di Piero Cammerinesi
Sono trascorsi quarantacinque anni da quel terso e freddo mattino romano in cui apprendemmo l’inaspettata e raggelante notizia del passaggio della soglia del maestro, avvenuto nella notte tra il 25 ed il 26 Gennaio del 1980.
Da allora non v’è stato un solo giorno in cui la sua presenza non si è manifestata in qualche modo dentro di me.
Un pensiero, una memoria, a volte semplicemente un profumo o un sentimento.
In particolare un giorno, nel corso di un viaggio in Tibet alla ricerca dei luoghi in cui era vissuto Tilopa, mentre stavo meditando sul lago Yamdrok, sobbalzai nel sentire sulla mia spalla sinistra la pressione delle tre dita con cui Massimo era solito salutarmi quando arrivavo al suo studio per l’incontro settimanale.
Ma a parte quell’esperienza che potrei definire ‘fisica‘, innumerevoli sono stati i momenti di contatto con lui oltre la dimensione terrestre.
Poi ci sono i miracoli.
Miracoli come quello del suo intervento, quando, ad un certo momento, la realizzazione del film sembrava dovesse fallire.
Decisi allora di abbandonare totalmente ogni mio personale desiderio di portare a termine il progetto, lasciando a lui la decisione.
L’unico scopo del film era quello di essere utile alla sua missione terrestre, ma se questo doveva venir raggiunto, non doveva dipendere dalla mia volontà ma dalla sua.
Lascia la presa, mi dissi – come tante volte lui mi aveva insegnato – ed affida a lui la scelta. Cercai di fargli arrivare i miei pensieri, di affidare la scelta a lui.
In pochissimi giorni una situazione, apparentemente inestricabile, si sciolse d’incanto.
Questo episodio mi confermò l’esistenza di un legame profondo, indissolubile, che lega il maestro e i discepoli al di là del piano fisico.
Perché il maestro rappresenta, per colui che cerca una via di conoscenza di se stesso e del mondo, una sorta di stele di Rosetta.
Come il rinvenimento della stele di Rosetta, infatti, grazie alla presenza di un testo in greco oltre a quelli in geroglifici e in demotico, permise di decifrare la lingua egizia, così il maestro aiuta il discepolo a decifrare il suo interiore percorso verso il proprio sé superiore.
È, in qualche modo, un veicolo di decrittazione di un un linguaggio di cui, pur essendo profondamente radicato in noi – se così non fosse non avremmo neppure la spinta alla ricerca – all’inizio non troviamo la chiave per comprenderlo.
Una volta trovata tale chiave, può iniziare il proprio percorso interiore che, di vita in vita, ci porta a ritrovarci insieme al maestro.
Ciò avviene poiché il nostro karma è indissolubilmente legato al suo.
Questo mi fu manifesto dal primo momento del nostro incontro, quando mi disse – ero appena entrato nello studio nel primo appuntamento con lui – con una espressione enigmatica del volto:
Noi ci conosciamo…ce ne hai messo del tempo per arrivare…
Da quel momento iniziò a svelarsi il linguaggio dell’anima, iniziò, con l’aiuto del maestro, la decifrazione della scrittura misteriosa del destino.
Nell’epoca dell’autocoscienza, una guida spirituale può aiutare il discepolo soltanto se gli dà modo di attingere in sé le forze per l’accesso al Sovrasensibile, in quanto tali forze già si manifestano, sia pure a un grado inferiore, nella conoscenza matematico-fisica del reale.
Non lo abbaglia con dottrine presupponenti una specifica visione del mondo o con interpretazioni già fatte di simboli e miti, bensì lo aiuta a essere egli stesso il liberatore del pensiero dalla maya dialettica e l’interprete diretto dei simboli (Massimo Scaligero, Kundalini d’Occidente).
Sì, hai ragione, ciò che afferma questo filosofo è molto interessante ma…
Pensaci su, poi magari la prossima settimana mi dici cosa hai concluso…
Tornavo e riconoscevo – anche se un po’ di malavoglia – che la sua interpretazione del testo dell’autore di turno era corretta.
Un pensato è pensiero immoto, ricordo, o mero nome: non è nulla, se non viene di nuovo pensato. Di nuovo pensato, si anima e il suo animarsi è pensiero pensante: sul punto di esprimere la vita da cui in forma di pensiero si trae, ma inevitabilmente perdendola nella riflessità. Pensante, dunque, in quanto limitantesi alla proiezione spettrale di sé: all’astrattezza, senza la quale non saprebbe essere pensante. E questo è il limite di tutto l’idealismo di tutto il filosofare. Il limite che va superato (Massimo Scaligero, Trattato del Pensiero Vivente).