Sono ormai diversi anni che si sente parlare di “cambio di paradigma”. Ho amici carissimi che si spendono e affannano a far arrivare questo importantissimo messaggio: siamo in un periodo di transizione ed è necessario un cambio di paradigma. Certo “bucare” il muro omertoso dell’informazione non è facile; quella che sarebbe più corretto chiamare propaganda di Stato è una fitta rete di disinformazione o, quanto meno, di informazione strabica che poco o nulla lascia trapelare di quella che è la realtà e, tantomeno, dà voce a chi la pensa diversamente.

Ma cosa s’intende con cambio di paradigma?

Il termine deriva dal greco παράδειγμα (parádeigma) che significa “mostrare, presentare” come anche “esempio, modello”. Ora, non so cosa intendano in molti con cambio di paradigma, ma quello che segue è il mio modo di interpretare l’esigenza di tale cambiamento.

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Ho già espresso diverse volte la necessità, a mio avviso, di dover ripensare al modo con cui conduciamo le nostre vite, il modo di intendere le relazioni sociali, così come quelle con il resto degli esseri con i quali condividiamo questo pianeta. In questa occasione cercherò di essere più chiaro, almeno lo spero.

Il problema non è apportare qualche cambiamento, per quanto strutturale, profondo, incisivo, radicale, al modello in essere. Cambiare modello implica un cambiamento definitivo nella percezione del nostro ruolo e del significato stesso del modo di intendere la nostra esistenza. Scusatemi, non voglio essere pedante, ma le parole sono importanti, soprattutto il loro significato al quale, a volte, non poniamo più attenzione a causa della consuetudine. Ma cos’è un modello?

Modello deriva dal latino modŭlus, cioè modulo, ossia qualsiasi cosa fatta per servire come riferimento. Consideriamo che adottare qualcosa come riferimento non significa conformarsi né aderire totalmente a esso, ma prenderlo a esempio e che, quindi, il modello può essere suscettibile di parziali modifiche e interpretazioni. Non è un dogma. Detto questo, facciamo una seconda considerazione: qual è lo scopo, il senso ultimo di un modello sociale? Sembra banale dire che dovrebbe essere il benessere della comunità. Ancora una volta, cosa intendiamo con benessere?

Questo termine oggigiorno è tra i più abusati in ogni campo; recentemente ho sentito una pubblicità che sostiene che, se comprerete quella tale automobile, il solo sedersi al suo interno vi procurerà una sensazione di benessere.

Ben-essere, esistere bene è uno stato che coinvolge tutti gli aspetti dell’essere umano, e caratterizza la qualità della vita di ogni singola persona all’interno di una comunità di persone (società). Il benessere consiste quindi nel miglior equilibrio possibile tra il piano biologico, il piano psichico ed il piano sociale dell’individuo; la condizione di benessere è di natura dinamica (Wikipedia).

Definizione con la quale sono perfettamente d’accordo e che credo sia difficile raggiungere semplicemente entrando in un’automobile o facendo la spesa. Ammenoché non intendiamo questo termine come indicato in una delle definizioni che ne dà la Treccani, quale “Condizione prospera di fortuna e agiatezza”, che è la condizione in cui vive un benestante, dando quindi al lemma una connotazione fortemente economica, che è diversa dal ben-essere, esistere bene di cui sopra. Allora capisco cosa intende la pubblicità: se ti siedi qui dentro apparterrai anche tu alla schiera dei benestanti.

Quindi, nell’accezione comune, benessere sembrerebbe significare avere tanti soldi. In effetti, qual è il modello di questa società se non avere soldi, essere benestanti, lavorare per potersi permettere una vita agiata?

Ne consegue che, se vogliamo davvero cambiare modello, paradigma, lo scopo di quello nuovo non può essere lo stesso del precedente.

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Per farlo, dobbiamo essere onesti soprattutto con noi stessi e riconoscere che tutto quello che abbiamo pensato finora, quello che ci è stato insegnato, quella che ci viene mostrata come verità ineluttabile dalle istituzioni e dai media, insomma, quella che è la nostra percezione della realtà, non è una condizione imprescindibile e immutabile dell’essere parte di una società, ma semplicemente una convenzione. Una convenzione che poteva avere un senso, forse, in passato, ma che ora mostra la corda, la sua inadeguatezza e, soprattutto, il suo fallimento.

Mi si potrebbe obiettare che oggi si sta meglio di tanti anni fa, che abbiamo più strumenti per combattere le malattie, la vita media si è allungata, il senso di “benessere” (non di esistere bene) è maggiore che decenni fa. Tutto vero, forse, ma queste argomentazioni stanno sempre all’interno di un modello vecchio e inadeguato.

Quanto ancora dovremmo aspettare per comprendere che stiamo distruggendo il mondo che ci ospita, che i primi a pagarne le conseguenze saremo noi e non la vita? Per quanto ancora vogliamo continuare a sostenere un sistema che ha come unico obiettivo non il ben-essere di uomini e donne, ma di una élite? Siamo proprio sicuri che non si possa fare altro nella vita che lavorare sempre di più per permetterci sempre di meno? E che l’unico scopo nell’essere vivi sia sfiancarsi di lavoro, essere stressati tanto da andare avanti a psicofarmaci per far vivere nell’agiatezza sfrenata un gruppo irrisorio di persone? Le stesse che ci “offrono” l’informazione, che stabiliscono cosa devono insegnare le scuole, quali sono gli ambiti di ricerca delle università, che decidono come e quando mandare i nostri figli a combattere guerre insulse, per motivi reali a noi sconosciuti?

Vogliamo continuare a fare tutto questo vivendo in una società senza una meta comune e condivisa di cui sentirci orgogliosi protagonisti, come scrivevo nel mio ultimo articolo? Dobbiamo avere la forza di dubitare, di osservare criticamente la società e il modello di vita che ci viene proposto da decenni, se non centinaia d’anni.

Vi sento già dire che quanto da me espresso, per quanto – magari – condivisibile è comunque irrealizzabile, perché noi non contiamo nulla. Quante volte mi è stato detto: “tanto è inutile, quelli continueranno sempre a fare quello che vogliono”“Ormai sono anni che non vado più a votare, tanto non cambierà mai nulla”.

E invece no, questo è ciò che vogliono che voi pensiate, questo fa parte del vecchio modulo. Abbiate la forza e la volontà di liberarvi da questo schema, abbandonate il vecchio esempio. Non fermatevi alle apparenze, che nel caso in questione sono i dibattiti politici su cos’ha detto quello o cosa ha fatto quell’altro; se il PIL è cresciuto o l’inflazione è aumentata; se ha ragione Tizio oppure Caio; se è giusta la transizione verde o no; se si sta facendo abbastanza per evitare il disastro climatico, ecc. Tutte queste considerazioni, per quanto giuste, valide e importanti, si svolgono sempre nello stesso territorio, sullo stesso campo da gioco del vecchio modello.

Io parlo di un cambio radicale, di mettere in discussione l’intero sistema; non parlo di una rivoluzione, ma di una evoluzione. Se è vero che, come dicono i più, “è da sempre che il mondo funziona in questo modo”, che “ci saranno sempre le guerre” e così via, è possibile che in tutto questo tempo l’uomo non ha ancora trovato un altro modo per condividere la sua esistenza con il resto dei suoi consimili e degli altri esseri viventi? In centinaia e migliaia d’anni, a parte dal punto di vista scientifico e tecnologico, non c’è stato un minimo cambiamento nel modo di intendere la nostra vita?

Mi rifiuto di credere di appartenere a una “razza di deficienti”, come scriveva Asimov e sostengo, a spada tratta, che l’essere umano possiede la capacità di osservare criticamente la realtà, di riflettere su di essa e di capire la necessità di operare un vero cambio di paradigma.

O aveva ragione Asimov?

 


Danilo D’Angelo di professione architetto. Ha insegnato per alcuni anni. Dirige la Naveen Nursery and Primary School a Varanasi India.

Membro della segreteria dell’associazione Centro di Gravità.