In questi giorni è impossibile evitare di imbattersi nella vicenda dell’esclusione dal Concerto al Circo Massimo da parte dell’amministrazione Gualtieri del trapper Tony Effe.
Si è scomodato Mozart come “compagno in musica” del trapper.
Si è richiamata l’idea di “censura delle idee”.
Si sono levati alti lai sulla “libertà dell’arte”, sul ruolo delle “provocazioni che fanno pensare”, sulla funzione di “opposizione” della produzione artistica.
Ecco, lo so che a Natale si suppone siamo tutti più buoni, però anche basta.
1) Primo problema: perché un’amministrazione pubblica deve spendere soldi pubblici (gli stessi soldi di cui c’è maledetto bisogno in settori chiave e salvavita) per produrre “eventi” in cui viene invitata della mediocrità nazionalpopolare, pompata dalle case discografiche, roba che sta già benissimo “sul mercato” senza supporti pubblici? Perché il pubblico deve mettersi a finanziare quel tipo di “arte” che è nata e prodotta già al massimo ribasso di gusto per poter venire incontro alle famose “esigenze di mercato”? Perché dobbiamo cacciare soldi con cui si potrebbe offrire un miglioramento al pronto soccorso per fare da cassa di risonanza ai vittimismi di Elodie e alle messe in scena del nulla di Tony Effe?
2) Secondo problema: ma davvero stiamo qui a parlare di censura per roba che invade ogni anfratto delle frequenze radio? Sarebbe censura non essere invitati a pagamento con soldi pubblici a prodursi nei propri borborigmi a Capodanno? E questo in una fase storica in cui viene costantemente messa la museruola a report giornalistici, articoli di denuncia internazionale, critiche politiche, resoconti filmati di atrocità belliche, articoli scientifici che vanno contropelo alle grandi case farmaceutiche, ecc. ecc.?
3) Terzo e principale problema: ma francamente, cosa c’entra qui l’arte? Cosa c’entra la “provocazione”, il “far pensare”, la “funzione d’opposizione”? Quanto si deve essere ciechi, o ipocriti, per non vedere che tutta questa produzione “artistica” fatta di scandaletti artefatti, starlette sculettanti, autotune anche per ordinare la pizza, testi e musica prodotti da computer a manovella, è semplicemente INTRATTENIMENTO DI REGIME?
Quanto bisogna essere miopi per non vedere che la riduzione del messaggio culturale al minimo grado di complessità è una funzione di ottundimento pubblico, orchestrata da operatori fuori scena?
La trap è in questo senso semplicemente l’ultimo prodotto di un processo degenerativo quarantennale. I testi della trap hanno un unico fondamentale contenuto, espresso in variazioni sul tema, e cioè la riconferma della plebe in un orizzonte senza speranza né sbocchi, un orizzonte di totale insuperabile mercificazione di ogni cosa. E’ un’ode alla schiavitù, dove anche le vittorie sono vittorie tra schiavi su altri schiavi, una schiavitù che si accetta come tale, per sempre, e consolida un gusto da schiavi.
Qualcuno ricorderà le considerazioni di Brecht sull’arte. Tra le altre cose Brecht si preoccupava, forse anche eccessivamente, del fatto che l’arte potesse ridursi ad una funzione di rispecchiamento giustificativo: “Ecco, sì, sono proprio io, il mondo è proprio così.” Questa funzione rappresentativa produce semplicemente un’accettazione dello status quo che viene presentato in forma pubblica e con ciò consolidato come reale. Nell’arte ci possono essere molte funzioni, ma quando l’arte si riduce alla riconferma in forma sublimata dello status quo, essa diviene arte “culinaria”, funzione commerciale che ribadisce e santifica la mediocrità.
Il processo di riduzione radicale dell’arte a questa funzione culinaria ha preso il via negli anni ’80 del XX secolo, quando un’intera generazione di intellettuali progressisti ha ritenuto che Gramsci avesse fatto il suo tempo e che fosse il momento di rimpiazzarlo con “Colpo Grosso” (che, va detto, aveva le sue virtù).
La ratio di questa svolta era che bisognava svecchiare la produzione culturale, che bisognava smettere di cercare paternalisticamente di “educare il popolo”, e che dopo tutto il mercato era un modo di rispondere ai gusti e alle esigenze popolari.
Ciascuno di questi argomenti poteva avere la sua dignità, ma come sempre accade, al di sotto degli argomenti apparenti era in funzione un meccanismo più profondo, in questo caso caratteristico dell’impianto neoliberale, dove anche la sfera pubblica doveva farsi portatrice dei “valori” di mercato.
Il risultato complessivo fu uno sdoganamento dapprima di forme di intrattenimento nazionalpopolare (accanto a forme residuali di “cultura alta”) fino a pervenire progressivamente nell’arco di due generazioni ad un’omogeneizzazione del gusto al minimo comune denominatore tra Leonardo da Vinci e la nutria (ed il minimo comune denominatore, naturalmente, è proprio la nutria).
Sotto la veste di un’apparente “vicinanza ai giovani e ai ceti popolari” si è proceduto sistematicamente a smantellare il gusto pubblico ad ogni livello, seguendo di volta in volta la “linea di minore resistenza”: come la moneta cattiva caccia la buona, così il messaggio più elementare cacciava il più complesso, il significato più banale espelleva quello più originale, l’espressione più primitiva rimpiazzava quella più elaborata.
Ancora oggi questa grande operazione di riduzione del gusto pubblico a spazzatura viene rivendicato da pensosi progressisti come “prossimità ai giovani e al popolo” di contro ad un presunto conservatorismo ed elitarismo.
Così questi “intellettuali”, accomodati nella propria inettitudine, pensano ancora oggi che le trivialità da cesso pubblico della trap siano una “sfida culturale” mentre oggi l’unica provocazione che susciterebbe davvero resistenza e scandalo sarebbe somministrare al popolo Bach o Dostojevsky, Beethoven o Shakespeare.
Ma ciò che conta alla fine è il risultato, ed il risultato finale è una colonizzazione dell’immaginario giovanile con una proiezione idealizzata del disagio sociale (e mentale) dei ghetti americani. Questo è diventato il tacito palcoscenico in cui si possono mettere in scena sogni di rivalsa individuale, di stordimento, di allentamento dell’ansia, di senso di superiorità per aver fottuto il prossimo: sogni funzionali a produrre nuovi ingranaggi di un grande meccanismo anonimo che nessun sogno vede.
Andrea Zhok, nato a Trieste nel 1967, ha studiato presso le Università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex.
È dottore di ricerca dell’Università di Milano e Master of Philosophy dell’Università di Essex.
È autore di numerose pubblicazioni, scientifiche e divulgative; tra le pubblicazioni monografiche: “Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo” (Jaca Book 2006); “Emergentismo” (Ets 2011); “Critica della ragione liberale” (Meltemi 2020).