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Se oggi il mondo si rivolta, in realtà è il cielo che si rivolta, vale a dire il cielo che viene trattenuto nelle anime degli uomini e che perciò non può manifestarsi nella sua forma, e si manifesta allora nel suo contrario, nella lotta e nel sangue anziché in immaginazioni. Non c’è dunque da meravigliarsi se quegli nomini che prendono parte a quest’opera di distruzione dell’ordine sociale abbiano l’impressione di fare qualcosa di buono. Infatti, cosa sentono dentro di loro? Sentono il cielo dentro di loro, solo che esso assume una forma caricaturale nelle loro anime. 

Rudolf Steiner 

Vent’anni dopo

In un momento di rimemorazione e rievocazione di un fenomeno solo per certi versi concluso – o quanto meno ancora presente vuoi nei suoi effetti consolidati, vuoi nelle sue eredità più devianti – è di grande interesse per il ricercatore spregiudicato affrontare il tema del ‘68 e della rivolta giovanile ad esso indissolubilmente legata, non più da un’ottica partigiana – quale che sia il punto di vista del soggetto – ma da una prospettiva dichiaratamente storico-spirituale. Ciò, anzitutto, in quanto, concordando con chi ebbe ad asserire che chi non è in grado di ri-memorare e comprendere a fondo il passato è condannato a riviverlo, sono decisamente incline a ritenere che la nostra attuale società non sarà in grado di voltare realmente pagina nella sua storia più recente, se non correggerà, con pensieri giusti e adeguati alla gravità del momento, gli errori ed i vuoti di pensiero che non mancarono, pur affiancati da generosi e tonici empiti di rinnovamento, in quella primavera di vent’anni fa.

Mi riprometto, in altri termini, di analizzare da un punto di vista scientifico-spirituale la validità ed adeguatezza degli approcci che oggi vengono utilizzati nei confronti del ‘68, sulla scorta soprattutto delle indicazioni di chi, come allora Massimo Scaligero, ripetutamente levò la propria voce ad indicare la direzione che avrebbe inevitabilmente preso il Movimento studentesco se non fossero state prese adeguate misure atte a comprendere in profondità il senso ed il fine di certi impulsi innovativi ma anche distruttivi.

Tutti i temi frequentati negli interminabili ed estenuanti dibattiti delle nostre sere e notti di vent’anni fa erano da Massimo Scaligero contemplati nella loro struttura ideale, né a lui sfuggivano le cause remote e le motivazioni profonde che avevano portato sulle piazze un’intera generazione di giovani. Né, d’altra parte, poteva esimersi dal mettere in guardia chi avesse orecchi pet intendere, dalla estrema pericolosità di certi assunti, non basati su di una reale ed approfondita conoscenza di se stessi e del mondo, bensl scaturenti direttamente dal più grande equivoco della nostra epoca: quello del materialismo, che induce a scambiare le idee per fatti ed allo stesso tempo, a negare concretezza al pensiero che di tali idee è sorgente e causa prima. In “Hegel, Marcuse, Mao”, per esempio, egli aveva già indicato l’inevitabilità dell’imperialismo cinese; “se si assume il fatto economico come struttura basale della società, non si può non parlare di imperialismo”.

Assumendo, dunque, il modo di essere dell’uomo a una dimensione. Con ciò veniva chiaramente indicata l’ineluttabilità del futuro dilagare deI materialismo storico nel terzo mondo, fatto che si è verificato puntualmente. Responsabilità, questa, da attribuire tutta all’Occidente, che ha esercitato sui Paesi cosiddetti sottosviluppati il colonialismo dialettico, quando non direttamente quello economico e politico. Apprendemmo allora dagli scritti e dalla vivente parola di Massimo Scaligero che sarebbe stato possibile riguardare il non ancora nato – ma già potenzialmente presente – terrorismo, come risultato della riduzione dell’essere umano ad uomo ad una dimensione, ad una dimensione in quanto privo della vita delle idee e alienato dalle forze cui quotidianamente attinge. Per questo motivo il potenziale rivoluzionario identificava, allora come oggi, tale alienazione in una alienazione squisitamente sensibile, non avvedendosi che l’evento economico e sociale non è causa ma effetto dell’alienazione stessa. In questa colossale svista incorse soprattutto quell’élite che si prefiggeva di risvegliare, di ‘sensibilizzare’ i molti: l’élite intellettuale, postasi dichiaratamente al servizio delle ‘masse’.

Ma dov’erano le ‘masse’? Nella irreale dialettica di quei giorni esse apparivano non come erano, vale a dire una somma di singole individualità, di io, bensì nel crepuscolare sembiante di un improbabile io di gruppo. Si almanaccava instancabilmente di un pensiero, asservito all’edificazione socialista, che avrebbe – per definizione – dovuto essere perfettamente ed esaustivamente comprensibile alle masse, nello stesso modo per tutti; non era questa forse una inconscia e perversa riesumazione dell’universale aristotelico-tomistico? Prendendo le mosse dal Marcuse di “Eros e civiltà” e “L’uomo a una dimensione”, dove la società dei consumi veniva descritta a tinte fosche, il male identificato nello strapotere della società ‘integralmente amministrata’, nella massificazione e nell’istupidimento indotto dai mass-media, gli intellettuali, non avvedendosi dell’intima contraddizione di una critica alla massificazione che auspicava un’altra massificazione ancora più inquietante, smarrivano l’unico possibile contatto con le masse, fatto gravido di drammatiche conseguenze negli anni successivi. Dopo i fatti di Valle Giulia a Roma – siamo al 1° marzo 1968 – il Movimento studentesco italiano, appellandosi ad una sorta di legittima autodifesa dagli eccessi delle forze dell’ordine, fa il ‘salto’ dalla contestazione alla violenza, accogliendo il principio che la ‘legalità borghese’ può e deve venir violata e che è lecito, per scopi rivoluzionari, danneggiare o distruggere manufatti, espressione della ‘logica di dominio dell’imperialismo’. Non veniva così compreso che il sistema che si combatteva era il risultato di una visione del mondo e non poteva essere in alcun modo identificabile, esauribile, negli edifici, nei manufatti, nelle persone in cui, volta per volta, veniva identificato.

Il pensiero che è alla base della odiata società borghese viene di fatto reso palpabile, il contestatore o il guerrigliero lo possono incontrare per strada e, distruggendolo, avallare la convinzione di avere il diritto di distruggere ciò che si rifiuta. Non si era ancora giunti alla violenza sulle persone, agli ‘anni di piombo’, ma le distanze incominciavano ad accorciarsi; in effetti, l’errore di credere che l’azione concreta possa corrispondere al pensiero astratto, ha informato di sé attività e teorizzazioni dei vari gruppi che, poi, negli anni ‘70, confluiranno nella lotta armata. Nelle interminabili disquisizioni, ricche di sottigliezze metafisico-politiche, che stavano irreversibilmente facendo scivolare l’émpito innovativo e corale della contestazione nel crudo e delirante isolamento del terrorismo, si verificava invariabilmente che quello stesso pensiero, che da una parte veniva utilizzato per l’indagine e le considerazioni socio-politiche alla base della contestazione, fosse poi inesorabilmente sacrificato sull’altare del realismo primitivo marxiano, in conformità del quale veniva negata al pensiero concretezza di sorta, essendo – in ultima analisi – solo la cosa fisica a stabilire il senso ultimo del pensiero stesso. Massimo Scaligero, quando ancora il terrorismo non era lontanamente prevedibile, aveva profeticamente annunciato che la rivolta di quei giorni, essendo basata sulla dipendenza, non avrebbe potuto far altro se non rendere necessarie altre rivoluzioni. Dipendenza dall’idea già costituita, già pensata; non movente liberamente dalla forza originaria dell’idea.

Dipendenza interiore che facilmente oppone al mito borghese-consumista quello della ribellione, poi dell’autonomia, poi della lotta armata ed infine, con la medesima facilità, quello del pentitismo o della teorizzazione del fallimento della lotta armata e dell’inevitabilità della pacificazione e del perdono della società. Ma non ci si avvede che è sempre la stessa dipendenza di chi non si accorge di subire un pensiero che conosce solo come pensato, come schema, ignorandone il momento creativo, originario?

A questo punto sembra significativo poter individuare in gran parte delle motivazioni che hanno spinto alla dissociazione alcuni tra i rappresentanti della lotta armata dell’ultimo settennio, la stessa dinamica concettuale che portò quegli stessi giovani al terrorismo. Si tratta, in altri termini, sempre della stessa inclinazione a far coincidere il reale con un processo dialettico di cui ci si ostina a negare l’origine metafisica. È semplice così dissociarsi dalla lotta armata – non prendiamo in esame il pentitismo che sovente si configura come puro e semplice tradimento dei compagni di allora – senza sentirsi in dovere di esaminare interiormente le basi profondamente errate sulle quali costruì il suo edificio dialettico, bensì ricavando semplicemente dal suo fallimento reale, dalla sua acclamata distanza dalle masse, il motivo – quasi metastorico – della sua inadeguatezza. Il dissociato, in altre parole, non rifiuta la lotta armata in quanto immorale o perché fondata su basi ideologicamente errate, ma rifacendosi alla sempre riproposta visione marxiana della storia, evidenziando la sua improponibilità in una determinata fase dello sviluppo sociale. Il che equivale a riproporre lo stesso nominalismo che in realtà è stato il terreno di coltura del terrorismo; quel nominalismo che indica come dialettica della materia l’intuire umano ormai dimentico della propria origine metafisica. Mai essendo stati i fatti a determinare la storia, bensì le idee a muovere i fatti, il rifiuto della lotta armata rischia di articolarsi nelle stesse emblematiche modalità del rifiuto della società post-industriale. Così la riflessione su questi vent’anni di storia non può prescindere da quei pensieri limpidi ed inesorabili che Massimo Scaligero offriva, ancor prima che i fatti si realizzassero, come strumenti di comprensione del presente e del futuro. Allo stesso modo vanno intesi personaggi che hanno fornito il loro appoggio all’eversione dall’alto delle cattedre universitarie, ed oggi si appellano alla clemenza di quella società la cui stessa esistenza essi hanno rigettato, sulla base di considerazioni metastoriche che pur oggi non mettono radicalmente in questione. Massimo Scaligero, già prima del ‘68, metteva in guardia dai ‘professori d’assalto’. 

Scriveva, in “Hegel, Marcuse, Mao”:

“Nell’epoca della dialettica avulsa dall’idea, l’uomo meno evoluto può diventare docente di filosofia, esprimere dialetticamente il suo dato di fatto, la sua personale limitatezza ed eccitare filosoficamente i semplici”.

Né oggi è possibile una sincera autocritica del filosofo terrorista, se non sulla base di un completo capovolgimento della visione marxiana del mondo. Così scrive ancora Scaligero nella stessa opera, rivolgendosi a coloro che accolgono una simile concezione del mondo:

“Guardino le premesse implicite alle dottrine: non v’è posto per la moralità, in quanto l’uomo è veduto come entità fisica obbediente a leggi di natura e tutta la sua storia e persino la sua volontà sono un prodotto della natura”.

Ecco allora che, sulla scorta di queste considerazioni, è forse lecito tentare di gettar luce su un dilemma ampliamente dibattuto da gran parte della stampa e della pubblica opinione odierne: l’Autonomia prima ed il terrorismo poi, sono filiazioni dirette ed inevitabili del Movimento? In altre parole, l’ansia libertaria ed antiautoritaria di quella primavera doveva necessariamente partorire il mostruoso cinismo degli anni di piombo? O, piuttosto, proprio la mancata realizzazione di quei conseguimenti conoscitivi che dovevano sottendere la realizzazione di riforme esteriori di cui la migliore gioventù di allora era assetata, ha contribuito a disanimare il movimento, gettandolo nelle braccia dell’ideologia maoista e leninista? Ai giovani alla disperata ricerca di un senso individuale e sociale della esistenza è stato improvvisamente spezzato lo slancio; l’ossessione del riformismo, di venir ‘recuperati’ ed ‘integrati’ nel potere, nell’establishment, era dunque del tutto fondata. Ciò perché ci si accontentò allora del surrogato ideologico rivoluzionario, che, inevitabilmente, fa dell’avversione il mezzo di coesione, portando necessariamente questa al minimo comune denominatore, all’animalità.

Così, invece di esercitare una più rivoluzionaria critica nei confronti non solo del sistema, ma anche di se stesso – nel senso di una rivoluzione interiore – il Movimento finì coll’essere esclusivamente distruttivo, venendogli a mancare la parte propositiva; non avendo proposte nuove, finì con lo scimmiottare quelle vecchie, rientrando, così, di fatto, in quel gioco delle parti il rifiuto del quale aveva costituito la sua più originale spinta innovativa. Paradossalmente, infatti, proprio la carenza di un radicale pensiero ‘rivoluzionario’ è stato ciò che ha depotenziato le chances che il Movimento pur possedeva, riducendone l’esplorazione conoscitiva ad una sterile dialettica, che già agitava i fantasmi di futuri terrorismi. L’inquietante silenzio conoscitivo che improvvisamente prende il posto della assordante e rombante dialettica delle assemblee studentesche, anticipa e prepara le condizioni del nascere della lotta armata. Il male non fu certo il Movimento; esso non fu causa, bensì conseguenza di quella condizione dell’animo che avrebbe dovuto condurre a conseguimenti animici e conoscitivi più radicali. Mancati questi, il movimento giovanile non fu in grado di sottrarsi a quella legge spirituale secondo la quale tutte le esperienze animiche – tra le quali vanno comprese quelle prenatali – se non vengono accolte coscientemente, non possono non trasformarsi in forze distruttive. Il fanatismo deluso – nota Scaligero nel suo saggio “L’uomo al bivio: civiltà o barbarie” – col procedere dell’età, rivela facilmente la sostanza del suo cinismo senza scrupoli. In effetti, personalità generose ed entusiaste, incapaci di ammettere il fallimento ideale del Movimento, hanno preferito entrare nella clandestinità, con tutto ciò che ha comportato quella scelta per loro e per un intero popolo. Così i giovani, nati a cavallo tra gli anni ‘40 e ‘50, che avevano vissuto nei Mondi Spirituali gli eventi connessi con le prime manifestazioni del Cristo Eterico, non potevano non portare nella presente incarnazione quella profonda esigenza di cambiamento sociale che in effetti portarono. Traspariva, infatti, da ogni richiesta dei giovani del Movimento studentesco, la radicata convinzione – anche se sovente confusa e male espressa – che fosse necessario ricercare metodi di rinnovamento sociale molto più profondi ed al tempo stesso elementari, di come fosse mai stato fatto.

Basti pensare, a tal proposito, alla primavera di Praga, la quale, ricercando un socialismo dal volto umano, si era avvicinata, per certi versi, ad alcune intuizioni della Tripartizione dell’Organismo Sociale di Rudolf Steiner. E se a Oriente furono i carri dell’armata rossa a spazzar via le speranze di quella generazione di giovani che identificarono in Jan Palach il tragico simbolo della propria disperazione, in Occidente la spinta interiore della contestazione fu svuotata e tradita da coloro che ne impedirono l’esperienza autocosciente, imprígionando le loro forze nei rigidi schemi materialisti e socio-psicologici. Come in svariate occasioni aveva fatto notare Rudolf Steiner, se l’uomo, con la sua attività spirituale non si risveglia allo Spirito, questo stesso si trasforma in lui in caotica volontà distruttiva. Allora lo Spirito, condotto su una via errata, assumente forme ahrimaniche, si muta nel suo contrario, nell’inclinazione a violenza e terrore. La lucida e gelida intelligenza che si mette al servizio di tale impulso distruttivo non agisce nell’inconscio; infatti, tanto meno l’anima prende coscienza della realtà animico-spirituale in cui è immersa, tanto più cresce la spinta al crimine.

L’inganno ahrimanico sulla natura dell’anima la consegna nelle mani dell’Ostacolatore, che intende dominare l’uomo offuscandone l’animo mediante il fanatismo, fino a giungere alla possessione vera e propria. Questo fanatismo uccide ogni ragionevolezza e ogni relazione dell’individuo con il mondo circostante. Se, da un lato, lo spirito deviato assume forme ahrimaniche nel terrorismo, prende sfumature luciferiche in quei gruppi giovanili che si rifugiano – delusi dal ‘68 e dai mancati conseguimenti interiori che pur inconsciamente si attendevano – nella droga o nel misticismo orientaleggiante. Si tratta del cosiddetto “riflusso”, che fa da pendant al fenomeno nascente del terrorismo; sono due volti di uno stesso insuccesso. D’altra parte, probabilmente, il riflusso ed il ritorno all’individuo ha rappresentato anche il segnale della irrisolvibilità di determinati problemi da parte di interi gruppi, dunque il fallimento della via politica tout court. L’insuccesso della operazione politica ha indicato la via individuale, sia essa quella della lotta armata o quella del rifugio nel privato dei paradisi artificiali o delle vie mistiche orientaleggianti. Non è comunque possibile comprendere appieno il senso degli avvenimenti degli anni di piombo senza elevarci ad una interpretazione più vasta della storia, che tenga presente anche quelle forze e realtà che dal piano spirituale inferiscono sul piano fisico.

Per afferrare conoscitivamente il senso degli eventi di questi ultimi, dolorosi anni, è indispensabile intendere il senso della responsabilità di tutto un popolo nei confronti degli avvenimenti del terrorismo. È essenziale accostarsi al senso occulto del sacrificio sia delle vittime che dei protagonisti del terrorismo, in un contesto metastorico che pur non è facile “digerire”, adusi come siamo a giudicare partendo sempre – più o meno coscientemente – da una visione di parte. Il senso dell’assumersi ogni responsabilità di tutto quanto commesso dalle Brigate Rosse da parte di alcuni terroristi, peraltro non coinvolti personalmente in fatti di sangue, mi sembra indicativo di una coerenza e lealtà che dovrebbero farci riflettere, spingendoci a formulare interiormente la domanda:

“sono pronto anch’io, qui ed ora, ad assumermi la responsabilità per quanto viene commesso nell’ambito del mio popolo, della mia città, io che pur conosco la legge secondo la quale noi tutti collaboriamo fattivamente, con pensieri, parole ed opere, al livello spirituale e morale del nostro Paese?”.

Non sarà possibile dare un senso reale al dolore dei parenti delle vittime, né a quello degli stessi terroristi, alcuni dei quali hanno pagato con la vita o con il carcere a vita i propri errori, se non saremo in grado di sperimentare – non solo di accogliere conoscitivamente – il senso del sacrificio di vittima e carnefice che sollevano un popolo da sventure più gravi e su più vasta scala. A fianco della legge del karma, pur determinante nel manifestarsi di certe connessioni, il senso della corresponsabilità di tutti si coglie solo sollevandoci su un livello più impersonale e permeato di amore. Il pensiero e la parola di Massimo Scaligero erano stati determinanti, vent’anni fa, a comprendere questo difficile concetto della comune responsabilità nei confronti di quel sistema politico e sociale che si intendeva abbattere. È stato un seme – questo della corresponsabilità di ciascuno – non facile da coltivare, da proteggere, in particolare negli anni bui ed inquietanti della lotta armata, dal rischio costante della riduzione di tutto a politica, a meri rapporti socio-economici. Ed oggi, di fronte alla possibilità che la invocata pacificazione si configuri in un perdono di Stato, senza che vi sia stata una reale comprensione del fenomeno del terrorismo da parte di vittime e protagonisti, vien fatto di pensare che essa non altro sarebbe se non un riassorbimento del terrorismo stesso nella ‘politica’, nel panteismo politico che tanto radicalmente informa di sé tutta la nostra esistenza sociale. E questa sarebbe oggi la sconfitta peggiore; un tale sviluppo potrebbe consegnare definitivamente gli eventi di quella primavera di vent’anni fa a quella categoria di esperienze dolorose che – non comprese – si è inevitabilmente condannati a ripercorrere.

Piero Cammerinesi

Da: Graal, Roma 1988

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