Ma non pare strano anche a voi che gli apostoli che insegnano il catechismo occidentale e progressista per fare proselitismo dei principi della fratellanza, della solidarietà e dei valori della libertà e della giustizia, si esprimano  in maniera sempre più aggressiva e becera? Che infarciscano le loro pastorali di insulti calunniosi e insolenze villane, un repertorio  che, prima che diventasse un irrinunciabile alleato, costituiva il bagaglio comunicativo dell’energumeno rozzo e ignorante che incarnava la destra più tanghera e lesiva della reputazione del Paese?

Voi direte che non è una novità a guardare al passato di azioni missionarie della religione dell’amore, a mezzo di crociate, fidelizzazione coatta di selvaggi renitenti con il contributo di eserciti conquistatori, seguite nel tempo da altre campagne finalizzate a spargere energicamente i semi della civiltà.

È che sono pochi quelli che resistono alla tentazione di incorrere nel reato di vilipendio, commesso prima di tutto per demonizzare il Male assoluto del Cremlino. Quello zar,  retrocesso dall’essere un tiranno dispotico e sanguinario, che merita l’accusa per crimini contro l’umanità, pretesa da potenze e leader che dal dopoguerra hanno invaso, depredato, bombardato Corea, Guatemala, Cuba, Indonesia, Congo, Laos, Vietnam, Cambogia,  Granada, Libano, Libia, El Salvador, Nicaragua,  Iran , Panama, Iraq, Kuwait, Somalia, Bosnia, Sudan, Afghanistan, Jugoslavia, Yemen, Pakistan, Somalia, Siria – e scusate se mi sono dimenticata  qualche bandierina nella mappa dell’export di civiltà, che hanno demolito democrazie, stato sociale e stato di diritto senza ricorso apparente alle armi, e definito ora con altrettanto cruenta ferocia, a matto, sociopatico affetto da delirio di onnipotenza, allucinato delirante in dolcevita di cachemire, che aveva mostrato i segni del suo squilibrio fin da fanciullo tirando la coda ai gatti e trastullandosi con dei topacci di fogna invece che con il simpatico criceto, come avrà fatto di sicuro la dinastia Biden.


Ma non si salvano augusti pensatori, accademici, filosofi, sociologi, strateghi e esperti di politica estera messi alla gogna con proterva veemenza, sottoposti a linciaggio, colpiti da anatema, scomunica e maledizione, aggrediti, sbeffeggiati, come persone perché squalificarli con le armi del confronto, della critica,  è troppo arduo.

Con un collaudato espediente retorico il processo di delegittimazione si riduce alla denigrazione della persona, alla demolizione dell’individuo, che pur titolato come competenza, studi, incarico, viene screditato come rincoglionito, qualora sia un Nobel, allucinato, se è un filosofo di fama internazionale, prezzolato da forze oscure, se è uno storico, da soggetti che non possiedono alcuna preparazione e competenza salvo quelle maturate all’università della vita, nessuna esperienza professionale se non quella acquisita dimostrando un’indole servile.

Spesso nell’interpretazione dei fenomeni della belligeranza ci facciamo possedere dal pensiero unico economicistico, corretto, ma che si limita ad attribuire le cause dei conflitti a moventi unicamente economici, quelli della  competizione commerciale, del furto, incetta e possesso delle risorse e trascurando  cause legate alla conservazione e promozione del ruolo e delle rendite della Politica e dei suoi funzionari, interessati a consolidare il loro dominio grazie all’artificiosa divisione manichea tra Bene e Male, Amico e Nemico e dunque impiegando e indirizzando verso i loro obiettivi le passioni “popolari” che animano e determinano gli schieramenti.

Applicando questo approccio su scala, ieri leggendo le emissioni suscitate dall’emetico del rancore bilioso dell’osceno Gramellini a proposito del professor Orsini, ho avuto la conferma che, insieme alla volontà di tutelare l’appartenenza selezionata a una casta “intellettuale”, la cui appartenenza è già di per sé fortemente usurpata da manovali dell’informazione che considerano un obbligo deontologico prestarsi alla manipolazione  alla menzogna,  una di quelle passioni tristi autorizzate dalla rivendicazione di una superiorità “morale” che deve avere il sopravvento su quella culturale, è l’invidia.

Si tratta di un sentimento molto analizzato dai filosofi e che ispira gran parte dei sanguinosi confronti che in questi due anni hanno opposto laureati nella stessa disciplina che dirigono le loro frustrazioni, i loro insuccessi di critica e di pubblico verso maestri fino a ora idolatrati, colpevoli con l’eresia di aver conquistato una popolarità e una visibilità insopportabile per i mediocri. Ma sappiamo che, siccome a detta di Aristotele, l’invidia tende ad insorgere  e a indirizzarsi contro individui che consideriamo uguali a noi e che hanno la colpa di essersi meritati la fortuna, a detta di  Nietzsche, così più crescono le opportunità, meno si tollera che si traducano in successo e fama per altri dei quali non si ammette la concreta e reale superiorità.

 

 

Ma come? sembra dire l’incaricato di servire il Caffè avvelenato del Corriere,  io mi umilio a scrivere sotto dettatura dell’editore,  mi presto a fare da comprimario al più indecoroso stuoino televisivo, mi sento obbligato a autobiografarmi per legittimare le mie turbe e le mie insoddisfazioni, poi arriva un professorino, assertivo e piagnucoloso, con deplorevoli caratteri lombrosiani, che occupa le pagine e gli schermi mirando a togliere lo spazio vitale alla corporazione di noi influencer accreditati.

Da un certo punto di vista bisogna anche capirlo, vivere sotto un giogo, rischiare ogni giorno di diventare irrilevanti come la gente comune, vedersi spegnere l’occhio di bue che illumina quei pochi minuti di notorietà  da qualcuno che inaspettatamente si è sottratto  al controllo che il conformismo esercita sulle nostre vite deve essere terribile e non può non provocare rancore e desiderio di vendetta.

E questo spiega il paradosso per cui questi interpreti della misericordia con il fucile patiscano del bene altrui, per dirla con Spinoza e provino amarezza del godimento altrui, per dirla con Schopenhauer, tanto più quando si tratta del piacere intellettuale della conoscenza, dell’esercizio della ragione e della critica.

Questo “odio impotente contro ciò che non si può essere o che non si può avere”,  unito all’avidità di possedere, di accumulare, di sfruttare, non spiega solo la lotta dei clerici frustrati e ignoranti di casa nostra, invidiosi della libertà, della capacità di procedere fuori dal gregge, della forza con la quale altri resistono per difendere i propri e gli altrui diritti, vale anche per le guerre che da sempre e per sempre insanguinano la terra rispondendo a  un disperato istinto suicida.

Anna Lombroso

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