di Andrea Zhok
Quello che sta accadendo in Inghilterra è l’ennesimo campanello d’allarme – che, temo, rimarrà inascoltato – intorno al carattere strutturalmente fallimentare del modello liberal-globalista, dominante negli ultimi quattro decenni.
I fatti che si riescono con qualche fatica a ricostruire sono i seguenti. Una settimana fa a Southport, Merseyside, durante una festa rivolta ai bambini, Axel Rudakubana, un ragazzo diciassettenne, nato a Cardiff da genitori ruandesi, ha attaccato gli astanti a colpi di coltello, uccidendo tre bambine (6, 7 e 9 anni). Altre 9 persone, tra cui due adulti, sono state ferite; sei sono in gravi condizioni.
Le ragioni dell’attacco non sono chiare, ma si sospetta la malattia mentale. Il soggetto aveva una diagnosi di ASD (autism spectrum disorder), diagnosi che stante quel che è successo non sembra molto calzante, ma che comunque richiama qualche problema di carattere psichiatrico.
Sulla scorta della tragedia, immediatamente, parti della popolazione locale sono insorte prendendo di mira “gli immigrati”, categoria abbastanza indeterminata da definire per estendersi a tutti i soggetti in qualche modo identificabili come “etnicamente eccentrici”, inclusi anche gli islamici.
Questi ultimi hanno messo a loro volta in moto pattuglie di difesa, che hanno iniziato a prendere di mira negozi, pub e “inglesi bianchi”.
In brevissimo tempo gli scontri si sono propagati ad altre aree del paese: Manchester, London, Sunderland, Hartlepool, Aldershot, Belfast, ecc.
Ciò che si evince, con una certa angoscia, dai filmati, è che gli scontri hanno preso una piega schiettamente etnico-razziale, in cui per essere aggrediti da una di queste bande contrapposte basta essere “del colore sbagliato”.
La reazione del governo è stata caratteristica: si sono accusati dei disordini i soliti “gruppi di estrema destra” e le “fake news“, come se questa – quand’anche vera – fosse una spiegazione.
Il problema, ovviamente, è che, come sempre accade in queste situazioni, l’evento scatenante è sempre solo un’occasione, una scintilla occasionale, la cui eventuale irrazionalità non rappresenta un semplice “errore”.
Le autorità, ad esempio, hanno puntato il dito su alcune fake news che dipingevano l’omicida come islamico, mentre la famiglia non lo sarebbe. Ma è ovvio che l’eventuale notizia falsa ha potuto fare da accelerante solo perché una fiamma covava da tempo. (Va da sé, che anche se la famiglia fosse stata davvero di origine islamica, questo, razionalmente parlando, non avrebbe significato nulla, ma chiaramente la questione qui non ha più a che fare con imputazioni che potrebbero reggere in un tribunale: qui il fenomeno è sociale e acefalo).
Sul tema delle fake news va anche notato che una delle ragioni per cui esse attecchiscono così facilmente è l’inaffidabilità sistematica delle news ufficiali. Ad esempio, inizialmente non si riusciva in nessun modo a sapere quali fossero le caratteristiche etniche dell’aggressore, che veniva presentato come un “giovane gallese”. Come accade oramai sistematicamente, l’omissione era intenzionale, perché – questa è l’idea – al lettore l’aspetto etnico non deve interessare, essendo giuridicamente irrilevante e potenzialmente fuorviante. Ma nel momento in cui il pubblico capisce che le informazioni ufficiali non sono più notizie, ma lezioni paternalistiche, finisce per accettare più volentieri informazioni “clandestine”.
Stesso discorso si può fare per le solite accuse a molla all’Estrema Destra, come se si trattasse di un morbo, un virus, un fungo che accidentalmente cresce in certe aree e che andrebbe solo debellato con l’adeguato fungicida. Ma anche laddove a promuovere disordini così estesi ci siano gruppi politicamente organizzati di estrema destra, la domanda reale è sempre: perché sono nati, perché crescono, perché hanno seguito?
L’attitudine ad esaminare i fatti sociali in termini di dinamiche strutturali e culturali di lungo periodo è pressoché assente.
Si ragiona in termini legalistici, come se la società fosse un tribunale in cui si va a valutare solo la responsabilità personale per violazioni di legge dimostrabili. Ma ovviamente il livello a cui nascono le tensioni e gli scontri è sempre solo in minima parte alla luce del sole, e solo un’esigua minoranza dei conflitti riescono ad essere identificati e condotti davanti ad una giuria.
Di fatto, quanto maggiore è la conflittualità sociale, tanto più grande sarà la percentuale di conflitti che non risulta ufficialmente visibile. Capisco che il primo ministro Starmer, o chiunque altro fosse stato al posto suo, non possa in questo momento far altro che appellarsi all’ordine pubblico, agli arresti, ai processi, alle cariche della polizia, ma è un errore drammatico pensare che sia a questo livello che tali problemi possono trovare una soluzione. Si tratti di problemi che montano nei decenni e ci mettono un minuto a prendere fuoco, magari per un fraintendimento.
Sul piano strutturale il problema è abbastanza semplice da descrivere: ampi movimenti migratori di persone su brevi periodi di tempo creano sempre tensioni, perché producono incertezza, insicurezza e competizione sul mercato del lavoro.
Se poi queste persone presentano anche costumi o una cultura rilevantemente divergenti, le tensioni ne risultano ancora più esacerbate.
Si tratta comunque di processi di carattere prevalentemente quantitativo. Le variabili decisive sono la quantità di persone per unità di tempo.
Come diceva Polanyi, nei fenomeni sociali la variabile più importante è la loro velocità. Il medesimo mutamento se avviene in dieci o in cinquanta anni, semplicemente non è il medesimo fenomeno e non ha le medesime conseguenze. Non si tratta di predicare società ermeticamente chiuse, che non sono mai esistite, ma di comprendere che l’alternativa non può mai essere il “liberi tutti”.
Qui alla rigidità ideologica conservatrice (che fu, e che ancora talvolta fa capolino) di una società etnicamente e culturalmente “incontaminata” ha fatto da contraltare negli anni una rigidità ideologica opposta e simmetrica, in cui la “contaminazione”, il “multiculturalismo”, il “melting pot” sono diventati altrettanti slogan pubblicitari, vaghi, retorici e soprattutto ipocriti.
Le argomentazioni del globalismo liberale hanno sempre mescolato disinvoltamente argomenti pseudo-utilitaristi (ci serve manodopera, chi ci pagherà le pensioni, ecc.) con argomenti pseudo-umanitari (il dovere dell’accoglienza, l’amore per il diverso, il diritto d’asilo, ecc.).
L’importante è sempre stato poter utilizzare una batteria argomentativa quando l’altra appariva momentaneamente implausibile.
Ma di fatto i meccanismi profondi che hanno alimentato la retorica del “melting pot” qui sono di due soli tipi, un meccanismo crudamente economico e un meccanismo ideologico.
Sul piano economico, la libertà di movimento della forza lavoro consente al capitale di ottenere mano d’opera a buon prezzo senza dover pagare per la crescita e l’educazione di quelle braccia, che arrivano pronte dall’estero. Questo processo abbatte il potere contrattuale del lavoro meno qualificato, tenendo bassi i salari.
Sul piano ideologico, la visione liberale ha proposto un modello di universalismo astratto in cui le componenti culturali, linguistiche, religiose, e di costume sono considerate fattori marginali e contingenti, che era non solo possibile, ma doveroso mettere da parte.
La combinazione di queste pressioni nel lungo periodo hanno creato ferite sociali profonde, squilibri, tensioni, tipicamente più percepite nelle fasce della popolazione meno abbiente. Spero di sbagliarmi, ma per alcuni paesi come Francia e Regno Unito non so se se ne potrà uscire con qualcosa di meno che una sorta di guerra civile. Non ci resta che sperare che in altri paesi ci siano ancora in margini per un allentamento dei processi degenerativi.
Una cosa, comunque, è sicura. La retorica di chi dice che, siccome migrazioni ci sono sempre state, bisogna semplicemente “accogliere il cambiamento”, è complicità nel degrado.
Andrea Zhok, nato a Trieste nel 1967, ha studiato presso le Università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex.
È dottore di ricerca dell’Università di Milano e Master of Philosophy dell’Università di Essex.
È autore di numerose pubblicazioni, scientifiche e divulgative; tra le pubblicazioni monografiche: “Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo” (Jaca Book 2006); “Emergentismo” (Ets 2011); “Critica della ragione liberale” (Meltemi 2020).