di Marika Martina
Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?
Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini.
A ciascun giorno basta la sua pena.Matteo 6,25-34
E se la strada fosse il modo per distrarci dagli agguati delle minacciose domande sul domani?
Socrate, accusato e incarcerato dagli ateniesi, scelse la morte al posto dell’esilio e nella sua Apologia afferma di non poter fare nulla di diverso dall’essere se stesso nemmeno morendo e rinascendo mille volte, nemmeno se cambiare fosse l’unica possibilità di avere salva la vita.
Frivolezze e pragamtismo portano l’uomo ad abbandonare la condizione di amore per la vita che è, senza disperazione di accettare il baratro, totale mistero e incognita costante.
Socrate sapeva che l’uomo non è spirito e corpo ma un’unica natura che lo rende nella sua piccolezza talmente fragile da portarlo a darsi completamente alla ragione per trovare regole e calcoli rassicuranti nella conoscenza della vita. Con Aristotele, però, inzia il mondo della logica, l’era della ragione sopra ogni cosa, del poter rispondere con certezza ad ogni domanda: l’uomo non sopportando l’enorme fardello dell’amore per la vita, che poggia le sue fondamenta sul qui ed ora dell’essere, per assicurarsi la proiezione nel futuro della propria esistenza cade nella paura della morte, ormai dimentico che ha
“il vero coraggio della morte chi porta il peso della vita finchè questa lo schiacci sicchè la sua morte sia un atto vitale” (G. Chiavacci, Dialogo della salute).
Era il 1910 quando un promettente studente giuliano iscritto alla facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze conclude la sua tesi di laurea scrivendola più come un grido disperato agli uomini che ricerca speculativa sulla filosofia socratica. Si chiamava Carlo Michelstaedter e all’età di 23 anni ci regala La persuasione e la rettorica affermando che quanto scrive nella sua tesi
“è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole.”
Coloro che hanno indagato il mistero dell’esistenza umana nell’antica Grecia parlano, agli albori del XX secolo, attraverso la bocca di un ragazzo dal vivido intelletto, animato dall’amore per l’umanità ma gravato dal dono fatale di comprendere la natura umana e il suo procedere nella storia.
La vita, l’esperienza filosofica, gli studi letterari e la morale di Michelstaedter si collocano nel tempo inquieto d’inizio secolo, quando si fa sempre più palese la crisi della ragione dialettica e delle certezze indiscutibili della mentalità europeo-borghese. La cultura a cavallo tra i due secoli avverte le prime avvisaglie di un mondo che sta per scontrarsi con i risultati della tracotanza dell’uomo ottocentesco che pretende di avere il mondo nelle sue mani controllando non solo lo spazio e chi ci vive ma lo stesso tempo: la vita si ribella e rompe le gabbie della classificazione e del linguaggio della tecnica irrompendo in tutta la sua terribile potenza, investendo gli uomini degli orrori più atroci quasi a voler dire “hai osato ergerti a divinità dei tuoi stessi simili ed ora pagherai con l’esperienza della tragedia.”
Come ben sappiamo, il XX secolo è costellato di tragedie ma in particolar modo è importante sottolineare come la guerra di conquista, quella per imporre un nuovo dominio, diventa con la Seconda Guerra Mondiale guerra di annientamento: il nemico non va più solo battuto e sottomesso, bensì va cancellato dalla faccia della terra, obliato per sempre fino all’ultima madre feconda (echi di questa etica di morte continuano oggi più che mai nella guerra di annientamento in Palestina). Non per nulla J. R. R. Tolkien scrive Il Signore degli Anelli nel 1954, all’interno del quale Sauron non è solo cattivo ma è l’incarnazione stessa del Male e in quanto tale non si limita a voler conquistare il mondo intero ma pretende l’eliminazione di tutte le creature che lo popolano servendosi di un esercito di orchi plasmati dal fango e non generati da una madre. Sempre non a caso, parlando di Tolkien non è possibile non parlare di Cristianesimo: di Gesù si predica nel Credo che è “Generato non creato” in quanto la creazione presuppone la superiorità del creatore sull’oggetto della sua volontà; mentre la generazione è un atto relazionale che esclude la possibilità di dare alla luce singolarmente: per generare, infatti, bisogna essere in due.
Tornando agli scempi del Novecento e alla vita di Michelstaedter, si può comprendere come un ragazzo fuori dal comune che non si adagia pigramente sulle certezze da tempo tramandate, pur vivendo in un tempo ancora al sicuro da ciò che sarebbe accaduto a cascata dal 1914 in poi, fiuti con grande onestà intellettuale la necessità di arrivare ad una propria etica, annullando le mistificazioni e gli idoli eretti dagli uomini per rassicurarsi.
Così Michelstaedter cerca di scavare l’umano fino a giungere alla civiltà della Grecia antica, più precisamente al IV secolo a.C., quando Socrate ad Atene andava predicando di sapere di non sapere e per questo venne indicato dalla Pizia, sacerdotessa dell’oracolo di Delfi, come l’uomo più sapiente della Terra: Socrate infatti ammettendo di essere impotente nei confronti dei misteri della vita, di non possedere la capacità di controllare il futuro, perciò di essere ignorante, è il vero sapiente. Coloro, invece, che si ritenevano sapienti, sottoposti all’arte della maieutica (metodo socratico per portare il soggetto a trovare la verità all’interno di se stessi) smarrivano le proprie sicurezze, apparendo per presuntuosi quali erano. I concittadini di Socrate, dovevano essere apparsi a Michelstaedter molto simili ai suoi nell’attorniarsi di principi e certezze che cominciavano a scricchiolare:
“Gli ideali ottimistici che avevano caratterizzato l’Ottocento dalla coscienza laico-progressista sono insufficienti a fronteggiare i molteplici problemi posti dalla realtà contemporanea” (P. Pieri, La differenza ebraica).
Perdita delle certezze e impotenza nei confronti del futuro rendono a poco a poco l’uomo ottocentesco non più credibile nemmeno ai suoi stessi occhi, facendo riflettere Michelstaedter sull’idea di coscienza individuale, perchè se l’etica nasce da un patto sociale, è facile che possa non radicarsi nell’individuo in quanto avvertita come imposizione da fuori a dentro di sè; se invece l’etica viene da dentro l’essere umano non potrà mai andare contro al rispetto per la vita senza sottoporsi alle convenzioni sociali. Scrive così alla sorella Paula il 9 dicembre 1906:
“[…] ci troviamo appunto in un’epoca di transizione della società quando tutti i legami sembrano sciogliersi, e l’ingranaggio degli interessi si disperde, e le vie dell’esistenza non sono più nettamente tracciate in ogni ambiente verso un punto culminante, ma tutte si confondono, e scompaiono, e sta all’iniziativa individuale crearsi fra il chaos universale la via luminosa.”
È questo che Michelstaedter urla facendosi aiutare da Socrate, cercando di dare agli uomini la possibilità di vivere di un’etica fondata sulla pura legge morale e non su un patto sociale derivante dalla coscienza razionale che, proprio per la sua natura esclusivamente pragmatica, è fallibile e non autentico, basato sull’uomo della ragione e non sulla complessa e inscindibile natura umana fatta di corpo spiritualizzato.
Sulla stessa scia, anche Italo Svevo preannuncia la catastrofe di metà secolo e non si può non riportare le righe finali del suo romanzo più famoso, La coscienza di Zeno, che contengono la realtà di una società sempre più lontana dalla natura e tesa verso la cancellazione di ogni peculiarità umana definita impropriamente errore per giungere probabilmente alla sconfitta delle malattie e della morte. Ma proprio in questo tentativo, l’uomo si perde e non fa nient’altro che annientare la sua stessa specie.
“Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. […] Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”
Non so se la storia sia una linea tesa verso l’ignoto futuro oppure un ciclo infinito di eventi sempre diversi ma con trame già viste e già sentite, non so se l’essere umano pur dicendo “la storia insegna che…” sarà prima o poi davvero in grado di interiorizzare gli insegnamenti di cui si fa vanto. Non so davvero se l’uomo potrà, come sembra, mutare diametralmente quelli che sono i valori della vita con una cultura di possesso e di morte.
Certamente so che vivere in un’etica totalmente scissa dalla pura morale che abita in ciascuno di noi, quella vera e perciò consapevole di ciò che è bene e ciò che è male, sta portando l’uomo ad avvelenarsi l’anima e a convincersi di amare così tanto la vita da avere terrore della morte, a non riuscire più a vivere il giorno perchè ossessionato dal domani (carpe diem quam minimum credula postero Orazio).
Quindi godiamo dell’oggi, non scioccamente per scioglierci dalle responsabilità nei nostri confronti e in quelli degli altri, non per usare il prossimo e darci alla cieca agli sterili piaceri della carne, non per provare fugaci emozioni che poi sfioriscono appena sorge il sole del domani, ma respirando e assaporando il mondo che è fatto per noi, per sentire la luce invaderci, per concimare il nostro spirito di letizia (dal latino letamen).
Perché diversamente dalla gioia che passa e lascia solo una risata, la letizia penetra nelle profondità dello spirito per lasciarci lieti di ciò che siamo.
Immagine di copertina: Carlo Michelstaedter, Autoritratto.