezza e alla discriminazione, si capisce bene come gli insegnanti zeloti non abbiano perso tempo a stanare i reprobi ed esporli al pubblico ludibrio, pur a dispetto delle ragioni di una scelta che può avere mille ragioni e tutte parimenti legittime.

La cosa straordinaria è che, dopo il danno – che evidentemente è un danno irreversibile, visto che la conta delle due squadre, quella delle brave persone e quella degli insubordinati, è fatta una volta per tutte – è arrivata anche la beffa: con circolare del 29 settembre, lo stesso ministero, scodinzolando alla ramanzina del Garante della Privacy, ha ricordato agli stessi che aveva appena istigato che, ai sensi della normativa vigente,

«agli istituti scolastici non è consentito conoscere lo stato vaccinale degli studenti né quello dei loro familiari» e ha quindi proclamato l’illegittimità di iniziative «finalizzate alla acquisizione di informazioni sullo stato vaccinale, al fine di “prevenire” eventuali effetti discriminatori…».

Dove, a meritare una menzione speciale, è soprattutto il geniale invito alla “prevenzione”.

Sbaglierebbe tuttavia chi considerasse questa mirabile sequenza una espressione di pura e semplice cialtroneria: la cialtroneria è solo la maschera di una strategia tanto grossolana quanto spregiudicata che, in prospettiva, punta a implementare nelle scuole la medicalizzazione sistematica, il controllo generalizzato, la repressione del dissenso, la soppressione di ogni libertà.

E il regime predisposto per il rientro a scuola degli alunni in caso di quarantena, con modalità e termini gratuitamente diversificati a seconda che lo studente sia o non sia vaccinato, non fa che confermare il vero movente dell’operazione cosiddetta sanitaria tra i più giovani. A dispetto della ramanzina del Garante e della finta marcia indietro del ministero.

Infatti, già ai sensi della circolare 36254/2021 dello scorso agosto, era stabilita, per i compagni di classe del soggetto positivo, una diversa durata della quarantena a seconda del loro stato vaccinale: 7 o 10 giorni a seconda che avessero o meno completato il ciclo. Cioè tre giorni di scarto tra gli uni e gli altri, così, a caso. Nessuno si è premurato di spiegare perché tre giorni e non due, o quattro, o zero; tanto ormai il suddito modello è avvezzo a obbedire, senza fiatare, a ordini, contrordini, riordini, diramati secondo l’estro di sua maestà. Il succo della trovata dunque, mancando ogni fondamento logico e scientifico che giustifichi la diversità di trattamento, emerge proprio dalla sua patente irragionevolezza: l’istituzione vuole semplicemente diramare un avvertimento, avvisare che il suo scopo ultimo è quello di umiliare i renitenti alla leva vaccinale. Si comincia in modo felpato con una fattispecie residuale, per arrivare domani alla discriminazione conclamata e diretta. Poi, si sa, che dalla discriminazione alla persecuzione il passo è breve.

Il recente documento redatto di concerto da un super agglomerato – Istituto Superiore di Sanità, Ministero della Salute, Ministero dell’Istruzione e Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome – e intitolato “Indicazioni per l’individuazione e la gestione dei contatti di casi di infezione da SARS-CoV-2 in ambito scolastico”, non fa altro che ribadire la linea tracciata. È previsto infatti che, qualora emergano due casi positivi nella medesima classe, i soli alunni vaccinati continuino a frequentare in presenza, mentre i non vaccinati se ne stiano in reclusione seguendo le lezioni a distanza; qualora invece i positivi fossero tre, allora finiscono tutti a casa in DAD senza più distinzioni. Nemmeno in questo caso ovviamente, visto che non ci sono, vengono forniti i presupposti logici e scientifici della stravagante invenzione di gruppo, la quale dunque, proprio per la sua totale arbitrarietà, svela, di nuovo, la medesima ratio di stampo mafioso.

Si capisce allora come, davanti a simili alzate di ingegno, non abbia gran senso mettersi a contestare la violazione delle norme sulla riservatezza, la procedura di raccolta dei dati, le modalità ed il contesto del loro illecito trattamento, nonché della loro illegittima diffusione.

Diventa riduttivo, persino ridicolo, attaccarsi al famoso GDPR (normativa europea sulla privacy) nel momento in cui il non vaccinato è di fatto costretto al confino, cioè brilla di luce propria agli occhi del mondo a prescindere da chi e come abbia maneggiato i suoi dati sanitari. Il rispetto delle procedure legate alla cosiddetta privacy, superato a pié pari dalla esposizione dei reietti sulla pubblica piazza, è diventato uno stalking horse, specchietto per le allodole utile per dirottare lo sguardo dalla luna al dito: uno si affanna per far rispettare i cavilli, intanto la lista nera è già appesa in bacheca.

Ma siamo sicuri che sia poi così male? Proviamo a cambiare il punto di vista: la giungla non è il luogo delle procedure, ma del principio di effettività. E in fondo, è un servizio socialmente utile quello che offre il privilegio di riconoscersi. Perché quando la casa brucia non è più tempo di mimetizzarsi: è tempo di chiamarsi per nome.

Elisabetta Frezza

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