Il Maestro e la Stele di Rosetta

di Piero Cammerinesi

Sono trascorsi quarantacinque anni da quel terso e freddo mattino romano in cui apprendemmo l’inaspettata e raggelante notizia del passaggio della soglia del maestro, avvenuto nella notte tra il 25 ed il 26 Gennaio del 1980.

Da allora non v’è stato un solo giorno in cui la sua presenza non si è manifestata in qualche modo dentro di me.

Un pensiero, una memoria, a volte semplicemente un profumo o un sentimento.

Una foto che scattai a Massimo Scaligero nel suo studio di via Cadolini. Era il 1978.

In particolare un giorno, nel corso di un viaggio in Tibet alla ricerca dei luoghi in cui era vissuto Tilopa, mentre stavo meditando sul lago Yamdrok, sobbalzai nel sentire sulla mia spalla sinistra la pressione delle tre dita con cui Massimo era solito salutarmi quando arrivavo al suo studio per l’incontro settimanale.

Ma a parte quell’esperienza che potrei definire ‘fisica‘, innumerevoli sono stati i momenti di contatto con lui oltre la dimensione terrestre.

A cominciare dal progetto di un film su di lui che nacque da un sogno.
Da un sogno e da vari piccoli miracoli.
Il sogno era quello di realizzare due obiettivi: la gratitudine e la pacificazione.
In primo luogo la gratitudine, la riconoscenza verso un essere che ha significato qualcosa di fondamentale nella vita di tutti coloro che hanno avuto la ventura di incontrarlo.
La gratitudine deve divenire testimonianza.
Testimoniare quello che si è sperimentato, lontano nel tempo e nello spazio.
Testimoniare ciò che si è vissuto perché rimanga qualcosa della gioia profonda, dell’unicità, della straordinarietà dell’esperienza di quell’incontro.
Perché chi non ha conosciuto Massimo Scaligero sappia che è esistito qualcuno che ha realizzato la coerenza assoluta, l’ascesi solare.
Poi c’è la pacificazione.
Quando si vive – come era allora il mio caso – da molti anni dall’altra parte dell’oceano, si guarda alle cose del passato e del proprio Paese con un certo distacco.
Tutti i contrasti sbiadiscono, si affievoliscono.
Chi guarda da lontano, nel tempo nello spazio, tende a vedere più le cose che uniscono che quelle che dividono.
Viste da lontano le differenze tra le persone, i diversi punti di vista, le varie interpretazioni sbiadiscono, appaiono meri dettagli.
La pacificazione deve allora essere il risultato della testimonianza, se la testimonianza viene dal cuore.
Per questo potrei dire che OLTRE, Un Tributo a Massimo Scaligero ha rappresentato un viaggio.
Un viaggio nel tempo e nello spazio.

Il viaggio di una persona che, dall’altro capo del mondo, e dopo oltre tre decenni, si confronta  con il ricordo dell’episodio più importante della propria vita.
OLTRE parla di un maestro, di una luce che illuminò per anni la vita di centinaia di persone.
Che splende ancora oggi.
La luce la si può vedere direttamente e allora si prendono i libri di Massimo e li si fa diventare carne e sangue.
Ma la si può vedere anche indirettamente, rivolgendo il proprio sguardo a quello che la luce ha illuminato, vale a dire alle anime ed ai cuori delle persone che lo hanno incontrato.
Allora questo viaggio è un viaggio nelle anime e nei cuori delle persone che sono state illuminate da questa luce.
Questa luce era Massimo Scaligero.
Quel sogno era anche un sogno di libertà.
Libertà da ogni dogmatismo, libertà da ogni sicurezza di possedere la verità, la giusta interpretazione, di essere gli unici abilitati ad abitare la cittadella dello spirito.
La targa che deponemmo a Veroli, paese natale di Massimo Scaligero, nel quarantesimo anniversario dalla scomparsa.

Poi ci sono i miracoli.

Miracoli come quello del suo intervento, quando, ad un certo momento, la realizzazione del film sembrava dovesse fallire.

Decisi allora di abbandonare totalmente ogni mio personale desiderio di portare a termine il progetto, lasciando a lui la decisione.

L’unico scopo del film era quello di essere utile alla sua missione terrestre, ma se questo doveva venir raggiunto, non doveva dipendere dalla mia volontà ma dalla sua.

Lascia la presa, mi dissi – come tante volte lui mi aveva insegnato – ed affida a lui la scelta. Cercai di fargli arrivare i miei pensieri, di affidare la scelta a lui.

In pochissimi giorni una situazione, apparentemente inestricabile, si sciolse d’incanto.

Questo episodio mi confermò l’esistenza di un legame profondo, indissolubile, che lega il maestro e i discepoli al di là del piano fisico.

Perché il maestro rappresenta, per colui che cerca una via di conoscenza di se stesso e del mondo, una sorta di stele di Rosetta.

Come il rinvenimento della stele di Rosetta, infatti, grazie alla presenza di un testo in greco oltre a quelli in geroglifici e in demotico, permise di decifrare la lingua egizia, così il maestro aiuta il discepolo a decifrare il suo interiore percorso verso il proprio sé superiore.

È, in qualche modo, un veicolo di decrittazione di un un linguaggio di cui, pur essendo profondamente radicato in noi – se così non fosse non avremmo neppure la spinta alla ricerca – all’inizio non troviamo la chiave per comprenderlo.

Una volta trovata tale chiave, può iniziare il proprio percorso interiore che, di vita in vita, ci porta a ritrovarci insieme al maestro.

Ciò avviene poiché il nostro karma è indissolubilmente legato al suo.

La mansarda della palazzina di Via Cadolini a Roma dove si trovava lo studio di Massimo Scaligero

Questo mi fu manifesto dal primo momento del nostro incontro, quando mi disse – ero appena entrato nello studio nel primo appuntamento con lui – con una espressione enigmatica del volto:

Noi ci conosciamo…ce ne hai messo del tempo per arrivare…

Da quel momento iniziò a svelarsi il linguaggio dell’anima, iniziò, con l’aiuto del maestro, la decifrazione della scrittura misteriosa del destino.

Nell’epoca dell’autocoscienza, una guida spirituale può aiutare il discepolo soltanto se gli dà modo di attingere in sé le forze per l’accesso al Sovrasensibile, in quanto tali forze già si manifestano, sia pure a un grado inferiore, nella conoscenza matematico-fisica del reale.
Non lo abbaglia con dottrine presupponenti una specifica visione del mondo o con interpretazioni già fatte di simboli e miti, bensì lo aiuta a essere egli stesso il liberatore del pensiero dalla maya dialettica e l’interprete diretto dei simboli (Massimo Scaligero, Kundalini d’Occidente).

E questo Massimo lo faceva sempre.
Il suo obiettivo dichiarato era quello di insegnare a pensare, non ad imporre i suoi pensieri.
Ad usare il pensiero come una scala su cui inerpicarsi per conoscere il mondo e se stessi. Per oltrepassare le colonne d’Ercole dei limiti della conoscenza imposti dai nostri sensi fisici.
Studiavo allora filosofia all’Università e spesso, nel mio appuntamento settimanale con lui, portavo il discorso su qualche autore di cui  mi ero entusiasmato. Massimo mi ascoltava sorridendo. Poi, alla fine del mio discorso, ribatteva:
Sì, hai ragione, ciò che afferma questo filosofo è molto interessante ma…
Dopo quel ma… proseguiva smontando tutta la costruzione filosofica del pensatore in questione e aggiungeva:
Pensaci su, poi magari la prossima settimana mi dici cosa hai concluso…
Me ne andavo un po’ contrariato e per tutta la settimana riflettevo sulla questione, fino a dover invariabilmente concludere che aveva ragione lui.

 

Tornavo e riconoscevo – anche se un po’ di malavoglia – che la sua interpretazione del testo dell’autore di turno era corretta.

E cosa succedeva allora?
Sempre con il suo calmo sorriso ricostruiva tutto il pensiero del filosofo che aveva smontato solo una settimana prima…
Io rimanevo attonito; comprendevo allora di avere a che fare con un autentico maestro Zen, che giocava con i pensieri come fossero dei koan da risolvere.
Perché ero io a dover imparare a vivere quei pensieri fino a smontarli e ricostruirli.
Il suo compito era quello di insegnarmi a farlo.

Un pensato è pensiero immoto, ricordo, o mero nome: non è nulla, se non viene di nuovo pensato. Di nuovo pensato, si anima e il suo animarsi è pensiero pensante: sul punto di esprimere la vita da cui in forma di pensiero si trae, ma inevitabilmente perdendola nella riflessità. Pensante, dunque, in quanto limitantesi alla proiezione spettrale di sé: all’astrattezza, senza la quale non saprebbe essere pensante. E questo è il limite di tutto l’idealismo di tutto il filosofare. Il limite che va superato (Massimo Scaligero, Trattato del Pensiero Vivente).

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