di Andrea Zhok
Ora, nel momento in cui il dibattito finisce nell’opposizione binaria tra la santificazione o la condanna di una “violenza illegale”, si perde di vista un fatto fondamentale.
Ma come avviene tale coazione?
In una società moderna, complessa, in cui per accedere al soddisfacimento di bisogni primari anche elementari ciascuno di noi deve poggiare su estese catene di divisione del lavoro, sul coordinamento di innumerevoli persone distanti, la distruzione coattiva del prossimo si può esercitare in moltissimi modi. Di fatto, la maggior parte delle forme di violenza si esercita in maniera indiretta e più per omissione che per commissione.
Il potere che esercita la violenza solo in minima parte è il potere diretto di chi spara, percuote, taglia. Esistono innumerevoli forme in cui si possono “fare offerte impossibili da rifiutare”, senza che scorra sangue. Nessuno dubita che intimare a qualcuno “O la borsa o la vita!” sotto minaccia di una pistola sia l’esercizio di una violenza, anche se non accade niente di cruento. Ma se a minacciare una vita non è la mia pistola, ma un accidente casuale, un incidente, una malattia, se qualcuno sta annegando davanti ai miei occhi e io mi metto a contrattare le condizioni per porgergli un salvagente, in che senso questa non sarebbe violenza?
Nell’Occidente contemporaneo la prima forma di potere non è quella conferita dalle armi o dai pugni, ma quella conferita dal denaro. Il denaro intermedia le nostre relazioni con gli altri, con le nostre stesse possibilità future, con l’ambiente circostante.
L’esercizio del potere intermediato dal denaro è molto più esteso, capillare e incisivo di quello di chi si sporca di polvere e sangue. La differenza in questa forma di esercizio della violenza rispetto a ciò che immaginiamo come violenza esemplare è nel suo carattere indiretto, nel tempo intercorrente tra cause ed effetti.
Per dire, quando decisioni legali e finanziarie (a partire dall’abrogazione dello Glass-Steagall Act negli USA) aprirono la strada a quello che poi venne chiamata la “crisi subprime”, nessuno percepì (né denunciò) alcuna violenza. Ma il meccanismo avviato in quel momento in America generò in capo a pochi anni il drammatico impoverimento di centinaia di milioni di persone incolpevoli e distanti in tutto il mondo, causò migliaia di suicidi per fallimento, il degrado improvviso delle condizioni di vita di milioni di persone e il conseguente insorgere di un’infinità di patologie, ondate di degrado sociale e culturale, lo spezzarsi di famiglie, l’abbattimento demografico in intere aree, l’esplosione delle depressioni, la morte del futuro per un’intera generazione in molti paesi (a partire, in Europa, dalla Grecia).
Quando, al giorno d’oggi, l’Unione Europea spende 132 miliardi di euro per il sostegno bellico di una guerra come quella in Ucraina, che poteva essere chiusa un mese dopo il suo inizio – salvando incidentalmente centinaia di migliaia di vite ucraine e russe – quei soldi sono sottratti all’erario pubblico cui afferisce il lavoro di tutti, e sono tolti ad ospedali, scuole, asili, pensioni, salari. Quando questo accade, accade sempre in modo graduale, indiretto, senza l’immagine caratteristica della violenza come “rapido precipitare degli eventi”; e tuttavia la catena degli effetti produce per alcuni solo un incremento del disagio, ma per altri significa passare un punto di non ritorno: perdere il controllo sulla propria vita, perdere la casa, il lavoro, la salute, la capacità di mantenere la propria famiglia, l’annegamento in una condizione senza più sbocchi.
Quando Israele importa 180.000 lavoratori stranieri per sostituire la manodopera palestinese, ed escludere così i lavoratori palestinesi dal lavoro nei territori occupati, non ha bisogno di sparare un colpo per mettere sotto ricatto vitale decine di migliaia di famiglie.
Eventi di questa natura si compiono ogni giorno sopra le nostre teste nelle forme astratte e inodori della speculazione finanziaria, della complicità tra corruzione politica e concussione economica, nella finzione liberale che i vizi privati si traducano magicamente in pubbliche virtù.
E tutto questo è VIOLENZA.
È violenza non meno spietata ed opprimente di quella delle bombe e dei carceri – e peraltro non disdegna occasionalmente di svilupparsi in bombe e carceri.
Ecco, alla fine possiamo dire che è certo sbagliato applaudire alla violenza del giustiziere solitario.
Ma la ragione, forse, non è tanto perché sia giustiziere, ma solo perché è solitario.
Andrea Zhok, nato a Trieste nel 1967, ha studiato presso le Università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex. È dottore di ricerca dell’Università di Milano e Master of Philosophy dell’Università di Essex. Oltre a saggi ed articoli apparsi in Italia e all’estero, ha curato scritti di Simmel (Il segreto e la società segreta, 1992) e Scheler (Amore ed odio, 1993). È autore di Intersoggettività e fondamento in Max Scheler (La Nuova Italia, Firenze 1997), Fenomenologia e genealogia della verità (Jaca Book, Milano 1998), Introduzione alla “Filosofia della psicologia di L. Wittgenstein (1946-1951) (Unicopli, Milano 2000) e L’etica del metodo. Saggio su Ludwig Wittgenstein. (Mimesis, Milano 2001). Attualmente collabora all’attività didattica e di ricerca presso le cattedre di Filosofia della Storia e Filosofia Teoretica II dell’Università degli Studi di Milano.