DDL Zan, ovvero Caligola che fa console il suo cavallo

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Fino a questo momento mi sono guardato dall’intervenire sul cosiddetto “Ddl Zan”. Il diritto penale non è la mia materia e, data un’occhiata a qualche cronaca sui contenuti del Ddl e sul relativo dibattito, mi ero fatto l’idea che la discussione si sarebbe presto sopita e che un testo così bislacco e raffazzonato sarebbe caduto nel dimenticatoio senza che neanche si arrivasse in proposito a un dibattito parlamentare serio. Ma il fatto che col passare dei mesi il Ddl resti sulla cresta dell’onda, a differenza di proposte dalla spiccata rilevanza sociale come salario minimo e obsolescenza programmata, e le sollecitazioni di svariati colleghi allibiti e preoccupati mi spingono a una più attenta analisi critica del testo, cercando di evidenziarne i punti più allarmanti, nell’auspicio di dare un modesto contributo affinché quello che a me pare soltanto il frutto di molta confusione – terminologica, concettuale e fors’anche mentale! – non possa aspirare seriamente a trasformarsi in legge dello Stato. Ciò aggiungendo alcune considerazioni di più generale portata alle più specifiche e ben motivate critiche giuspenalistiche che già tanti esperti del settore hanno manifestato. Per la verità, tali e tante sono le amenità contenute nella proposta, che si ha solo l’imbarazzo della scelta di quelle su cui più infierire!

Il disegno di legge (S. 2005) è attualmente in una fase avanzata del procedimento parlamentare, in quanto un testo è stato approvato alla Camera il 4 novembre 2020, unificando diverse proposte, tra cui quella di cui l’On. Zan era primo firmatario e relatore (C. 569). È opportuno concentrare le osservazioni su alcuni aspetti del testo già approvato dalla Camera, tralasciando, per semplicità e per carità di patria, le versioni precedenti.

Le stranezze cominciano già con il titolo dell’atto nel suo insieme, misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità (sic!). I soggetti tutelati dal Ddl appaiono insomma coerenti e ben specificamente determinati: rimpiango però l’assenza dei biondi, degli arbëreshë, dei guariti dal Covid e degli asmatici (categoria quest’ultima a cui appartengo e, per la cui assenza, mi sento discriminato!).

L’articolo 1, dedicato alle definizioni, già si presenta tra le principali fonti di perplessità dell’intero testo. Vi si pretende, in effetti, di definire, sia pure (Deo agimus gratia!) solo “ai fini della presente legge” il “sesso”, l’“orientamento sessuale”, il “genere” e l’“identità di genere”. Se sull’“orientamento sessuale” già appare a dir poco discutibile volerne dare una definizione normativa, trattandosi di un concetto ben chiaro al senso comune e che può essere facilmente dato per presupposto (perché adagiarsi sulla pedanteria definitoria del legislatore di common law, estranea alla nostra tradizione e rispondente alle diverse esigenze ermeneutiche del giudice angloamericano?), è con il “genere” (“qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso”) e l’“identità di genere” (“l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”) che si raggiunge l’apoteosi dell’assurdo. In effetti, mi è noto che alcune scienze sociali, mediche e psicologiche propongano l’idea di un’accezione del concetto di “genere” distinta da quella di “sesso”, ipotizzandone definizioni più o meno vicine a quelle che emergono nel testo del Ddl e sviluppandone in maniera più o meno radicale alcune possibili implicazioni, eventualmente anche in vista di trattamenti sanitari. Non sono abbastanza addentro a queste scienze da poter determinare quanto, attualmente, in ciascuna di esse tale punto di vista possa considerarsi maggioritario. Ciò che mi preme sottolineare è l’insensatezza di voler generalizzare, tradurre e cristallizzare in un testo legislativo un orientamento di alcune scienze sociali e psicologiche, un po’ come se il legislatore volesse recepire e definire in un testo di legge la “libido”, il “complesso di Edipo”, il “transfert” o la “pulsione di morte”. Pretesa risibile, oltre ogni immaginazione, ma al tempo stesso pericolosamente autoritaria, confessionale e antiscientifica (si potrebbero tradurre le proposizioni definitorie del Ddl in qualche anatema nello stile del concilio di Trento: “se qualcuno nega la definizione legislativa del genere, sia anatema”… e in effetti, proseguendo con il testo, si vede che gli anatemi, provvisti di sanzione penale, arrivano per davvero!) e, in quanto tale, in possibile contrasto persino con la libera scienza di cui all’art. 33 della Costituzione.


Veniamo ora al cuore del DDL. I suoi articoli 2 e 3 vogliono modificare gli articoli 604-bis e 604-ter del codice penale, integrando il sesso, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere (come previamente definiti) e la disabilità nella configurazione delle fattispecie che danno già luogo ai reati di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa e all’aggravante delle finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni che hanno tali finalità. Le figure di reato delineate e l’aggravante meritano separata considerazione, pur manifestando alcune criticità comuni abbastanza palesi – che molti studiosi hanno infatti evidenziato – legate all’estrema indeterminatezza e ampiezza delle condotte considerate e dei soggetti protetti, come si è già osservato sopra tra loro disparati ed eterogenei fino all’inverosimile. Sia i reati, sia l’aggravante si espongono peraltro all’assurdo che, per valutarne la verosimiglianza, in presenza di situazioni in cui la ricostruzione dei fatti non fosse ovvia e autoevidente, il magistrato potrebbe doversi trovare ad accertare l’orientamento sessuale (con tanto di prove testimoniali, documentali, ecc., a carico e a discarico… e per chi testimoniasse qualcosa a cui il giudice non dovesse credere, si aprirebbe la strada di un processo per falsa testimonianza) tanto della vittima quanto dell’accusato, con il possibile paradossale risultato, oltre che di trasformare in farsa molti processi, addirittura di dissuadere dalla querela le vittime di reati.

Con riferimento al reato, che cosa può mai significare la repressione penale di chi commetta atti di discriminazione per motivi, per esempio, di sesso o di orientamento sessuale? Può, per esempio, sindacarsi chi un cittadino abbia o non abbia voluto invitare alla propria tavola (o consigliato a un amico di invitare alla sua) e perché? Qui, attenzione, sono in questione i comportamenti non di pubblici poteri, ma di privati cittadini, la cui, per esempio, misandria o misoginia, pure che non si traduca in altri reati, apparirebbe (ovviamente, ciò è limpidamente anticostituzionale!) poter essere oggetto di repressione penale. La formulazione sembra echeggiare, deformandolo grottescamente, l’articolo 3, comma primo, della Costituzione, che giustamente proibisce che una serie di distinzioni possano essere operate dalla legge nei confronti dei cittadini, e il Ddl ne trae la demenziale conclusione che neanche i cittadini (a prescindere da loro ruoli di rilievo pubblicistico, di esercizio di potere su un subordinato, di dovere di fornire beni o servizi a una generalità di avventori, ecc.) possano nella vita privata operare certe distinzioni tra gli altri cittadini, confondendo i ruoli del privato cittadino e dei pubblici poteri. I cittadini sono insomma obbligati a volersi bene, anche quando non vogliono! Per quanto ci si arrovelli, mi pare difficile immaginare un’interpretazione costituzionalmente compatibile delle distopiche ipotesi di reato concernenti la propaganda di idee, l’istigazione o la commissione di (fumosissimi) atti di discriminazione. L’istigazione al reato è peraltro una figura tanto amata dal legislatore di epoca fascista di quando fu redatto il Codice penale quanto giustamente malvista dai giuristi di epoca repubblicana, con articolati interventi della Corte costituzionale volti a limitare e circoscrivere: questo può far riflettere su quanto inopportuna possa essere l’idea di ampliare così a dismisura, a tutela di un così ampio numero di soggetti protetti, ipotesi di reati di istigazione. A ciò si aggiunge l’ulteriore figura di reato di chi commetta violenza (curiosamente equiparata, nel testo legislativo, ad atti di provocazione alla violenza… l’ennesima stranezza del testo che risulterebbe dall’intervento del legislatore: si vuole con ciò punire, severissimamente, alcune ingiurie, dopo aver appena depenalizzato le ingiurie in generale? Si vuole introdurre una nuova classificazione delle ingiurie, in cui provocare l’interlocutore ponendone in dubbio la virilità sarebbe punito con una pena draconiana, mentre affermandone la professione di meretricio della genitrice non costituirebbe neanche reato? Entrare nella prospettiva contorta degli estensori del Ddl è davvero un’impresa ardua…), o, di nuovo, istighi a commettere violenza per i già citati motivi. Ora, se atti violenti commessi per questi motivi devono senz’altro essere repressi, si pone la questione che approfondirò di seguito con riferimento all’aggravante: perché reprimerli in maniera specifica e differenziata, distinguendoli dalla generalità di atti violenti commessi per i motivi più disparati e raramente nobili?

Veniamo ora all’aggravante. Perché una serie così disparata di finalità debba dar luogo a circostanze aggravanti per una generalità di reati è ancora una volta difficile da comprendere, in primis proprio per il carattere eterogeneo di tali finalità. Commettere reati per queste finalità è abietto, ça va sans dire. Come abiette sono moltissime delle finalità per cui si commettono reati. Per assurdo, il legislatore di epoca fascista, nel redigere l’articolo 61 del Codice penale, dimostra più buon senso, trasparenza e spirito garantista rispetto a ciò che si vorrebbe far approvare al legislatore di oggi (beninteso, lo spirito autoritario dell’epoca ri-emerge nella nozione di delitto politico di cui all’art. 8), aggravante dai contorni talmente incerti da lasciare al magistrato in sede di applicazione una discrezionalità di un’ampiezza preoccupante.

Beninteso, alcune delle critiche fin qui esplicitate sembrano potersi allargare anche alla legge Mancino, che, in tema di odio razziale, ha introdotto il reato e l’aggravante che adesso si pretenderebbe di generalizzare a tutto e al contrario di tutto. La mia opinione in proposito è che la legge Mancino abbia effettivamente aperto un vulnus la cui ampiezza si sta oggi manifestando nella sua problematicità, ma che, nel momento in cui fu ideata, essa fosse giustificata da un contesto particolare in cui, tra espandersi improvviso dei fenomeni migratori e nascita di movimenti neofascisti particolarmente violenti contro gli stranieri (si ricordino i fatti di Base autonoma e Movimento politico occidentale), con concomitanti ritorni ad attacchi squadristi contro le comunità ebraiche, si fosse effettivamente di fronte a un improvviso deterioramento della condizione degli stranieri in Italia e degli ebrei italiani, sicché l’uso di uno strumento di extrema ratio come il diritto penale appariva giustificato (resta però a mio avviso opportuno che ci si torni periodicamente a interrogare sull’opportunità che tale uso permanga, perché è bene che norme di extrema ratio adottate per fronteggiare situazioni eccezionali non restino poi in vita a tempo indeterminato). Lo stesso non può dirsi per la condizione dell’omosessuale oggi, che, pur non rosea, è da decenni in progressivo miglioramento, con una crescente accettazione sociale del fenomeno. La condizione dell’omosessuale in Italia è oggi meglio di 20 anni fa, 20 anni fa meglio di 40 e 40 meglio di 60. Perché allora questa proposta adesso? Nella confusione del Ddl Zan, presentato come progressista, mi pare di intravedere il risorgere di attitudini retrive e premoderne, la scomposizione della figura ottocentesca del cittadino e di quella novecentesca del lavoratore in una congerie di status che ne dissolvono l’unitarietà, l’universalità e la solidarietà in una serie di statuti speciali, generosamente concessi dalla magnanimità del sovrano. Di qui l’idea fallace che possa per esempio trovare posto, nel nostro ordinamento, una sorta di diritto speciale dell’omosessuale, ridotto a soggetto debole (al pari del disabile!) e bisognoso di protezione e come tale contrapposto e isolato rispetto agli altri, in una sorta di risorgere degli stati di ancien régime che, con un tocco di ridicolo, fa dipendere l’appartenenza all’uno o all’altro stato da ciò che si fa in camera da letto, come se la società, artificiosamente purgata dal conflitto sociale che ne è invece il reale motore, ruotasse intorno a ciò. D’altronde, francamente, fatico a capire l’opposizione dei conservatori al Ddl Zan: dopo essersi battuti per un secolo per mantenere lo statuto sociale e giuridico del castrato/eunuco, gli autentici reazionari dovrebbero salutare con favore la proposta di oggi!

 
I redattori, evidentemente essi stessi coscienti di essere pericolosamente in fallo rispetto al dettato costituzionale, in un maldestro tentativo di coprirsi le spalle hanno curiosamente avvertito la necessità di esplicitare un articolo 4 che fa salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti. Insomma, nella sua bontà il legislatore octroie ai cittadini la facoltà di porre in atto condotte legittime… “purché non idonee a…”: dunque, alcune condotte “legittime” non sono neanche octroeyées dal sovrano caritatevole!

Si potrebbe andare avanti analizzando punto per punto il Ddl, ma quanto già detto basta e avanza per questa sede, divulgativa.
La questione mi sembra allora piuttosto chiedersi come mai siamo potuti arrivare a questo punto: perché un testo del genere possa essere redatto e sostenuto da parlamentari anche di esperienza, alimentando un serio dibattito, in Parlamento e nella società, e rischiando addirittura di essere approvato. Probabilmente una parte della risposta si ritrova nello scadimento, sovente osservato, del livello culturale e intellettuale del ceto politico, dei commentatori, dei giornalisti, e nella polarizzazione artificiosa del dibattito (tranne che sulle questioni di reale rilievo sociale ed economico, su cui maggioranza e opposizione formano oggi invece un blocco granitico). Ma è in gioco un qualcosa di più grave, per cui non ci si può consolare dicendo “un testo assurdo in più o uno in meno approvato non fa la differenza” o “tanto una legge così strampalata resterebbe lettera morta”: è infatti in gioco l’arbitrarietà del potere, l’idea che un qualunque ammasso di parole, qualunque congerie di amenità possa assurgere al rango di legge in spregio a ogni considerazione di logica, di buon senso, di costituzionalità, di efficacia, di coerenza, di sensatezza, solo perché i capipartito e i capiredazione lo strombazzano, in ossequio apparente ai principi della democrazia ma svuotandone la sostanza. È un re nudo di cui nessuno, nel dibattito corrente, si avvede. È un Caligola che nomina console il suo cavallo. Il delirio del legislatore, dando luogo a un diritto frammentario, disomogeneo, incomprensibile e inapplicabile, si traduce inevitabilmente poi in un interprete onnipotente e legibus solutus, favorito dalle picconate che questa proposta, come tanti testi normativi degli ultimi anni, affonderebbe contro il pensiero moderno e illuminista, come nell’intento di riportare l’essere umano a uno stato di minorità. Il problema, in definitiva, è che un legislatore come quello che ieri ha approvato serenamente l’“omicidio stradale” e che oggi discute in tutta serietà un obbrobrio come il Ddl Zan è un legislatore disattento, pressappochista e autoreferenziale che domani, in assenza della dovuta vigilanza dei cittadini, potrebbe approvare con altrettanta nonchalance i forni crematori senza neanche avvedersene.

Un’ultima osservazione. I problemi di integrazione delle persone omosessuali nel tessuto sociale esistono tuttora e questo non va negato, né sminuito. Tanto più fuori dalle grandi città, è tutt’altro che raro che la scoperta o la dichiarazione di omosessualità sia all’origine di tristi situazioni di isolamento, rispetto alla famiglia o al gruppo di amici, e persino di rotture violente di tali legami. Ma, al difuori di situazioni in cui ciò sfoci nella commissione di reati, da perseguire, non mi sembra questo un problema che il legislatore, tantopiù penale, possa e debba direttamente risolvere; è anzi un altro sintomo del disorientamento del nostro tempo illudersi che i pubblici poteri possano, con una bacchetta magica, risolvere qualsiasi problema esistente nella società che esprime gli stessi. È in atto un processo di crescente accettazione dell’omosessualità e penso e spero che esso continuerà nei prossimi anni e decenni; in favore di questo processo è bene che le persone e le organizzazioni sinceramente progressiste continuino a spendersi nella società. C’è però un altro aspetto, su cui i pubblici poteri potrebbero e dovrebbero agire, ma non agiscono: e questa mi sembra l’unica vera questione politica, schivata e quasi sempre silenziata nel dibattito pubblico. Chi organizza sistematicamente raid squadristi contro altre persone a cagione del loro orientamento sessuale non è un qualsiasi “comune” cittadino, bensì quasi sempre, come emerge dalle poche indagini che vanno a fondo, un membro della rete militante di uno di quei due o tre gruppuscoli neofascisti ben noti ai mezzi d’informazione, alle autorità inquirenti e alle forze dell’ordine. Quando facevo politica attiva, avrei saputo dire metà dei nomi e cognomi di chi, nella mia città, si fregiava di queste imprese edificanti. Perché, salvo poche eccezioni, le indagini su queste vere e proprie bande armate non sono considerate prioritarie da molte procure della Repubblica, né la loro repressione dal Ministero degli Interni (anche procedendo al loro proscioglimento, come avvenne per esempio per Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale)? Non so se sia più una questione di dossier scottanti risalenti al periodo della strategia della tensione, di simpatie sospette di alcuni elementi ai vertici di organi dello Stato o se semplicemente questo gioco delle parti convenga in fin dei conti a tutti, ivi compresi i sedicenti progressisti del nostro tempo, per mantenere e consolidare senza troppi sforzi la propria area di consenso politico. Resta il fatto che, invece che prendersi gioco degli interessi delle persone omosessuali, le formazioni di maggioranza sostenitrici del Ddl Zan potrebbero ben più seriamente attivarsi affinché l’apparato istituzionale dello Stato prevenga e reprima sistematicamente i noti gruppi neofascisti avvezzi alla pratica di aggressioni e raid omofobi, con i tanti strumenti che la legislazione vigente mette già a disposizione, piuttosto che praticare la strada assai meno seria di lasciar disapplicare le norme in vigore e cercare di puntellarle con norme speciali, millenaristicamente presunte salvifiche, dalla discutibile compatibilità costituzionale.

Sirio Zolea

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