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Recedite, recedite; exite inde, pollutum nolite tangere; exite de medio ejus; mundamini, qui fertis vasa Domini.

(Is 52,11)

Quando si scatenò la persecuzione di Decio, nel 250 d.C., i tempi delle catacombe erano lontani. Pur mal viste e occasionalmente bersaglio di attentati e soprusi, le comunità cristiane si erano diffuse ovunque nell’impero, prosperavano anche economicamente e contavano appartenenti in ogni ceto sociale. Fu perciò tanto più traumatica la decisione del nuovo sovrano di obbligare tutti i cittadini a rendere un sacrificio pubblico agli dei pagani sotto pena di subire la tortura, l’esilio, la spoliazione dei beni e, nei casi più gravi, la morte. Milioni di cristiani tra cui anche nobili, possidenti e alti funzionari dello Stato si trovarono così da un giorno all’altro costretti a scegliere se offendere la propria fede o perdere tutto.

Quella deciana non nasceva come una persecuzione. L’imperatore voleva allestire una consacrazione di massa agli idoli pagani per restaurare la pietas tradizionale e propiziare la vittoria militare contro i barbari che premevano ai confini. Le pene riservate ai riluttanti erano uno strumento di questo progetto, per la cui realizzazione ci si avvalse del poderoso apparato burocratico imperiale come mai era accaduto prima. Affinché nessuno sfuggisse al precetto, il sacrificio prescritto doveva svolgersi in presenza di testimoni e di un ufficiale pubblico incaricato di rilasciare un certificato (libellus) che ne attestasse il compimento. Senza libellus si era fuori dalla società e dalla legge.

Secondo gli storici e i contemporanei, fu tutto sommato esiguo il numero di coloro che in quei mesi persero effettivamente la vita per la fede, come toccò ad esempio al pontefice Fabiano. Alle autorità romane non sfuggiva il rischio di creare nuovi esempi di santità col martirio, sicché miravano piuttosto a indebolire e corrompere le comunità eterodosse per assimilarle. Molto più numerosi furono perciò i cristiani che per evitare le pene annunciate si piegarono a rendere omaggio alle divinità pagane. Fu quasi un’apostasia di massa che, una volta decaduto l’editto, lasciò una ferita profonda nel cristianesimo delle origini e sollevò il problema di come trattare i tanti che chiedevano di rientrare in seno alla Chiesa pur essendo «scivolati» (lapsi) nell’idolatria. Ne scaturirono diatribe, concili e anche i primi scismi di Novaziano e Felicissimo, che giudicavano rispettivamente troppo accomodante o troppo severa la posizione del papato.


Cipriano, vescovo di Cartagine e futuro martire e santo, ci ha lasciato una testimonianza di quegli eventi nelle epistole che indirizzava alle comunità dei fedeli dal suo esilio segreto. Rientrato a Cartagine dopo la morte di Decio, affidò alla lettera pastorale De lapsis un commento e un giudizio sulle condotte tenute dai confratelli durante la persecuzione. Dopo avere reso grazie a Dio per la cessazione del pericolo e la sua breve durata, tanto da potersi dire una prova più che una vera persecuzione («exploratio potus quam persecutio»), tesse innanzitutto le lodi dei confessores, cioè di coloro che si erano apertamente professati cristiani al cospetto dei magistrati, affrontandone le conseguenze. L’omaggio che va reso a quei pochi e coraggiosi testimoni, aggiunge, vale anche per coloro che avessero infine ceduto sotto gli insopportabili tormenti. Essi avevano infatti peccato per necessità, non per volontà; si erano piegati al castigo, non alla prospettiva del castigo («nec excusat oppressum necessitas crimini, ubi crimen est voluntatis»).

In polemica con i rigoristi scismatici e il Tertulliano del De fuga, Cipriano ritiene che debbano essere glorificati anche i tanti renitenti («stantium moltitudo») che, «saldamente radicati nei precetti celesti» e senza temere i castighi promessi, avevano scelto di non presentarsi all’appuntamento fissato per il sacrificio, affermando così implicitamente la loro fedeltà a Cristo. Se infatti «

la prima vittoria è di chi, caduto nelle mani dei gentili, professa il Signore, la seconda è di chi si ritira cautamente serbandosi a Dio».

Chi non adempiva doveva darsi alla macchia, come fece anche Cipriano e come esorta a fare secondo l’insegnamento delle Scritture:

«sì, bisognava lasciare la patria e subire la perdita del patrimonio» perché «è Cristo che non deve essere lasciato, è la perdita della salvezza e della dimora eterna che deve essere temuta».

L’esilio non è una sconfitta, spiega, ma piuttosto una condizione per preparare e compiere la volontà divina, anche fino all’ultimo sacrificio.

«Infatti, poiché la corona dipende dalla degnazione di Dio e non la si può ricevere se non nell’ora stabilita, chi se ne va restando in Cristo non nega la sua fede, ma attende il tempo. Chi invece cade per non essersene andato, significa che è rimasto per negare Cristo».

Lo stesso Cipriano, dopo essere sfuggito alla prima persecuzione, sarebbe caduto martire alcuni anni dopo sotto Valeriano.

Nella parte centrale dello scritto, la più dolorosa e polemica, il vescovo stigmatizza i comportamenti degli apostati e registra inorridito la prontezza con cui la maggior parte dei fratelli («maximus fratrum numerus») si era precipitata all’appuntamento sacrilego. Eccoli

«correre di loro iniziativa al foro, affrettare spontaneamente la loro morte [spirituale], quasi desiderassero farlo da tempo, quasi abbracciassero l’occasione che era loro offerta e che avevano ardentemente desiderato».

Rimandati alla mattina seguente dai magistrati per mancanza di tempo, insistevano affinché li si ricevesse il giorno stesso. Accorsi all’«altare del diavolo» con una vittima da immolare, non si avvedevano di essere essi stessi le vittime («ipse ad aras hostia, victima ipse venisti») e che su quel braciere avrebbero consumato «la loro salvezza, la loro speranza, la loro fede».

Molti, non contenti di avere distrutto sé stessi, si prodigavano per spingere il prossimo nella loro stessa rovina e, «affinché nulla mancasse al cumulo dei crimini», anche i bambini furono «obbligati o incoraggiati dai loro genitori a perdere ciò che avevano ricevuto» con il battesimo.

Cipriano immagina le parole con cui questi innocenti si sarebbero discolpati nel giorno del giudizio, puntando il dito contro chi li aveva messi al mondo. Segue poi una descrizione delle tragiche reazioni patite da alcuni apostati, come il caso di un uomo divenuto muto «acciocché non potesse più implorare misericordia» o di una donna che, avendo subito approfittato della libertà concessale per svagarsi alle terme, vi aveva trovato la possessione e la morte. L’autore insiste molto sulla dimensione corporale del peccato: l’assunzione della vittima sacrificata è un’anti-eucaristia che ammorba l’anima penetrando gli organi, una reincarnazione del frutto dell’Eden, sicché gli è facile mettere in opposizione i «cibi scellerati» con i «cibi celesti», «il toccare la cosa immonda, il lasciarsi violare e insozzare dalle carni avvelenate» con la comunione eucaristica. Tra gli apostati che si erano riaccostati impenitenti al sacramento, riferisce, alcuni avevano trovato cenere o fiamme in luogo della particola, altri l’avevamo vomitata, altri erano collassati. Episodi isolati, è vero, ma avverte che nessuno doveva perciò presumersi impunito per sempre («nec hic esse sine poena possunt quamvis necdum poena dies venerit») perché

«nel frattempo sono colpiti alcuni affinché gli altri siano avvertiti, la sciagura di pochi è un esempio per tutti».

Vi erano poi alcuni, detti libellatici, che per evitare le sanzioni senza commettere materialmente il sacrilegio si erano procurati il libellus da esibire alle autorità con la corruzione o mandando altre persone sotto falsa identità. Sappiamo dall’epistolario dell’autore che a questi espedienti avevano fatto ricorso anche diversi sacerdoti e persino dei vescovi. La loro condotta è meno grave, ma comunque esecrabile («hoc eo proficit ut sit minor culpa, non ut innocens conscientia»), perché «quel certificato è esso stesso una confessione di apostasia» e un atto di sottomissione a un decreto umano che viola le leggi di Dio. «Come può essere con Cristo chi si vergogna o ha paura di appartenere a Cristo?», si chiede.

Le parole più dure sono riservate agli apostati che, per iniziativa propria o perché traviati da cattivi pastori

«il cui eloquio si diffonde come un cancro e la cui propaganda tossica e velenosa uccide più della stessa persecuzione»,

pretendevano di tornare in comunione con la Chiesa senza adempiere alle penitenze prescritte, dimostrando così di non tenere in alcun conto la gravità del peccato o addirittura presumendo di non averne commesso alcuno. Questa leggerezza rinnova e duplica il sacrilegio, spiega il cartaginese, perché chi aveva tremato davanti agli uomini ora non trema davanti a Dio e

«quando doveva stare in piedi si è prostrato, quando dovrebbe invece prostrarsi e inginocchiarsi, resta in piedi».

Implora perciò i fedeli di

«aprire il cuore alla consapevolezza del crimine commesso senza disperare della pietà divina, ma anche senza pretendere il perdono istantaneo» dispensato dal clero deviato che propala «false promesse di salvezza».

La durata e l’intensità della penitenza devono essere commisurate alla gravità del peccato («quam magna delinquimus, tam granditer defleamus») e riflettersi anche negli atti e nell’aspetto esteriore, affinché si dia piena «prova del dolore di un’anima contrita e pentita».

 

Nell’interrogarsi sulle cause di una disfatta così clamorosa Cipriano considera la «lunga pace» accordata ai cristiani che, ormai quasi dimentichi delle ultime grandi persecuzioni, si erano integrati nella società imperiale accumulando cariche e patrimoni. Al rilassamento dei rapporti con l’autorità statale si era accompagnato anche un rilassamento dei costumi,

«nessuna devozione nei vescovi, nessuna integrità di fede nei sacerdoti, nessuna misericordia nelle opere, nessuna disciplina nei comportamenti».

La fede si era «illanguidita, direi quasi addormentata» e le comunità si erano date ai traffici: «ciascuno si studiava di aumentare le proprie ricchezze» con «insaziabile cupidigia» e molti vescovi, abbandonati gli uffici divini, si dedicavano agli investimenti, all’usura e ad altre faccende secolari («divina procuratione contempta procuratores rerum saecularium fieri»).

Il santo, appartenente egli stesso a una famiglia facoltosa, non considera la sicurezza sociale e il benessere materiale come mali in sé. Essi diventano tali se oggetti di un attaccamento che dispone alla negazione di Dio. Ritiene perciò che con la persecuzione «il Signore ha voluto mettere alla prova la sua famiglia» e lanciare un monito la cui necessità si è dimostrata proprio nella risposta data dai credenti. Questi ultimi, spiega, sono caduti proprio a causa delle ricchezze che li tenevano incatenati al mondo e alle sue condizioni. La capitolazione dei lapsi assume così un chiaro senso didascalico:

Non potevano avere la libertà e la prontezza di ritirarsi coloro che si erano legati ai beni materiali. Questi erano i ceppi di chi è rimasto, queste le catene che hanno impedito la virtù, soffocato la fede, sopraffatto il giudizio e strozzato l’anima, affinché coloro che si aggrappavano alle cose della terra divenissero cibo e preda del serpente che Dio ha condannato a divorare la terra.

Cipriano non denuncia un calcolo, bensì un abbaglio, la follia di spendere l’eternità per comprare ciò che ci sarà comunque tolto («cui enim non nascenti adque morienti relinquenda quandoque?») e la sfiducia nella Provvidenza divina che per bocca di Cristo assicura «multo plura in hoc tempore» a chi lascia i tesori mortali per Dio (Lc 18,29-30, C. cita a memoria e scrive «septies tantum»).

La lezione di ascesi è anche una lezione di logica: l’«indipendenza» economica è a conti fatti il suo opposto, una dipendenza da chi la può concedere, tutelare e revocare, dal padrone temporale che può anche metterla al prezzo della dignità, o dell’anima. Dal disordine della persecuzione emerge così l’essenza della dialettica cristiana, l’opposizione tra il passaggio mondano e la vocazione celeste, il non essere del mondo e perciò odiati dal mondo (Gv 17,14) e la conseguente certezza che gli omaggi terreni si scontano con la moneta reclamata da chi offriva invincibilità e sazietà nel deserto: «tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai» (Mt 4,1-11).

Il pedante

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